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raffaele taddeo

Come tutta la produzione di Mariella Mehr anche quella poetica risente della cupezza della vita e di una angoscia esistenziale che si esprime attraverso immagini dure e spesso prive di anelito liberatorio. Anche con la lettura della poesia ci sembra di inserirci in una spirale che si inabissa sempre di più, senza mai toccare il fondo. Non c’è violenza esplicita perché la poesia non la descrive ma la condensa in immagini e metafore; c’è tuttavia, una tale violenza e asprezza di immagini da spingere agli estremi della volontà di vivere.
Eppure non è una poesia che respinge; una volta iniziata la lettura dei suoi versi non può accantonata; il libro non può essere riposto in un angolo nascosto della libreria così da lasciarci continuare la nostra vita tranquilla. I suoi versi richiedono continui ritorni,con una frequenza quasi costante, per non dimenticare che in ogni angolo del mondo c’è sofferenza, c’è stata una sofferenza che permane; la sua stratificazione come la ruggine, corrode e distrugge l’io, non gli permette di inglobare nella sua esistenza elementi che sappiano di speranza.
Sul piano tecnico – anche se il riscontro è difficile, perché si tratta comunque di poesia tradotta, sembra di poter cogliere una continua presenza di ossimori logici. Ne riporto qualche esempio con le contrapposizioni fra sale-fresca oppure luce-lupo ed ancora latte-lupo.
Una delle parole chiave della poesia di Mariella Mehr è “luce”, che spesso si accompagna a parole che entrano nella sfera semantica della luce, come stella, mattino ecc. Parole, queste, che dovrebbero portare ad elementi di speranza, di vita, ma sono spesso negate: richiamate, ma subito rifiutate. “Luce: /una parola dissolta / un dolore…”; “ di notte poi, le stelle già ingrigite, /con i capelli bianchi, il cielo divento smemorato, / cade la penombra davanti alla porta./…”
Ed ancora la parola “lupo”, ad indicare una ferocia interiore dominata, ma sentita come dirompente e incombente.
Esiste una ricerca e una volontà di comunicazione che viene espressa propio dal termine “parola”, che è spesso evocata, ma non trova canali che sappiano comunicare. Sembra che la parola rimanga soffocata e sia incapace di esprimere o di dare soluzione alla disperazione dell’uomo, alla sua infelicità. “Dove non c’è luogo / si nutre la parola della montagna non rimossa. / Disperata frase per frase, /la mia Babilonia. / Solo la ferita da aculeo tace.” Con parole biondo neve / con contro-parole/…mai diventa per me il giorno un canto /…Io sono per me l’ora che scorre nel non-tempo”.
In qualche momento sembra che ci possa essere qualcosa di più sereno, che qualche briciola di felicità si possa accaparrare, ma è sempre qualcosa di fugace che a stento è possibile trattenere per un attimo. Questo avviene quando l’intensità dell’amore supera le afflizioni che sono incarnate e coniugate con ogni attimo dell’esistenza. “Vitamia, dimmi,/ che un segno pasquale ci toglie/ dalla bilancia del dolore / e che, dando la mano al vento del sud,/ la parola sirivela./ Vitamia, prendi /la luce che fugge e salva / la parola in fuga dalla fuga.” Oppure “…Ora è tempo, fratello, / di custodire la stella naufragata, /perché nessuno la derida / con la bocca tozza.” Ma specialmente “Forma e figura,/ luce vogliamo ricavare dalla pietra, /a colpi di scalpello./…Felicità è una leggenda, / diciamo, anche oggi un troll / si aggira, si attiene / indenne alla mia parola./ Eppure, lo sai,/ Accanto ai tuoi fuochi / mi sento protetta, / carezzo le nostre mani / sulla pelle comune.” La silloge tocca anche altri temi. La persecuzione degli zingari (per tutti i rom, sinti e jenische, per tutte le ebree e gli ebrei per tutti gli uccisi di ieri e per quelli di domani) ma di tutti perseguitati in generale è cantata con versi che raggiungono il lettore con forte intensità ed emozione. Sono versi di una sensibilità poetica di grande spessore: “Abbiamo pianto invano le nostre madri /davanti ai patiboli, / e ricoperto i bambini morti con fiori di mandorlo / per scaldarli nel sonno, il lungo sonno.”
A volte l’intensità poetica si fa espressionista come in:”Un urlo ha preceduto questo giorno,/ perché il mattino / non era nato per sorridere”. E tuttavia l’intonazione poetica non è espressionista perchè il dolore vive nel profondo non riesce ad articolarsi in parole compiute ed efficaci.
Mi sembra opportuno segnalare il tema dell’assenza di un territorio da considerare come ospitale e come proprio, cioè legato ad una appartenenza. Un sentimento forse connaturato ad una cultura zingaresca, a qualunque comunità si appartenga, rom, sinti o jenische, ma questa concezione trova un riscontro in quanto emerge in maniera molto sottile ma profonda, nella letteratura della migrazione, specie, ad esempio, in Gezim Hajdari, ma non solo.
Dice Mariella Mehr: “Nessun astro gli viene addossato, /nessuna direzione del cielo di cui il mio amico / possa disperarsi. /senza sospetto sguinzaglia il coraggio, / un viaggio da qui a là /che sempre termina dove non c’è nessuna casa.” In Gezin Hajdari il proprio corpo diventa la sua patria, nella scrittrice svizzera jenische la patria è la sofferenza e la violenza subita. Perché “ovunque ci trasferiamo troviamo sempre lo stesso luogo” che non risolve le angosce interiori, non risolve l’infelicità continua e quotidiana che neppure il mattino o le stelle riescono a dissipare.

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(ISSN 1824-6648)

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A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 5, Numero 20
June 2008

 

 

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