El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

convegno sulla pace a Cantù

Christiana de Caldas Brito

Cantù, 21 novembre, 1999

parliamo di pace

La pace costa cinque milioni novecento novanta mila lire. E’ una bellissima cucina. La possiamo vedere in molti cartelloni pubblicitari appesi a Roma. C’è la foto della cucina completa, arredata dai più moderni elettrodomestici. È una cucina del tutto speciale: ci offre la pace.
Pieni di convinzione, i monaci dello spot televisivo dicono il suono sacro OM. Ai monaci si è aperta la via della contemplazione? No. Hanno succhiato una caramella che apre le vie respiratorie.
Una donna accanto ad una macchina, in una posizione yoga. Quella donna ha avuto un contatto più profondo con se stessa? No. Ha appena comprato un certo modello di macchina che promette l’interiorità. L’interno della macchina è lussuoso. Entrarci significa entrare in una nuova dimensione di coscienza.
La pace? Si ottiene con una cucina.
Per una comunicazione più profonda con il trascendente, basta una caramella.
Per l’auto consapevolezza, l’auto…

Cosa sta succedendo ai valori più alti della nostra civiltà?
Invasi dalla pubblicità, i valori della nostra civiltà stanno diventando beni di consumo. La pace, un gadget come una Barbie o un walk man o un computer.
Stiamo permettendo che i nostri valori spirituali siano venduti come articoli. Così, se abbiamo dei soldi per pagare una determinata macchina, raggiungeremo l’armonia interiore. Saremo in pace se compreremo quella determinata cucina. Cinque milioni novecento novanta mila lire…
Persone intelligenti, quelli della pubblicità. Sanno di cosa abbiamo bisogno. Nelle nostre giornate rumorose ed inquinate, piene di fretta, vissute senza tempo per fermarci, i pubblicitari hanno compreso che abbiamo bisogno di interiorità, di calma, di pace. Ma questi valori non si comprano. Sono valori che nascono quando coltiviamo il silenzio. Sono prodotto di contemplazione. Contemplare vuol dire allontanare i pensieri, svuotare la mente, spodestare un ego attaccato a riconoscimenti e successo, per sviluppare la consapevolezza che apre la mente alla realtà e all’azione pacifica. Potrei citare due esempi di attivisti della pace: Albert Schweizer (Nobel per la pace nel 1952) e Madre Teresa di Calcutta (Nobel per la pace nel 1979).
In un mondo in cui l’ignoranza e la banalità ci telecomandano, in un mondo di rumori invadenti (traffico, motorini, clacson, discoteche, spot televisivi in cui urlare è diventato uno stile, radio accese a tutto volume nelle spiagge, telefonini che squillano da tutte le tasche), la contemplazione che ci porta a scoprire la pace, è diventata un lusso quasi irraggiungibile.
Corrado Pensa scrive nei suoi saggi sulla meditazione buddista: “Oggi si sente spesso parlare delle sfide del terzo millennio. Personalmente, non riesco a vederne una più cruciale di questa: far capire che la contemplazione non è un lusso, ma una necessità naturale”.
Esiste, come vediamo, un diritto al silenzio della contemplazione, un diritto alla pace.
Ma i beni spirituali di cui abbiamo bisogno sono subdolamente associati a beni materiali superflui. Si crea, così, una connessione logica fra di loro per farci credere che la cucina di cinque milioni novecento novantamila lire sia portatrice di pace.
C’è qui una doppia illusione. Primo: quelli della pubblicità hanno un prodotto da vendere e della pace o dell’interiorità non se ne importano assolutamente. A loro interessa solo vendere il prodotto. Secondo, ed è l’aspetto più triste di quest’illusione: i valori spirituali non possono essere né regalati né comprati: sono e saranno ottenuti con uno sforzo interiore personale, costante.
Le dottrine spirituali - tutte - hanno sempre considerato la pace come distante dal possesso dei beni materiali. Ma oggi, grazie ad una manipolazione mentale, i valori dello spirito sono nello stesso livello delle valigie 24 ore, delle tute griffate e degli atlanti a noi regalati nei benzinai vicino casa.
Dove comincia il lavoro per la costruzione di un mondo pacifico?
Sicuramente troviamo delle risposte giuste quando parliamo di conoscenza e rispetto dei diritti, assenza di dogmatismo, comprensione del diverso. Non sbagliamo quando lottiamo per l’applicazione di leggi che difendano questi principi. Corriamo però il rischio di scivolare nella retorica se lottiamo per queste verità senza il lavoro di conquista e mantenimento della pace interiore. E non è facile essere in pace. Non essendo un bene di consumo, la pace non è mai totalmente raggiunta. Né possiamo farne delle scorte perché la realtà cambia e la pace è contatto consapevole con la realtà. La pace va sperimentata giorno dopo giorno. Vivere in pace è una sfida permanente.

