C’è chi sostiene che ci sia una differenza fra scrittori migranti e migranti scrittori. I primi erano già scrittori nel loro paese d’origine e hanno continuato la loro attività anche in un altro paese e in un’altra lingua. Gli altri lo sarebbero diventati a causa della emigrazione e la loro attività di scrittura potrebbe essere transitoria. Ritieni che l’esperienza della migrazione possa essere la molla per scoprire in sé la capacità di scrivere e rimanere poi tale come seconda o prima professione?
Mettere l’aggettivo “migrante” prima o dopo “scrittori”? Saranno utili queste differenziazioni? Per me, l’unico spartiacque valido tra gli scrittori è quello basato sulla qualità della loro produzione. Sì, credo che l’emigrazione possa essere un fattore che spinge alla scrittura. Nell’economia personale, emigrare è un evento della massima importanza: cambia radicalmente una vita. Si può approdare alla scrittura per raccontare questa esperienza. Tutto sta nel vedere se la persona ha qualcos’altro da dire oltre al resoconto autobiografico. Penso che l’esperienza del raccontarsi possa proseguire nello sviluppo di una capacità narrativa non necessariamente legata all’autobiografia ma all’osservazione e descrizione della realtà del nuovo paese.
La letteratura della migrazione incomincia ad essere conosciuta e apprezzata. Che rapporti fra voi della letteratura della migrazione e gli scrittori italiani?
L’unico rapporto che ho con gli scrittori italiani è quello della lettura, cioè li leggo. La situazione con gli scrittori stranieri che scrivono in italiano è diversa per le varie occasioni di incontro in viaggi per tutta Italia, in convegni, festival di letteratura, scambio di e-mail. Mi domando fino a che punto la differenziazione tra “letteratura della migrazione” e “scrittori italiani” possa aiutare verso l’omologazione nella categoria unica di scrittori.
Scrivere in italiano modifica l’immaginario? Voglio dire scrivendo in italiano i paragoni, le similitudine, le metafore, i simboli sono simili a quelli che si usano scrivendo nella propria lingua o si sviluppa qualche alterazione così che l’ibridazione linguistica non si ha solo sui termini, ma anche più profondamente?
Sì, scrivere in italiano arricchisce l’immaginario, lo rende più duttile, allarga l’anima. Le trasformazioni sono profonde. Durante la notte, spesso sogno di trovare nuove camere in una vecchia casa. Nel sogno, rimango sorpresa di scoprire queste camere. È vero che non esiste un’interpretazione unica per il sogno, ma mi piace vedere queste camere nuove come le nuove possibilità che mi offre la lingua italiana. La vecchia casa si trasforma con le camere scoperte dopo.
Nella tua produzione emergono di tanto in tanto personaggi che sopportano sofferenze psichiche. Quanto influisce il tuo lavoro nella creazione dei tuoi personaggi?
Già scrivevo dei racconti prima di essere psicologa e prima di lavorare come psicoterapeuta, ma sicuramente gli studi della psicologia e la pratica psicoterapeutica mi hanno dato più sicurezza nell’esplorare le infinite possibilità del dolore umano. Nelle mie attività lavorative (sia come psicoterapeuta, sia come scrittrice), come sostrato di fondo esiste un forte interessamento per i labirinti che portiamo dentro.
La tua scrittura si è fatta sempre più profonda, nel senso che si è sempre più legata a personaggi emarginati. Ne è prova il romanzo 500 temporali. Quali sono i motivi che ti fanno prediligere questi personaggi e storie legate alla loro condizione sociale?
Tolstoi dice nell’incipit di Anna Karenina: “Tutte le famiglie felici si assomigliano, ma ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.” Io credo che si scriva un romanzo perché c’è qualcosa che non va. Se tutto va bene, non nasce un romanzo. M’interessano gli aspetti inquietanti dell’esistenza, le ossessioni che spesso guidano le azioni, l’irruzione del fantastico nella vita quotidiana. Mi interessano gli esseri umani provati da situazioni difficili, situazioni che mi permettono di esplorare quel punto di rottura che apre una vita alla trasformazione. Questo si verifica sempre ai margini, fuori dalla normalità. Non sono una scrittrice da intrattenimento. Il mio romanzo si svolge in una favela carioca e mostra un Brasile diverso, sconosciuto ai turisti, un Brasile che ha bisogno non di uno ma di cinquecento temporali, uno per ogni anno della sua esistenza.
Tu associ la nostalgia alla tristezza. Questa, insieme alla infelicità, allo “spleen”, è una condizione universale dell’uomo e ne può essere elemento di elevata poesia. Pensi che anche la nostalgia possa essere strumento e materia di elevata poesia?
Certamente. La saudade (la nostalgia) è quello struggimento malinconico che accompagna un ricordo felice. Ha a che fare con la felicità ma è triste perché si riferisce ad una situazione finita, già vissuta. La saudade può diventare la forza che aiuta a tradurre il proprio passato attraverso l’atto creativo. Non esisterebbero tradizione e cultura senza questa nostalgia.
La rivista el-ghibli è nata con la presunzione di essere un punto di riferimento per gli scrittori della letteratura della migrazione. Ritieni che stia svolgendo questo compito? Che cosa dovrebbe avere in più o di diverso per essere più seguita.
A mio avviso, non si tratta di una presunzione ma di un efficace risultato per offrire uno spazio agli scrittori che vengono da altri paesi ma che si esprimono nella lingua italiana. Penso che el-ghibli continuerà a soffiare sempre più intensamente.
Che riscontro ha avuto il tuo romanzo e che progetti hai per il futuro.
Sono state fatte molte recensioni on line. Anche tu, Raffaele, hai recensito 500 Temporali in el-ghibli. Sono usciti dei commenti su riviste di letteratura. Clotilde Barbarulli ha scritto su 500 Temporali in Le Monde Diplomatique. Io ho presentato il romanzo nel Festival di Letteratura di Mantova dell’anno scorso e in varie altre città italiane. I lettori mi dicono che si sono emozionati con il romanzo. La scrittrice Mariangela Sedda mi ha scritto dicendo che 500 Temporali vale più di un trattato sociologico sul Brasile di oggi.
Il futuro? Preferisco, se non ti dispiace, parlarne quando i progetti avranno delle basi più concrete.
Grazie, Raffaele, del tuo interessamento e del viaggio che hai intrapreso nella mia scrittura.