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raffaele taddeo

“Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m’aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa”.
Iniziare una analisi al testo di Mariella Mehr con una citazione di Proust può essere provocatorio e disorientante, eppure, il senso letterario più profondo delle pagine narrative della scrittrice svizzera è molto simile a quello dell’autore francese. Che cosa li accomuna?
La funzione del ricordo. Non un ricordo mentale, ma quello che nasce quando un senso ne è toccato e risveglia sensazioni interne, esperienze profonde.
Si confronti il passo di Proust con questo della Mehr: “Dietro la sua fissità si percepisce un’insopportabile tensione interiore. Si trasmette ad Anna, scuote la sua memoria, la scaraventa in una notte dietro la cappella del collegio. Indietro, da Franziska. La quale, con le ferite ancora visibili, le singhiozzava tra le braccia il proprio dolore e le raccontava ciò che era successo, là fuori oltre le mura del collegio, dove le ebree venivano chiamate puttane ebree e picchiatori ubriachi dicevano tiinsegnoio e poi picchiavano, a causa del pane che quella schifosa, dicevano, toglieva loro di bocca”.
Nel caso di Proust è il senso del gusto che risveglia l’emozione e lo riporta alla “vecchia casa grigia sulla strada, nella quale era la sua stanza…e con la casa la città, la piazza dove mi mandavano prima di colazione, le vie dove andavo in escursione dalla mattina alla sera…tutto quel che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè”. Nel caso della Mehr è il dolore che scatena il ricordo e che fa prendere consistenza e solidità alla storia del rapporto fra Anna e Franziska, le protagoniste di questo duro romanzo.
C’è una differenza però fra le due poetiche. In Proust il ricordo della “Maddalena” porta a ricostruire l’ambiente e solidificarlo nei ricordi e nelle piacevolezze dei ricordi, nella Mehr invece il riaffiorare del ricordo della sofferenza porta a ripercorre e riscoprire le sue cause, perché la gioia rimane un momento positivo che non ha bisogno di essere rivisitato, analizzato nei suoi perché, la sofferenza invece obbliga sempre a ripensare le cause; l’esito delle gioie rimane ancorato a quei momenti, l’esito delle sofferenze, specie se derivano da violenze è sempre ancora una sofferenza e una violenza che si perpetua nel tempo e che continua a manifestare i suoi effetti anche a grande distanza di tempo. Ed è questo il secondo aspetto del romanzo di Mariella Mehr: narrare come non si riesce a sfuggire al “marchio” imposto dalla violenza. Non c’è ancòra di salvezza, perché una qualunque esperienza che faccia corporalmente riaffiorare le violenze passate diventa una miccia per riscoprire in sé le sedimentazioni della violenza che non possono essere allontanate.
Tutto il romanzo verte nell’analizzare questo vortice in cui la protagonista, anche inconsapevolmente, cade. C’è una tensione dinamica di Anna che vorrebbe continuare ad apparire una normale massaggiatrice di pazienti che necessitano di questo particolare accudimento e nel medesimo tempo è sommersa dai ricordi: della violenza subita dalla piccola amica ebrea; delle violenze subite lei stessa, da piccola; dei rapporti affettuosi, ma al limite del sadismo avuti con Franziska; della violenza esercitata nei confronti di chi la offendeva e, infine nei confronti di Franziska stessa.
E’ un romanzo che non dà spazio ad alcuna illusione di riscatto, perché questo è possibile solo quando là dove la sofferenza è compensata da affetto, sena il quale il riscatto è solo una illusione. La violenza subita imprime una tale impronta nell’animo che diventa impossibile estirparla, diventa l’abitus del proprio comportamento e della propria vita. Anna, anche quando ormai è addetta alla cura di altre persone, si mantiene in una situazione di precarietà emotiva. Si è costruita una serra con piante carnivore e impiega il suo tempo libero ad osservare come e quanto una pianta impieghi nel distruggere e soffocare l’insetto, incautamente appoggiatosi alle sue foglie.
Anche in questo romanzo, come in labambina, centrale è il crocifisso. Avviene quasi una identificazione fra Franziska e il crocifisso. Anna bambina continua a costruire crocifissi, crocifissi di carne, con gli uccelli che inchioda con le ali stese mentre sono ancora vivi, crocifissi di legno su cui dipinge la sagoma di un Cristo sofferente, crocifissi di affetto, perché è bacia, si abbandona a Franziska stesa sulla croce, crocifissi reali perché alla fine inchioda la stessa amata Franziska su una croce.
Cristo è visto solo nella sofferenza, non è venuto a salvare nessuno, è stato solamente vittima della sofferenza e della violenza degli uomini. Il crocifisso non è il vessillo del riscatto dell’uomo, ma è la rappresentazione iconica più lucida e significativa del comportamento violento dell’uomo.
Chi ne fa le spese sono sempre le persone più emarginate, gli ebrei, gli zingari. Il crocifisso, da una parte sta a incorporare la colpa degli emarginati stessi, sembra che stia lì perché ebrei, zingari sono responsabili della crocifissione, dall’altra materializza la modalità violenta dell’uomo.
Anche questo, come la bambina è un non romanzo, perché da una parte il dolore, la sofferenza, la violenza, fissati nella loro immutabilità assumono un aspetto epico, dall’altra la storia è antistoria perché non si evolve, si attorciglia, si inabissa nei più profondi ricettacoli della crudeltà umana.

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(ISSN 1824-6648)

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A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 5, Numero 20
June 2008

 

 

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