Vi racconto una storiella brasiliana. Siamo in Amazzonia. Non molto lontano dal grande fiume. In piena foresta, si sviluppa un terribile incendio. Le fiamme cominciano la loro distruzione. Il fuoco si propaga, arde la vegetazione, cadono gli alberi.
Un uccellino vola, in mezzo al fumo provocato dall’incendio. Si avvicina alle acque del fiume, prende con il becco una goccia d’acqua, vola verso la zona dell’incendio e fa cadere la goccia d’acqua. Ritorna al fiume, prende un’altra goccia, vola verso l’incendio e la butta giù. Ripete questo in continuazione. Gli altri animali vedono l’uccellino indaffarato e uno di loro gli grida: “Guarda che non serve a nulla quello che stai facendo! L’incendio va avanti lo stesso. Le gocce che mandi giù sono inutili!”
Senza fermarsi, l’uccellino risponde: “Non so se l’incendio si spegnerà, ma io sto facendo la mia parte.”
Come dice il proverbio africano: “Chi vuol fare sul serio qualcosa, trova una strada; gli altri, una scusa.”
Finché crediamo che la pace sia un problema degli altri, stiamo contribuendo alla guerra.
Il sottofondo della pace è una realtà fatta di problemi. Se c’è un problema, c’è una soluzione e lavorare per la pace sarà esattamente lottare per le soluzioni. La calma mentale non è sinonimo di oziosità. “La vera calma” lo dice Suzuki, “va scoperta nell’attività stessa”.
Noi però, spesso diciamo che una persona è pacifica quando vogliamo dire che quella persona vive isolata nel suo cantuccio, senza mescolarsi agli altri.
Che idee associamo al concetto di pace? L’inerzia del “requiescat in pace” dei defunti? Il letargo del pacioccone? L’ozio del fannullone? Diciamo “lasciami in pace” quando non vogliamo essere disturbati. Ma il concetto di pace sarà così negativo?
Ho fatto una piccola indagine tra persone che conosco. Volevo vedere che idee avevano sulla pace. Ecco alcune delle risposte:
Un bambino di otto anni: “pace è quando mio padre non vuole che io e mio fratello litighiamo”.
Una commessa di ventinove anni: Pace è la tranquillità, vuol dire essere serena con la mente”.
Uno studente liceale: “Pace? Significa non avere problemi e stare tranquilli con la propria coscienza”.
Un industriale: “Pace è l’assenza di guerra.”
Da notare: praticamente tutti pensano che quando c’è un problema, la pace se ne va; tutti hanno delle connotazioni negative della pace che è vista come assenza di conflitti o di disturbi. A quasi tutte le risposte, manca una comprensione dialettica della realtà.
Eppure lavorare per la pace significa capire che la guerra inizia sempre dentro di noi. Le polarità del mondo esterno: bene-male, bello-brutto, luce-tenebre, giustizia-ingiustizia, pace-guerra, sono anche delle polarità interne.
Per un meccanismo psicologico difensivo, tendiamo sempre a vedere quello che urta la visione positiva, che abbiamo di noi stessi, fuori di noi: è nostra sorella che è invidiosa, non noi; la cucina dei vicini manda odori cattivi, non la nostra; gli extracomunitari sono responsabili della disoccupazione, non le insufficienti azioni politiche delle autorità.
Questo meccanismo psicologico difensivo si chiama proiezione. Perché difensivo? Perché con la proiezione, vediamo in noi solo quello che è bello, gradevole, buono. Ci difendiamo dal vedere in noi il polo negativo della nostra realtà. Ci alleggeriamo dal peso delle cose che non ci piacciono. Le buttiamo sugli altri.
Quando proiettiamo i nostri lati oscuri, noi crediamo di essere fatti di sola luce. Ma di notte, quando dormiamo, ecco che i nostri lati oscuri sorgono. Chi di noi non ha mai sognato di essere perseguitato da un animale selvaggio? Chi, nei sogni, non ha mai litigato con qualcuno? Chi non ha ancora sognato una persona cattiva che ci tratta male? È un eccellente modo per conoscere le parti interne che non riconosciamo come nostre e che si presentano mentre dormiamo. Ci alziamo e diciamo: “Meno male che era un sogno”, trascurando il fatto che il sogno parla del sognatore, non delle persone che lui sogna.

Nel film iraniano Il sapore della Ciliegia, un uomo racconta che essendosi toccato la testa con un dito, sentì dolore; tenne il dito premuto contro l’occhio e sentì dolore; toccò la spalla, ecco il dolore, mise il dito sul ginocchio, nuovamente il dolore. Allora, sto proprio male, pensò l’uomo. Dovunque mi tocco, sento dolore. Finché capì che era il suo dito che stava male.
Noi diciamo che gli altri sono falsi, i più giovani irresponsabili, i profughi violenti. In realtà, parliamo del nostro dito.
In una democrazia, la semplice opposizione è già un conflitto. La guerra è sempre in agguato. Fa parte della dialettica del vivere. Dentro e fuori di noi. Le polemiche sorgono dappertutto. Persino fra i giurati del Comitato per l’assegnazione del premio Nobel per la pace…
Pensiamo che con i problemi perda la pace perché, come abbiamo visto, concepiamo la pace come assenza di conflitti, mancanza di discussione (“Come è stata l’assemblea?” Pacifica. Tutti d’accordo.”) Vuol dire che se ci sono delle opinioni diverse, la pace scompare? A quale ideologia ci porta un simile modo di comprendere la pace?
È nella pace che si trovano le soluzioni ai problemi. Nella guerra, invece, i problemi sono risolti in modo arbitrario, con violenza, senza il rispetto delle regole, senza considerare i diritti delle persone e dei popoli.
Spesso diciamo: “Giusto adesso che stavo in pace, mi sorge questo problema…” Oppure: “Appena risolvo un problema, me ne sorge un altro.” È giusto che sia così. Il segreto è guardare a faccia a faccia i problemi. Un nuovo problema davanti a noi significa essere in contatto con la realtà, ci dà la possibilità di allargare la nostra consapevolezza. Le difficoltà non sono negative. Sono segnali che indicano i punti che dobbiamo lavorare per progredire. Questo vale anche per le società.

Durante l’estate di quest’anno, ho partecipato ad un festival internazionale di poesia a Struga, una graziosa cittadina sul Lago di Ochrida, nella Macedonia. (Se avete visto il film macedone “Prima della pioggia”, vi ricorderete del bellissimo monastero medievale in cui ha inizio l’azione del film. Quel monastero si trova in alto ad una collina che si affaccia sul lago di Ochrid.)
Poeti di tutto il mondo si sono trovati a Struga per recitare le loro poesie. Ai margini del fiume Drim (fiume che segna i confini tra la Macedonia e l’Albania) nella sera di domenica 29 Agosto, migliaia di persone, io fra loro, si sono radunate per sentire poesie da tutto il mondo. Ero arrivata da Skopje, la capitale della Macedonia, e da lì avevo visto, molto da vicino, le montagne del Kosovo, scenario di una recentissima guerra.
Osservando i poeti che recitavano i loro poemi e che poi se li scambiavano, mi resi conto dell’importanza degli incontri per mantenere accesi i valori della nostra civiltà. Mi sembrava di sentire nella voce dei poeti, quello che Simone de Beauvoir ha giustamente chiamato “i mormorii sotterranei della speranza”.
In un mondo pieno delle ferite e delle cicatrici di tante guerre, è giusto creare dei momenti per mantenere viva la poesia. Credo che un uomo difficilmente userà armi da fuoco contro un altro uomo, se ha potuto sentire ed apprezzare la poesia della patria di quell’uomo.
Bisogna confermare la dignità umana con la riflessione e con la cultura, come stiamo facendo qui a Cantu.
Giovanni Paolo II ha detto: “Ad uccidere, prima delle armi, è il cuore dell’uomo.”
Questo convegno ci offre l’opportunità di rendere più sensibile il nostro cuore. Ai suoi organizzatori, grazie.

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(ISSN 1824-6648)

Christiana de Caldas Brito

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 4, Numero 16
June 2007

 

 

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