Che cosa vuol dire essere uno scrittore migrante?
Nel suo bellissimo articolo “Africa dall’esilio”, Ali Mumin Ahad dice: “Ogni uomo è un mondo, ma lo scrittore, così come lo storico, deve, in più, essere capace di riunire in sé miriadi di mondi possibili, con la sua capacità di descrizione e di rappresentazione delle realtà e degli avvenimenti storici, in un unico diario del quale diventi possibile una veloce lettura che possa consentire a tutti di rammentare in ogni istante il proprio passato, di capire i processi storici attraverso i quali si sono formate identità e cultura del loro essere parte dell’umanità, ma soprattutto perché sia messa a disposizione di tutti una chiave di lettura della realtà in cui si trova a vivere.” (pg. 105 di “Poetiche africane” a cura di Armando Gnisci, Meltemi, 2002).
Lo scrittore è un alchimista che trasforma le sue esperienze, le sue emozioni ed i suoi progetti nell’oro delle parole. La sua personale “chiave di lettura della realtà”, la sua Weltanschauung, è sempre presente nei suoi scritti, a tal punto che possiamo prendere il detto evangelico “perché là dov’è il tuo tesoro sarà anche il tuo cuore” e riformularlo per lo scrittore: “perché là dov’è il tuo testo sarà anche il tuo cuore”.
La visione del mondo di uno scrittore ha a che fare, prima di tutto, con il suo paese di origine. E qual è il paese di origine di uno scrittore? Quello in cui lo scrittore è nato? No. Il paese che lascia un’impronta indelebile su ognuno di noi non è necessariamente il paese in cui nasciamo, ma quello in cui abbiamo vissuto l’infanzia. La storia di ognuno di noi è vincolata ad eventi collettivi ma è anche legata ad una trama di accadimenti personali che segnano il nostro modo di essere ed il nostro modo di scrivere. Gioiosa o triste, luminosa o buia, l’infanzia è la vera patria di uno scrittore. È il paese in cui impariamo una lingua (o più di una) e in cui si forma il nostro inconscio.
E il migrante, chi è?
Se apriamo lo Zanichelli troviamo, sulla voce “migrare”: “abbandonare il proprio luogo d’origine per stabilirsi altrove.” Una volta, il termine si riferiva solo agli uccelli. Oggi, i migranti sono esseri umani spesso costretti a lasciare il loro paese per stabilirsi da un’altra parte.
Uno scrittore migrante lascia tre madri: la madre biologica (il mondo degli affetti); la madre patria (il mondo delle tradizioni e delle usanze) e la madre lingua (il mondo della struttura mentale). Una lingua non è solo uno strumento di comunicazione. È soprattutto uno strumento di identità. Una lingua è sempre associata ad immagini, a ricordi, a persone, a paesaggi, a colori, a sapori, suoni e odori. È una gamma di sensazioni che lascia tracce profonde sul corpo e sulla mente. È la parte sensibile della nostra struttura mentale. Sono le nostre prime vibrazioni. Una lingua plasma l’apparato fonetico per la riproduzione di certi suoni che se non vengono imparati da piccoli, spesso non potranno più essere raggiunti. Chi vive l’infanzia in un paese, se lo porta in sé per tutta la vita insieme alla sua lingua.
Lo scrittore migrante sarà quello che abbandonerà il proprio luogo di origine, come gli uccelli, per vivere altrove. Con due grandi differenze: gli uccelli, passato il periodo della migrazione, ritornano al posto di origine; raramente, gli esseri umani. Gli uccelli volano con le proprie ali nel paese di arrivo, mentre noi, scrittori migranti, dobbiamo acquisire nuove ali. E le nostre nuove ali sono la nostra nuova lingua. La lingua dell’infanzia è la nostra lingua madre; la lingua acquisita all’arrivo nel nuovo paese, sarà sempre una lingua matrigna. Possiamo andare d’accordo con la nostra matrigna, ma continueremo a dialogare anche con la madre che portiamo dentro.
Scrivere migrante sarà prima di tutto familiarizzarsi con le nuove ali. In Italia, i primi scrittori migranti sono stati accompagnati da scrittori o giornalisti italiani.
Quando arriva al paese che lo ospita, uno scrittore migrante all’inizio facilmente parlerà dei suoi ricordi distanti. La letteratura nostalgica fa parte di una prima fase della sua scrittura. La letteratura della migrazione viene da mondi caratterizzati da grosse contraddizioni. Affonda le sue radici nella storia dei nostri paesi. Le sue prime tematiche possono essere, per esempio, l’ingiustizia che dimora dalle nostre parti. La nostra letteratura sarà prima di tutto, un grido per far conoscere le condizioni in cui vivono i nostri popoli. La lontananza ci dà una più profonda consapevolezza dei problemi dei nostri paesi. Ma i temi legati ai nostri paesi fanno parte di un primo momento della letteratura della migrazione. Un pericolo per gli scrittori migranti potrebbe essere quello di rimanere confinati alla tematica della migrazione o legati necessariamente al folcloristico, all’esotico o alla storia dei loro paesi.
Noi, scrittori stranieri, portiamo dentro di noi un mondo diverso ma viviamo e lavoriamo qui, usiamo la lingua italiana, partecipiamo dei problemi delle città in cui ci troviamo. Possiamo e dobbiamo scrivere anche sulla nostra realtà attuale.
Entriamo nella seconda fase della letteratura della migrazione, quando esiste già la possibilità per i migranti di formulare anche una visione della società italiana. Cambia, pertanto, la tematica. Abbiamo qualcosa da dire sull’Italia che è diventata una società multietnica, noi che siamo parte in causa di questo cambiamento? Dobbiamo trovare la nostra ispirazione ad occhi chiusi, guardando sempre il passato, o la troveremo con gli occhi aperti anche sull’Italia di oggi?
Cresciute le nostre nuove ali (accanto alle vecchie ali con cui siamo arrivati e che continuano a far parte della nostra fisiologia di scrittori migranti), la tendenza della nostra letteratura sarà quella di manifestarsi in temi che avranno a che fare con le nostre attuali esperienze, con l’Italia, le sue trasformazioni, le sue contraddizioni.
Lo straniero coglie degli aspetti che sfuggono a chi ci ha sempre vissuto in un posto e che finisce per accettare come inevitabili certe abitudini. Lo straniero è un bambino capace di guardare con stupore quello che agli altri non sorprende più.
Inoltre, i vissuti nuovi obbligano alla ricerca di nuove espressioni.
Fra un po’ di tempo, chissà se si potrà parlare di un apporto linguistico da parte dei migranti. Possibile che le integrazioni linguistiche si verifichino solo nel campo della tecnologia e dell’economia? Dove la forza della letteratura? Dove l’impulso vitale della poesia? Parole uscite dai nostri testi letterari potranno accompagnare le già logore parole tecnologiche. Sarebbe bello che accanto alla “new economy” ci fosse uno spazio per la “saudade”; che le “favelas” e i “meninos de rua” potessero essere compresi dagli italiani nella stessa misura in cui oggi capiscono “file” o “link”… Se accettiamo “cliccare” o “chattare”, perché opporre resistenza ai neologismi della letteratura della migrazione?
Noi, scrittori migranti, radunati qui, a Roma, nel nostro I° Festival Europeo, portiamo alla letteratura italiana delle tematiche e delle parole nuove, delle emozioni legate ai nostri attuali vissuti e, soprattutto, un’angolatura diversa nell’osservare l’Italia. Proprio in questa diversità risiede la forza della nostra letteratura.