El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

considerazioni generali

raffaele taddeo

Non è un romanzo, è una rapsodia di spunti, di riflessioni, di note biografiche, di considerazioni politiche.
E' forse il primo testo di letteratura postcoloniale – una considerazione a parte andrebbe fatta per i testi di Erminia Dell'Oro – di una immigrata che arriva in Italia nella fase pionieristica della immigrazione, cioè quando il flusso migratorio in Italia era appena accennato ed era ancora una rarità.
L'apparizione nel 1994 di Lontano da Mogadiscio fu una novità all'interno della primissima produzione letteraria perché non si poneva come un racconto di vita, un racconto autobiografico, così come era avvenuto per Io, venditore di elefanti, Immigrato e Chiamatemi Alì. Gli elementi autobiografici era pochi e appena accennati.
Il libro è diviso in sei parti con l'intenzione di raggruppare gli argomenti su elementi omogenei. La prima parte è centrata sulla Somalia di una volta. E' vissuta ancora come un paese mitico, da fiaba. "Il mio Paese un tempo era il paese delle favole", è l'attacco con cui Shirin Fazel Ramzanali inizia il suo elaborato. Ma l'affermazione iniziale viene rafforzata da una serie anaforica di "c'era" e "c'erano" e finisce con "c'era un cielo immenso con le sue grandi nuvole che non finiva mai di raccontare favole" così che il senso favolistica risulta più marcato.
Data questa prima immagine della percezione della Somalia, il testo, in questa prima parte, si sofferma a raccontare il quotidiano di un paese in pace, non ancora sconvolto dalla dittatura e dalla guerra. E' uno spaccato che persiste nel rappresentare un territorio da sogno. Quasi di soppiatto ad un certo punto fa capolino la descrizione di una presenza diffusa di italiani, che, in questo quadro, non sono visti come colonialisti. Il paragrafo inizia con una frase equivoca per l'attuale cultura storica diffusa oggi in Italia: "Ai tempi della Roma imperiale le navi che partivano per il corno d'Africa erano carichi di uomini in cerca di avventure". L'idea prima è di riportarsi alla Roma imperiale di Cesare e di Ottaviano. Poi si rifocalizza il tempo storico e si comprende che si sta parlando dell'epoca del fascismo, quando Mussolini con una serie di atti bellici tenta di conquistare tutta la Somalia anche quella occupata dalla Francia e dalla Gran Bretagna. E' evidente che presso i Somali l'Impero di Roma è quello fascista, mentre per gli italiani l'Impero è solo e solamente quello dei Cesari e dei Traiano. "Le vie, le scuole, le chiese, le caserme, i monumenti, i negozi, i cinema, i ristoranti, i bar e gli alberghi erano lo scenario di questa piccola Italia che facevano della mia città una provincia italiana, in cui i nomi ricorrenti erano: Bar Impero, Bar nazionale…via Roma, Corso Italia, Ospedale De Martino..". Sembra di essere in una qualsiasi città dell'Italia. Siamo, invece a Mogadiscio.
Nella seconda parte predomina l'aspetto autobiografico ed emerge che già negli anni '70 gli italiani erano per lo meno diffidenti nei confronti di chi aveva un colore diverso della pelle. "Invece in quella piccola città italiana di provincia noi eravamo gli unici ad avere la pelle scura. Ci guardavano tutti, venivano persino a toccare la mia bambina. Era una brutta sensazione, mi dava fastidio. Mi sembrava di essere una bestia rara. La gente guardava, facevano commenti ad alta voce, toccavano la bambina, ma nessuno voleva offrire la propria amicizia".
Nella parte terza l'autrice rievoca i suoi viaggi all'estero, in giro per il mondo al seguito del marito, dirigente di un'industria italiana.
Significativa diventa la quarta parte perché tocca gli aspetti fondamentali della decadenza della Somalia, della sua condizione di paese ridotta a guerra civile, dove ogni brutalità è possibile, dove persino i bambini sono impiegati per la guerra. Non vengono individuate responsabilità precise ma la seguente affermazione dà il senso della consapevolezza delle ragioni di una tale stato di cataclisma della sua terra: "Somalia, terra di conquista. Da allora niente più commercio. I tuoi abitanti fuggirono terrorizzati verso l'interno. Vennero i colonizzatori europei e stuprarono la terra, seminando il germe degli orrori futuri. Dopo l'indipendenza, le dittature, i governi fantoccio che fanno comodo alle superpotenze".
La parte quinta tocca aspetti legati alla considerazione che gli italiani avevano ed hanno della Somalia. Tocca ancora problemi della Somalia, ma anche di come sia stata sfruttata.
"Nel mio Paese c'era una mega fabbrica di fertilizzanti che non è mai entrata in funzione, mancavano l'energia elettrica, il petrolio e il personale…C'era il progetto per il piano regolatore di Mogadiscio, costato miliardi e mai realizzato e, mentre passava di mano in mano a famosi architetti italiani, le buche nelle strade della capitale diventavano voragini…c'era una conceria, affidata a un noto creatore di moda, che non ha mai prodotto nulla. C'era uno zuccherificio ed un complesso agro-alimentare rimasti a metà. Io come cittadina italiana di origine somala mi sento doppiamente presa in giro dai risultati ottenuti in questi lunghi anni di 'cooperazione e aiuti alla Somalia'…Fiumi di miliardi sono stati spesi in Somalia ma tutto ciò che è veramente rimasto dell'Italia sono:il caffè espresso, l'amore per gli spaghetti e la pizza napoletana".
L'anaforico "c'era" non ha più il significato della prima pagina e si contrappone in forma antitetica. E' una vera accusa all'Italia che non solo non ha creato le premesse per uno sviluppo di democrazia nè durante il periodo coloniale, ma neppure negli anni della Amministrazione Fiduciaria; ha solo speculato e fatto speculare.
Sono poche le frasi, le righe che riguardano le analisi di malgoverno dell'Italia, ma sono sufficienti perché questo breve scritto di Shirin Fazel Ramzanali possa essere ascritto ad un testo di letteratura postcoloniale.
L'ultima parte dello scritto dell'autrice somala riguarda ancora il suo progressivo inserimento nella società italiana, ma termina con un grido di dolore per le sorti e condizioni del paese del Corno d'Africa.
"Io piango per la mia città che non esiste più, per un popolo che soffre, per una terra distrutta, per gli uomini impazziti, per gli animali morti. Io piango perché gli unici suoni che sento sono: fischi di pallottole, scoppi di bombe e colpi di bazooka che si alternano a grida, singhiozzi, pianti e litanie di morte."

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(ISSN 1824-6648)

lontano da mogadiscio

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 5, Numero 23
March 2009

 

 

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