Il mio percorso dai racconti al romanzo
Conversazione svolta con gli studenti all'Università "La Sapienza", il 21/1/2003, su invito del Professor Armando Gnisci
Questa sarà, come vedrete, un'occasione per parlare della letteratura e della mia poetica, oltre che delle difficoltà trovate nel passaggio da scrittrice di racconti alla stesura di un romanzo. Tali difficoltà derivano non solo dal processo creativo in sé, ma dall'aver scritto in italiano, ed a Roma, essendo io una carioca (vuol dire una brasiliana nata a Rio), un romanzo che si svolge nella mia città.
l Professor Gnisci mi aveva invitato a parlare di questo romanzo due anni fa. Il romanzo in quel periodo si trovava in fase di elaborazione e io stessa non sapevo se sarei stata capace di finirlo. L'idea era chiara, ma il problema di ogni arte è esattamente quello di passare dall'idea (il sogno, il progetto, il bozzetto) alla sua realizzazione. Quando gli artisti si trovano a lavorare con la materia, nel mio caso con le parole, nascono ostacoli e difficoltà.
Non avevo mai scritto un romanzo. Ho affrontato la sfida. Oggi vengo a parlarvi di un testo che si trova presso una casa editrice, in attesa di una risposta.
Mi ricordo come se fossi oggi quando dissi al vostro Professore: "Vorrei scrivere un romanzo". Lui mi guardò e rispose con solo due parole: "Perché no?"
Milan Kundera in "L'arte del romanzo" dice che ci sono tre tipi di scrittori: quelli che raccontano una storia (Fielding); quelli che descrivono una storia (Flaubert); quelli che pensano una storia (Musil).
Io credo di essere una scrittrice alla quale piace raccontare storie. Comincerò, quindi, per raccontarvene una, non scritta da me. Si tratta di una storia che ha duemilacinquecento anni.
Nella regione dell'attuale Nepal (al nordest dell'India), ai piedi della catena dell'Himalaia, viveva una famiglia reale che non riusciva ad avere dei figli.
Ci fu grande gioia nel regno quando la regina rimase incinta. Una predizione affermava che il nascituro sarebbe stato molto famoso o come valoroso condottiero o come un'importante guida spirituale. Nacque un bambino. Il re, suo padre, scelse il ruolo del condottiero per il figlio. Nell'intento di impedire che il ragazzo si sviluppasse nel campo spirituale, il re fece in modo da evitare in tutti i modi che suo figlio avesse contatto con avversità, bruttezze o sofferenze. (Quel re sapeva che non esiste progresso spirituale senza disagi e ostacoli).
Il figlio del re, il protagonista di questa storia si chiamava Gautama Siddharta. L'infanzia, l'adolescenza e parte della sua maturità furono vissute in mezzo agli agi, alle ricchezze e ai piaceri. Il re aveva fatto costruire un muro altissimo che separava il suo palazzo dal resto del regno dove, purtroppo, esistevano sofferenze, malattie, povertà e fame.
A 29 anni Siddharta desiderò conoscere oltre il muro del palazzo. Abbandonò la casa paterna insieme ad uno scudiero. Suo padre fece pulire tutte le strade, abbellire le case e piantare fiori dappertutto. Ma non riuscì ad impedire che suo figlio vedesse un uomo vecchio, un uomo malato e un cadavere. Vecchiaia, malattia e morte misero Siddharta in contatto con i dolori dell'umanità, che lui finora non aveva conosciuto. Dopo una lunga riflessione sulle sofferenze e su come superarle, Siddharta raggiunse l'illuminazione. (?Buddha? significa appunto ?l?illuminato?).
Perché vi ho raccontato questa storia? Semplicemente per mostrarvi quali sono le tematiche che interessano la mia scrittura. È come se l'alto muro costruito dal padre di Siddharta separasse oggi una cultura dell'intrattenimento da una cultura dell'impegno sociale. Da una parte una letteratura che non vede e non considera i problemi esistenziali; dall'altra parte una letteratura che guarda la vita reale con le sue sofferenze, con popoli che lottano per conquistare la propria dignità, con persone oppresse da ingiustizie oltre che dai dolori inerenti il vivere stesso.
Già nei racconti pubblicati in Italia, avevo scritto su donne che vivevano in condizioni disagiate, donne senza peso nella società, la cui voce non contava: immigrate, colf, lavandaie, prostitute, donne sole, a volte persino violente.
Anche il romanzo, di cui oggi vi parlo, è caratterizzato dalle condizioni difficili in cui vivono i suoi protagonisti. Direi che le tematiche della cultura dell'intrattenimento non m'interessano. Appartengo ad un genere di letteratura che fa riflettere. Come scrittrice voglio andare oltre il muro del palazzo di Siddharta. Difatti, il mio romanzo è ambientato in una delle tante favelas di Rio de Janeiro.
Nel 1955, quando ero un'adolescente, il libro "Quarto de despejo", scritto da Carolina Maria de Jesus, una favelada, mi ha colpito. (In Italia, "Quarto de despejo" è stato tradotto da Alberto Moravia: "La stanza dei rifiuti", Bompiani, 1965). Carolina Maria de Jesus nel suo diario affermava che le favelas erano le stanze dei rifiuti delle grandi città brasiliane. (Ci sono 601 favelas a Rio de Janeiro).
Se Daniel Pennac ha ragione nel dire che "noi siamo abitati da amici e dai libri che abbiamo letto", forse il romanzo da me scritto, mi abita dalla mia adolescenza.
A me interessava riflettere sulla sorte di una determinata classe sociale brasiliana il cui destino sembra essere segnato già dalla nascita. Che via di uscita hanno gli abitanti delle favelas di Rio?
Volevo proporre, attraverso una storia, una riflessione sulla povertà del terzo mondo e sull'ineluttabilità di certi destini in condizioni sfavorevoli.
Pensavo che con la stesura di un romanzo sarebbe successo quello che succede con i racconti. Scrivo con facilità i miei racconti anche se li sottometto a parecchie revisioni. Invece, non è stato affatto facile scrivere un romanzo. Il romanzo è più lungo, ti sfugge di mano mentre lo stai scrivendo, esige un'accurata attenzione ai dettagli. Lo porti avanti in una costante ambivalenza: a volte sei soddisfatta di quello che hai scritto, a volte assolutamente no, ma ti tocca continuare lo stesso altrimenti il tuo progetto non si realizza. Si è costretti a scrivere anche senza ispirazione quando elabori un romanzo. Con il racconto, data la sua brevità, la situazione è meno complessa e la gratificazione più immediata.
Ogni romanzo parte da una situazione più o meno stabile che si rompe (un conflitto, un evento inatteso, un impedimento). La stabilità può essere ripresa, ma le cose non saranno mai come prima. Per questo si scrive un romanzo. Proprio per dire che certi eventi sono successi e le cose non saranno come prima.
"Arriva il temporale" inizia il giorno in cui il Brasile festeggia i cinquecento anni della sua scoperta (22 aprile 2000). Il giorno prima, il 21 aprile, è la festa di Tiradentes, un eroe brasiliano; partecipa anche lui al romanzo.
La trama di "Arriva il temporale" si svolge a più voci. Ci sono quindi diversi punti di vista che conducono la storia fino alla fine. La grande protagonista è la pioggia. Per una persona nata ai tropici, la pioggia non è un mero evento atmosferico. È qualcosa di più. Fa parte della vita e della mente di quella persona. Difatti, tutti i personaggi del romanzo hanno a che fare con la pioggia. In un qualche modo la pioggia cambia i loro destini e fa in modo che loro si conoscano fra di loro. Ogni personaggio reagisce alla pioggia in modo diverso. Piove durante molti degli eventi del romanzo e il temporale, di cui parla il titolo, è una metafora del cambiamento in Brasile. Per enfatizzare la differenza tra chi vive nelle favelas e le persone della classe alta, parallelamente accompagno le vicende di una donna ricca che scrive delle lettere alla pioggia. Forse la pioggia, più che un personaggio, è il leitmotiv del romanzo. Non posso raccontarvi di più perché voglio sperare che lo leggerete.
Dall'inizio alla fine di "Arriva il temporale", con lunghe interruzioni in cui abbandonavo l'impresa e mi dicevo "basta, forse non sono tagliata per scrivere un romanzo", ho impiegato un anno e mezzo. I miei timori più grandi? Quello di non riuscire a finire il romanzo e la paura di annoiare il lettore. Ci sono stati anche dei momenti di grande entusiasmo in cui mi divertivo e tutto sembrava più facile. A volte non riuscivo neanche ad addormentarmi: i personaggi continuavano a dialogare durante la notte, a esigere nuove scene da me.
Ho capito che ci vogliono tre qualità per scrivere un romanzo: tenacia, pazienza e disciplina. La tenacia (per non abbandonare l'intento); la pazienza (per non scoraggiarsi); la disciplina (per raggiungere la meta finale).
da "www.disp.let.uniroma1.it/kuma/poetica.html"