Sono stata invitata come autrice straniera che usa l'italiano come lingua di comunicazione.
Grazie ad iniziative come il progetto "L'italiano che mi serve - conoscere e vivere la lingua italiana" i migranti da problema sociale, da seccatura storica inevitabile, da portatori di bisogni, si presentano come portatori di risorse creative. Solo quando parla bene la lingua del paese ospitante, si può dire che un migrante sia effettivamente integrato alla vita di quel paese.
Ho cercato di illustrare con la mia scrittura i vari momenti del rapporto
Straniero - Lingua italiana.
Una lingua non è solo uno strumento di comunicazione. È uno strumento di identità. È un complesso ricordo di suoni, contatti, odori, cose viste e assaporate.
Per una straniera appena arrivata in Italia e che non sa parlare l'italiano, la vostra lingua è fatta, prima di tutto, di suoni. Per esempio, io appena arrivata, notavo che quando gli italiani erano arrabbiati usavano molto il suono CH. Capivo i suoni, non le parole. Questo mi ha portato a scrivere CHI, un testo basato sul suono CH. Ve ne leggo un brano:
"Chi, chi sei? Sei Chi?
All'inizio Chi aveva un nome. Poi, solo Chi. Domandavano: chi carica i pesi? Chi porta i pacchi? Chi pulisce le scale? Chi? Rispondeva sempre lei. Bastava che dicessero chi? e chi era lì, pronta a rispondere.
Chi da quando è Chi, non è più quella che era, ma questo lo sa solo Chi. Solo Chi lo sa e chissà se lo sa Chi.
Chi chiunque. Chi dovunque. Chi comunque.
Indefinita e relativa, l'immigrata Chi."
All'inizio c' è un rifiuto della lingua nuova, quasi come se uno non volesse tradire la madre- patria, la madre-lingua. Vi leggo un brevissimo racconto LINEA B. Parla di questo rifiuto e parla anche di Roma:
"Le ho seppellite tutte. E adesso ho un cimitero di parole dentro. Sono vuote di ricordi le parole che uso al lavoro, alla metro, negli incontri per la strada. Parlo con la gente, senza toccare le parole di dentro.
“Eur Palasport, prossima fermata Magliana. Eur Palasport, next stop Magliana.”
Che fare con le parole sepolte che non riesco a dimenticare, che di notte cantano come cicale, parole impazzite che odorano di mango? Per tutti questi anni le ho mantenute chiuse, come i dolcetti di goiaba avvolti nella pannocchia del mais.
“Magliana, prossima fermata Marconi. Magliana, next stop Marconi.”
La porta della metro si apre. Insieme alle persone, entra il vento di tramontana. Sulle mie parole però continua a soffiare lo scirocco.
“Marconi, prossima fermata San Paolo Basilica. Marconi, next stop San Paolo Basilica.”
In quale regione di me si nasconde quello che penso e non so dire? La lingua natale è una barca che porta i pensieri. Spinti dalla corrente, i pensieri arrivano senza sforzo all’altro lato del fiume.
“San Paolo Basilica, prossima fermata Garbatella. San Paolo Basilica, next stop Garbatella.”
Le parole di dentro mi assalgono come lampi, accordi musicali improvvisi, un qualcosa che scatta.
“Garbatella, prossima fermata Piramide. Garbatella, next stop Piramide.”
Lontano dalla foresta, il leone non può ruggire come prima. Le parole che ho lasciato erano per me lunghe braccia con cui toccavo l’orizzonte.
“Piramide, prossima fermata Circo Massimo. Piramide, next stop Circo Massimo.”
Una signora si alza. Mi siedo. Il vagone della metro è una bocca chiusa.
Fortunatamente entra un suonatore. Parla con le mani, lui. I suoni della sua fisarmonica danno ritmo alle vecchie parole che ballano nel mio petto come in un salone illuminato. Sorrido.
“Circo Massimo, prossima fermata Colosseo. Circo Massimo, next stop Colosseo.”
Il suonatore passa il suo bicchiere di carta e se ne va. Le mie labbra tornano ad essere frontiere chiuse.
“Colosseo, prossima fermata Cavour. Colosseo, next stop Cavour.”
Le parole non nascono in fretta come i paesaggi sfrecciati dai finestrini della metro. Per penetrare nel tessuto dell’anima, esigono molto tempo.
“Cavour, prossima fermata Termini. Cavour, next stop Termini.”
Sono arrivata. La porta automatica si apre. Esco, senza parole."
C'è un altro racconto che si chiama IL MENDICANTE. Ma non chiede soldi il mio mendicante. Chiede parole. È un poeta. Ma potrebbe essere anche un migrante alla ricerca di parole con le quali costruire il suo discorso.
Prima di accettare in pieno le parole della lingua del paese ospitante, il migrante crea una lingua ibrida, tutta sua. È un primo passo verso l'integrazione linguistica. Troviamo un esempio di questa lingua nello sgrammaticato italiano delle brasiliane Ana de Jesus e Olinda.
ANA DE JESUS è una colf che in un suo monologo, immagina di essere ascoltata dalla signora presso cui lavora:
"Se le mie parole tengono un ritmo, e se tu cqpisci il ritmo, perché non posso sbagliare le parole?
Qui non so parlare il nome mio. Quando dico Ana de Jesus le persone mi corregge e dice un altro nome che non è il mio. Ana diventa Anna, Jesus diventa Gesù. Jesus, però suona bagnado e dolce come quando il vento tocca l'acqua del mare del mio paese. E poi, mia madre mi ha sempre chiamado Ana."
OLINDA, invece, è una prostituta adottata da un sacerdote in una parrocchia nel nord d'Italia: "In paese ce l’hanno tutti con lui. Se ho capito bene, la idea di adottare una imigrada in parochia è partita da lui. Il sindico non era nemmeno di acordo, dice che parochie non è rifugio di meteorici, mereotici, la parola non ricordo, ma so cosa sindico vole dire. Forse ha ragione. La moglie di sindico all’inizio veniva a parlare comigo, voleva mi aiutare perché, diceva, io era donna di costumi facili, ma io con lei non parlava nulla di ricordi mia e ho schiarito che io non voleva diventare donna di costumi difficili come lei."
Un ulteriore passo nel processo d'integrazione linguistica è quello che porta il migrante ad esprimersi con proprietà nella lingua italiana. Per uno scrittore, questo passo potrebbe consistere nell'essere creativo con le parole. MAROGGIA, una delle donne della mia scrittura, è figlia della pioggia e del mare della Sicilia. Maroggia quando parla condensa le parole, le inventa, le storpia.
L'ultimo passo sarebbe partecipare con la propria scrittura nella vita sociale e politica del paese in cui vive il migrante, Il mio primo racconto esplicitamente politico l'ho scritto sulla legge Bossi-Fini: IO, POLPASTRELLO 5.423. Sei mila polpastrelli di immigrati invadono la questura di Roma per far sì che la legge sia rispettata.
Essendo oggi nella Biblioteca Enzo Tortora, propongo a voi tutti che la letteratura sia il nostro PAESE COMUNE, che sia lo strumento per mantenerci umani, dovunque e sempre. Grazie.