LA POETICA DELLA SAUDADE NELL’OPERA DI CHRISTIANA DE CALDAS BRITO....DI CHIARA MACCHIARULO
Tratto dalla rivista on line www.rivistasaudade.altervista.org
Negli ultimi vent’anni circa, la “Grande Migrazione” ha completamente
messo in discussione il volto del nostro vecchio mondo, mostrandocelo sempre di
più come un “mondo di mondi” e portando alla luce una serie di fenomeni
culturali in senso lato, tra i quali spicca senza dubbio quello della
cosiddetta “letteratura della migrazione”: il fenomeno, recentissimo in
Italia, ha ricevuto una prima sistematica organizzazione, in un volume da poco
(2006) pubblicato dalla casa editrice Città Aperta di Troina (En); si tratta
del volume, curato da A. Gnisci, Nuovo Planetario Italiano – Geografia e
antologia della letteratura della migrazione in Italia e in Europa. È proprio
dall’introduzione a questo testo che emerge – qui come del resto altrove –
la poetica della migranza, intendendo la migranza non solo dal punto di vista
dello spostamento fisico ma anche come continua ridefinizione dell’identità
culturale sulla base di questi contatti tra i mondi del mondo.
La letteratura della migrazione, in quanto fenomeno del contatto tra i mondi,
pone varie questioni a chi ad essa si avvicini, e si configura come una
letteratura certamente impegnata e più specificamente militante: gli autori che
ad essa fanno riferimento si pongono infatti, anche un obiettivo di incidenza
sulla contemporaneità che potrebbe essere definito sinteticamente come
interculturalità; verrebbe tuttavia da dire intercultura, nel senso di cultura
di culture:
Negli ultimi decenni dello scorso secolo la migrazione ha assunto dimensioni
planetarie ed è diventata un fenomeno globale che permea diversi aspetti della
società contemporanea. Uno dei suoi effetti è stato quello di rivoluzionare lo
stesso concetto di cultura, mettendo in discussione la sua appartenenza
limitatamente a un territorio e a una lingua.
La poetica della migranza nasce appunto da questa messa in discussione della
cultura (mono-cultura) che ora inevitabilmente tende all’interculturalità, e
che nasce dalla migrazione e quindi dall’incontro con l’Alterità;
l’avanguardia della migranza è costituita dagli scrittori migranti, che ne
propongono la poetica nelle proprie opere. Da questa prospettiva, dunque, la
figura dello scrittore migrante diviene sinonimo di una vera e propria
avanguardia artistica, letteraria in particolare; è quel processo di
creolizzazione della vecchia Europa che avviene oramai sotto i nostri occhi e
che non si può arrestare né tantomeno ignorare.
Per quanto riguarda
l’Italia, dal 1990 – anno in cui sono stati pubblicati i primi due libri
scritti da immigrati, sebbene a quattro mani – il fenomeno è diventato sempre
più evidente; occorre tuttavia per evitare confusioni e pressappochismi, fare
una precisazione – o meglio una distinzione – tra scrittori migranti e
immigrati che scrivono. Gli scrittori migranti, infatti pongono alla base della
propria opera la poetica della migranza, e concepiscono la migranza stessa come
[…] una perdurabile condizione di transito dentro la quale scrivere acquista e
dispensa del senso aggiunto, perché marcia e fa marciare in testa al mondo in
cui viviamo […]. Lo scrittore migrante, anche se non scrive sulla migrazione,
sa tutto questo e lo pone come poetica, come tema e come pietra di paragone e
pietra d’inciampo dell’epoca in cui viviamo […].
Uno scrittore migrante quindi, non è tanto – meglio, non solo – uno scrittore
che ha cambiato patria, che ha migrato, e che racconta la sua esperienza di
migrazione nella sua opera: lo scrittore migrante è quello che abbandona
continuamente le proprie certezze per raggiungerne altre, non solo di natura
materiale, quanto piuttosto di natura intellettuale e quindi culturale, anzi
interculturale; la “letteratura della migrazione” è quella che apre nuovi
mondi diversi dal nostro, e che porta con sé il lettore a migrare a sua volta.
L’immigrato che scrive, invece, è più spesso autore della propria
testimonianza e nulla di più; in linea di massima, si può affermare che tutti
gli scrittori migranti sono immigrati che scrivono, mentre solo alcuni
immigrati che scrivono sono anche scrittori migranti.
La letteratura
della migrazione in Italia ha, come si è detto, una storia tutto sommato
recentissima: al di là di casi letterari appositamente confezionati per
rispondere al gusto esotico della cultura dominante – vedi ad esempio il caso
degli immigrati che scrivono – in Italia il fenomeno ha una consistenza
notevole, e particolarmente varia risulta la provenienza degli autori che
scrivono in italiano. Tra essi spiccano i sudamericani, tra cui i più prolifici
sono senza dubbio gli autori provenienti dal Brasile: il poeta Heleno Oliveira,
le poetesse Vera Lúcia de Oliveira e Marcia Theóphilo, la poetessa e narratrice
Rosana Crispim da Costa, la narratrice Christiana de Caldas Brito, il narratore
Julio Monteiro Martins, la poetessa e narratrice Clementina Sandra Ammendola,
il poeta e narratore Egidio Molinas Leiva. Uno degli aspetti principali della
cultura brasiliana è la saudade, approssimativamente traducibile con
“nostalgia”: termine che si carica di una ricca serie di implicazioni se
riferito alla migrazione e alla poetica della migranza.
L’intento alla base di questo lavoro è quello di fornire una panoramica
abbastanza approfondita sull’opera in italiano di Christiana de Caldas Brito
– scrittrice brasiliana migrante – e in particolare su come, brasiliana e
lontana dal suo Brasile, ne viva la saudade.
Christiana de Caldas Brito
nasce a Rio de Janeiro il 3 giugno 1939: è una carioca, e questo influenzerà il
suo modo di vedere e di raccontare il Brasile; arriva in Italia giovanissima
nel 1964, quando vince una Borsa di Studio (specializzazione in Sociologia
all’Università Internazionale degli Studi Sociali Pro Deo, a Roma), dopo aver
finito a Rio de Janeiro il corso di Laurea in Filosofia presso l’Università
Federale del Brasile e dopo un soggiorno di un anno (nel 1957 sempre per motivi
di studio) negli Stati Uniti. La sua vita l’ha portata poi a vivere in altri
mondi: due anni in Argentina e due in Austria; ora sembra essersi stabilita
definitivamente in Italia, nonostante continui a dire di sentirsi comunque in
perenne migrazione. Oltre all’attività letteraria, Christiana de Caldas Brito
esercita la professione di psicologa psicoterapeuta, riconosciuta sia in Italia
che in Brasile; è inoltre autrice e regista teatrale. Per le sue pubblicazioni
in Italia si rimanda alla bibliografia e alla sitografia poste a termine del
presente lavoro.
Si è scelto di trattare di questa Autrice in modo più approfondito poiché si ritiene che sia una delle voci più autorevoli della letteratura della migrazione; il suo punto di vista di “immigrata” –come si autodefinisce lei stessa – risulta tanto più interessante in quanto appartenente ad una doppia minoranza che è linguistico-culturale e di genere. E non è un caso se la maggioranza dei suoi personaggi più significativi siano figure di donne spesso confinate in situazioni di difficili emarginazioni più o meno evidenti, e le figure maschili presenti siano per la maggior parte elementi negativi, pronti ad approfittare della infelice condizione di queste donne.
Tuttavia Christiana de Caldas Brito è una scrittrice migrante nel senso più pieno del termine, in quanto non si limita a raccontare storie di immigrate con una tendenza all’autobiografismo che terminata la sua urgenza si esaurirebbe immancabilmente: la nostra Autrice infatti, afferma che “siamo tutti migranti. Stiamo permanentemente abbandonando una terra per trasferirci altrove” . Il senso della migrazione di cui parla de Caldas Brito, dunque, è certamente più vasto di quello che richiama alla mente il pensiero del viaggio e dello spostamento fisico: il migrare di cui ci parla è quello che ciascuno compie ogni volta che cambia qualcosa di importante nella propria vita, ed è certamente più ricco di implicazioni psicologiche; nella sua opera, insomma, emerge quella concezione del continuo mutare che deriva dalla migranza di cui si è accennato sopra. Con ciò tuttavia, non si vuole sminuire alcun momento della migrazione, quanto piuttosto sottolinearne l’aspetto di incontro/scontro con l’Altro e l’Altrove che ne è alla base, e che genera successivamente quella spinta comunicativa che porta all’interculturalità attraverso la scrittura o comunque le espressioni umane-umanistiche in generale.
La forza della scrittura della nostra Autrice sta nel far convergere una scrittura più socialmente impegnata e di denuncia, con uno stile leggero di scrittura che a volte fa anche sorridere, senza mai tuttavia rinunciare a comunicare messaggi precisi.
Nella struttura di questo lavoro si è appunto tenuto conto di questo percorso migrante: nel corso del primo capitolo – che porta significativamente il titolo di Brasile, il punto di partenza – si svolge un’attenta analisi del romanzo 500 temporali , come si vedrà romanzo brasiliano nel senso più pieno del termine; nel secondo capitolo, intitolato Italia, si cerca di rintracciare il momento psicologico dell’arrivo in Italia: lo sguardo dell’immigrata sulla nostra società vede vizi e virtù del nostro paese; in seguito, il terzo capitolo, dal titolo Saudade è in un certo senso il punto di approdo – ma per certi versi anche quello di partenza – di questo lavoro, in quanto in esso si cerca di analizzare il concetto di saudade cercando di renderne quella ricchezza semantica che solo un madrelingua portoghese riesce ad afferrare completamente senza tante spiegazioni; si propongono una serie di brevi considerazioni personali che tentano di riproporre – una volta chiaritone il senso – l’intera opera della nostra Autrice sotto la veste della saudade: non solo una ricerca di tale tema nella sua opera, ma anche una reinterpretazione generale di essa alla luce di questa specie di “categoria” mentale; segue, a chiudere il lavoro una breve Appendice in cui è contenuta una prima analisi di un racconto di recente pubblicazione, Il giardino, pubblicato su Nae, Trimestrale di cultura, anno V, n. 16, Cagliari, Cuec, 2006; le motivazioni della scelta di questo racconto sono riportate nella parte iniziale della succitata Appendice, a cui pertanto si rimanda.
Per le raccolte di racconti le edizioni cui si è fatto riferimento sono:
Amanda Olinda Azzurra e le altre, Salerno/Milano, Oèdipus, 2004.
Qui e là, Isernia, Cosmo Iannone Editore, 2004.
Per gli altri racconti e contributi di poetica apparsi in riviste o su siti internet si rimanda alle note e per una consultazione più sistematica, alla bibliografia e alla sitografia poste in coda a questo lavoro.
Si ringrazia Christiana de Caldas Brito per la sua enorme disponibilità nell’aiuto alla ricerca di alcuni testi di difficile reperibilità, e per l’entusiasmo che mi ha saputo dare nel corso di questo lavoro.
[…]
Capitolo III
Saudade
Ho bisogno di un altro petto per portare il mio dolore. Un petto solo non basta. Ma dove lo porterò se quello che veramente voglio è tornare, tornare indietro, indietro al mio destino?
Volevo dare un nome a questo dolore per parlarne senza sentirmi soffocata. I giorni vissuti nel mio paese sono tutti stretti in gola e la mia mancanza di parole esce dagli occhi, mi scorre per la faccia. Ah, come vorrei essere una sola, tutta unita nel sempre e nello stesso posto, senza mai essere uscita, senza dover tornare .
Questo l’incipit di Cara Jandira, racconto contenuto nella raccolta Qui e là. E più avanti continua: “ Mia cara Jandira, non vorrei affliggerti. