El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

convegno a Udine

Christiana de Caldas Brito

Convegno di Udine, 26 e 27 aprile 2005

SOGGETTI IN MOVIMENTO

Nel ringraziare la gentilezza con cui mi ricevete oggi a Udine, vorrei dire due parole sull'ospitalità. Di solito si crede che l'ospitalità consista nel dare qualcosa a qualcuno. Ma il "dare" spesso enfatizza l'abbondanza di chi dà, e può essere facilmente associato ad un potere. Secondo me, la vera ospitalità consiste soprattutto nel saper ricevere, cioè nell'offrire ad una persona la possibilità che lei, a sua volta, possa offrire qualcosa. Chi riceve, afferma implicitamente di essere aperto ai valori altrui. Da problema sociale, da inevitabile seccatura storica, i migranti possono diventare, grazie alla vera ospitalità, portatori di risorse creative.
Confermo quanto detto dalla scrittrice migrante Shirin Ramzanali Fazel, autrice di Lontano da Mogadiscio: "La civiltà di un paese non sta nella ricchezza economica o nelle persone elegantemente vestite in abiti griffati, bensì nel modo in cui questo paese tratta i propri ospiti."
Sono qui come scrittrice, come donna e come migrante, per presentarvi la mia poetica che scaturisce proprio dal fatto di essere una brasiliana che vive in Italia e che scrive nella lingua italiana.
Non sono stata costretta a venire dal Brasile per ragioni di povertà o per il bisogno di un lavoro, come gran parte degli immigrati, ma resto comunque un'immigrata. Per me, come ho detto nell'introduzione di Amanda Olinda Azzurra e le altre, gli immigrati sono quelli che abbandonano le loro tradizioni e abitudini, la propria lingua, il modo di vivere e di pensare, per immergersi in un nuovo paese. Ogni immigrato presente nel territorio italiano ha una sua storia personale che lo rende diverso, ma il distacco dal paese di origine e l'inserimento in Italia è un'esperienza che ci accomuna tutti.
Come ho iniziato ad essere una scrittrice in Italia?
Nel 1995, inviai un mio racconto - Ana de Jesus- al 1° Concorso Letterario per Immigrati, organizzato dall'Associazione Eks&Tra e da Fara Editore, di Rimini. Ho ricevuto il 2° Premio Narrativa. In questo racconto, sono entrata nella mente di una colf che viene da un qualsiasi paese dove si parli la lingua portoghese, (non necessariamente il Brasile). Nel monologo, la colf si dirige alla signora presso cui lavora, le racconta come viveva nel suo paese, come si sente in Italia, e finisce per prendere una decisione che cambierà completamente la sua vita. Il linguaggio della colf è una lingua ibrida, volutamente sgrammaticata: il "portuliano", molto simile alla lingua parlata dagli emigrati italiani che sono andati in Brasile tra fine l'Ottocento e inizio Novecento. Vi offrirò un assaggio, leggendovi un brano del racconto, rinforzando il mio accento brasiliano che ogni tanto riesco a camuffare:
“Signora, qui triste e freddo. Lo so, lei dato me capotto bello, ma paese mio non bisogno capotto. Là il sole scalda da genaro a dicembro. Impermeabile neanche serve. Ieri sera, signora, piovudo forte, no? Io presa pioggia su corpo, capelli. Tutto bagnado. Io rideva, contente, e tutti guardavano come io era pazza. Paese mio prendo sempre pioggia. Non polmonite.
Italia ricca, tutti coperti non senteno piacere di pioggia nel corpo. Chi lavora non sta felice con lavoro, tutti corrono e nessuno non ha tempo di fare le cose che piaceno fare. Mangiano e parono felici di mangiare, ma poi vanno al dottore per parlare di quello che hanno mangiado.
Bambina mia non mangia bene. Quando venuda in Italia, io ho comprado al supermercado latina di carne per mandare a mia figlia. Io pensava che ci stava foto di cagnolino bello per divertire i bambini. Poi, rideva molto io. Era carne per cane. Sorella mia scrive che mia figlia mai mangiado così buono. Cani italiani mangia meglio di bambini del paese mio. Cani del mio paese magri, magri. Gente, pure.
Io, piccola, giocava con cani e gatti in braccio come bambole e scatole vuote come case di bambole. Io mandado Barbie paese mio, ma lì non piaceno Barbie. Mia figlia tagliado capelli di Barbie e domandado a mia sorella: non ha pidocchi là dov’è mamma? Domandado pure se gente anda nuda qui perché Barbie era senza vestido.
Mio paese...Io notava nuda nei fiumi. Io, Nico, Zezé e gli amighi. Fiumi gialli di fango, con pietre grandi. Nostro sciugamano era il sole.
Anche tu, signora, dici che non ti piace lo inverno, ma quando è estate ti preparo tutta roba di lana per te andare in montagna dove fa freddo. Parli alle tue amighe che la vacanza è bella, ma tu e il padrone tornate sempre più rabbiati di prima.
Dove viveva io non si va in vacanza. In Italia, tanti soldi che mi vergogno. Volevo portare mia figlia qui, ma perché far lei vedere tanto lusso? Se i piedi sono senza escarpe e i diti sono felici di pestare la terra, mi dici, signora, perché mia bambina deve usare escarpe? Lo so, tu parla di malattia, ma l’anima è più libera se piede sente libertà. Italia, grande estivale stretto...

Un giorno, per caso (oggi mi domando se sarà stato veramente per caso), in un raduno letterario, trovai il Professor Armando Gnisci che aveva fatto parte della giuria nel concorso Eks&Tra. Lui volle sapere se continuavo a scrivere. Alla mia risposta positiva, m'invitò a fargli vedere i miei nuovi racconti. Questi racconti sono presenti nel mio primo libro Amanda Olinda Azzurra e le altre, pubblicato in Italia dalla Lilith nel 1998, nella collana "lingua franca", la prima collana di scrittori migranti.
Ho trasformato il racconto "Ana de Jesus" in uno spettacolo teatrale del quale ho curato la regia (con un'attrice e un chitarrista brasiliani). Dal 1996, siamo stati invitati in tutta Italia, presentandoci con questo spettacolo in teatri, associazioni culturali, scuole, festival e in piazze all'aperto.
Pirandellianamente posso dire che è stata più Ana de Jesus a portare me in giro per l'Italia che io a portare lei...
Nel frattempo, continuavo a scrivere dei racconti che sono stati pubblicati in antologie, in riviste e giornali italiani e on line.
Nel 2000, viene pubblicato un libro da me scritto per i bambini: La storia di Adelaide e Marco, Edizione Il Grappolo, una favola su Adelaide (una bambina che ha capelli lunghissimi che nessuno riesce a tagliare) e Marco (un bambino che ha delle ali). Insieme, questi due bambini visitano la diversità (i malati, i barboni, i pazzi) e finiscono per essere apprezzati proprio grazie alla loro diversità.
Nel 2003, Amanda Olinda Azzurra e le altre ha ricevuto nella Casa Internazionale della Donna, a Roma, il 1° Premio narrativa femminile "Il paese delle donne", trovandosi presente l'editore Francesco Forte (Edizioni Oèdipus), che mi aveva proposto di pubblicare la seconda 2ª edizione di Amanda Olinda Azzurra e le altre .
Ed eccomi al mio ultimo libro, de 2004: Qui e là, Cosmo Iannone Editore, il 3° volume della collana Kuma scrittori migranti, diretta dal Professor Armando Gnisci.
Come potete vedere, i miei due libri di racconti hanno fatto parte di due collane dedicate agli scrittori migranti in Italia.
Un rapido sguardo al futuro: ho già pronti due altri libri: La fantastica avventura di Marfina (libro per l'infanzia) e Cinquecento temporali, il mio primo romanzo: si svolge in una favela a Rio de Janeiro, ma è stato scritto in italiano.
Pochi giorni fa, ho saputo dal Professor Gnisci che sta per uscire nella collana Kumacreola-scritture migranti il libro dell'italiano Davide Bregola: Il Catalogo delle voci, Colloqui con poeti migranti, e che è appena uscito, nella stessa collana, Il latte è buono, libro che il Professor Gnisci chiama il "primo romanzo postcoloniale italiano". L'autore, Garane Garane, è somalo, ha scritto in italiano e insegna letteratura italiana nell'Università del South Carolina negli Stati Uniti. Come potete vedere, i soggetti sono davvero in movimento...
Gli organizzatori di questo convegno hanno scelto come epigrafe per rappresentare lo spirito con cui ci raduniamo oggi, alcune parole di Il viaggiatore incantato di Leskov: "Ho sempre pensato che quando c’è un reticolato non ci sia libertà, né da una parte né dall'altra. Bisognerebbe oltrepassarlo nei due sensi più e più volte, fino a cancellarlo del tutto."
Considerando questo bisogno di oltrepassare i reticolati, vi leggo un pezzo di un mio racconto utopico che si chiama Frontiere e che è stato pubblicato nel giornale L'Unità e poi nel libro La seconda pelle, Eks & Tra Editore, 2004, collana erranti.
“Frontiere? Come spiegarti? È una parola che si usava quando io ero piccolo. Vieni. Ti mostrerò un vecchio libro. Potrai capire com’era il mondo quando le frontiere esistevano.
Vedi? Questa era l’Europa. Ogni colore, uno Stato. I trattini fra i colori erano le frontiere. Sì, dividevano la gente. Lo so, lo so che nel tuo libro l’Europa ha un solo colore, ma era diversa quando il nonno era bambino.
No, non era facile passare da un paese all’altro. Bisognava avere soldi e passaporto. Già, tu non sai cosa sia un passaporto. Era un libretto con il tuo nome e la tua foto. Una carta d’identità per viaggiare. Nelle frontiere sostavano delle guardie per controllare se il tuo libretto era in ordine e se la foto era veramente tua. Se andava tutto bene, passavi le frontiere. Altrimenti, ti rispedivano al tuo paese.
Il mondo è talmente cambiato che mi riesce difficile raccontarti come si viveva nel ventesimo secolo. Io, per esempio, per restare qui, dove sei nato tu e dove è nato tuo padre, ho dovuto chiedere un permesso. Ti pare strano, eh? In quel tempo non era come oggi che vivi dove vuoi. La terra non era di tutti e le leggi erano dettate dai paesi più ricchi. Le nazioni lottavano fra di loro e sulla terra c’era un mostro che cresceva. Le persone sensibili iniziavano appena a prendere coscienza del loro potere per distruggerlo. Il nome di quel mostro? Miseria.”

Prendo in mano la relazione illustrativa che mi avete inviato per email e vedo che uno dei compiti di questo Convegno è sconfiggere "una tendenza alla separazione fisica e metafisica tra nativi e non nativi che si sta dispiegando in forme sempre più pericolose, a livello legislativo, nei media, nei luoghi di lavoro e che rappresenta una delle minacce più serie per le nostre società".
Riguardo a questo "pericolo a livello legislativo", vorrei leggervi un brano da un mio racconto sulla legge Bossi-Fini. Il racconto si chiama Io, polpastrello 5.423 e si trova in Qui e là. Cosa succede quando per rispettare la legge Bossi-Fini seimila polpastrelli di immigrati si presentano alla questura di Roma?
“Una notte, prima di venire in questura, mentre i corpi dei nostri padroni dormivano, noi, polpastrelli immigrati, ci staccammo dalle mani che ci avevano sempre sostenuto e, di comune accordo, ci radunammo in un cantinone vuoto. Lì, ci contammo: eravamo, in tutto, seimila. Nel conteggio, a me era toccato il numero 5.423. Per salvaguardare l’identità delle persone che noi rappresentavamo (le chiamiamo “padroni” perché in fondo sono stati sempre loro a comandarci), abbiamo deciso di identificarci con i numeri che ci erano toccati durante il conteggio. Io, polpastrello 5.423, feci subito amicizia con il polpastrello 3.986 che era anche lui del mio paese di origine. Insieme, abbiamo osservato gli altri polpastrelli. Alcuni avevano delle righe così profonde che sembravano pieni di cicatrici; altri esponevano i loro calli conquistati con duri lavori e ne erano orgogliosi come se quei calli fossero delle raffinate incisioni. C’erano polpastrelli sporchi di pomodoro, venuti al cantinone subito dopo una raccolta in campagna. Altri, macchiati di sangue, venivano dagli ospedali dove accudivano i malati, come infermieri. Polpastrelli immigrati, stanchi di eseguire quelle funzioni disdegnate dagli italiani. Lo so che esistono polpastrelli pigri o disonesti anche tra di noi, e non solo tra i governanti e i ricchi, ma se debbo dire la verità, al nostro raduno nel cantinone erano venuti dei polpastrelli di tutto rispetto. Il numero 1600, per esempio, un polpastrello femminile, era addirittura sporco di cacca. Apparteneva ad una giovane immigrata che passava le notti con una signora anziana. Il polpastrello 702, che lavava i piatti in un ristorante, aveva un’allergia a detersivi ed era completamente rovinato. Nonostante tutto, era lì nel cantinone, pronto a prendere una decisione comune.
In mezzo alle discussioni, cominciammo a capire che l’unione era la forza dei polpastrelli. Sapevamo bene che, grazie a noi, ogni persona è diversa e può essere riconosciuta, ma eravamo amareggiati dalla legge che ci chiamava in questura. Avevamo capito che quella legge ci manipolava. Le impronte digitali, espressioni visibili dell'individualità di ogni persona, sarebbero state usate a scopi polizieschi e a noi quello non sembrava giusto. Perché solo le impronte digitali degli immigrati? Non avevano polpastrelli pure gli onorevoli? Perché non venivano in questura pure loro?”

Nella stessa relazione illustrativa, vi siete riferiti al migrante che "si sposta, vivendo un’esistenza negli interstizi" e avete anche parlato di "barriere comunicative".
Con i miei racconti cerco di dar voce a chi, purtroppo, vive "negli interstizi". Nel primo libro ho parlato di donne immigrate, umili, difficilmente ascoltate: colf, lavandaie, prostitute, donne emarginate dalla società, a volte capaci di tradurre la loro disperazione solo in violenza, donne che gridano solitudine.
Vi racconto un breve episodio: il martedì 5 aprile, esattamente tre settimane fa, sono stata invitata a parlare nella Biblioteca di Loiano, provincia di Bologna a delle donne immigrate arrivate da poco tempo in Italia. In quella Biblioteca, queste donne imparano l'italiano con due volontarie. Durante l'incontro, ho invitato le donne immigrate a scrivere insieme a me, in un foglio, quello che più ci mancava in Italia, senza il bisogno che le nostre risposte fossero identificate. Io ho scritto "la spontaneità"; una donna ha scritto "primavera", un'altra "la mia famiglia". Ma la cosa più toccante è che una donna non ha scritto una ma due parole e con queste due parole ha comunicato tutto quello che le manca in Italia. Questa donna ha scritto: "sono sola".
La solitudine è uno dei temi della mia scrittura. Vi leggo l'incipit e la fine di un racconto. Si tratta di una lettera scritta da una donna ad un'altra donna che si chiama Jandira. Qui parlo della solitudine dell'immigrate.
“Ho bisogno di un altro petto per portare il mio dolore. Un petto solo non basta. Ma dove lo porterò se quello che veramente voglio è tornare, tornare indietro, indietro al mio destino?
Volevo dare un nome a questo dolore per parlarne senza sentirmi soffocata. I giorni vissuti nel mio paese sono tutti stretti in gola e la mia mancanza di parole esce dagli occhi, mi scorre per la faccia. Ah, come vorrei essere una sola, tutta unita nel sempre e nello stesso posto, senza mai essere uscita, senza dover tornare.
Dietro la mia vita, vedo un’altra che non sono io, non vedo questa che vive qui. Cammino come un cane, ma per strade senza odori, trovo alberi mai toccati da altri cani. Vorrei salire su di un mango e sentire l’odore dei manghi, quel profumo giallo che dava sicurezza e che sembrava essere il profumo del mondo. Qui è tutto pulito-pulitissimo, più pulito non si può. Sotto i sassi non ci sono animaletti che si muovono, né vermi né ragni né niente. Qui, c’è soltanto l’odore di limone, ma non del limone della pianta, ma del limone del detersivo e tu senti lo stesso odore nel lavandino, sul pavimento, nei bicchieri, nei vestiti, nelle mani, nella faccia e nella bocca.”

La donna che scrive a Jandira è divisa tra un "qui" e un "là". Se vi ricordate, Qui e là è, il titolo del mio ultimo libro di racconti. Vorrei dire qualcosa a proposito di questo titolo:

Qui                                       e                              Là
Italia                                                                     Brasile
Roma                                                                    Rio de Janeiro 
la lingua italiana                                                   la lingua portoghese 
il reale                                                                   la fantasia
la normalità                                                           la pazzia 
i vivi                                                                      i morti
"il paese del dopo" *				       "il paese del passato"

Nella postfazione, la professoressa Maria Cristina Mauceri cita Armando Gnisci: "(...) lo scrittore che scrive nella lingua del paese del dopo si avventura a costruire un ponte". Questo ponte è esattamente la "e" del titolo. Qui e là sono concetti relativi, non statici. Hanno la condizione stessa dei migranti. Appartengono a soggetti in movimento.
Penso che la letteratura della migrazione in Italia offra un punto di vista nuovo perché noi, migranti, vi vediamo come voi non vi potete vedere. Come vedete, siamo dentro ad un tema molto caro al Pirandello di Uno, nessuno, centomila, la soggettività e la relatività dei mutui sguardi.
L'incontro dei vari punti di vista può creare dei pericoli ma può anche aprire nuove strade da percorrere insieme, come abbiamo fatto oggi in questo Convegno.

Christiana de Caldas

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(ISSN 1824-6648)

Christiana de Caldas Brito

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 4, Numero 16
June 2007

 

 

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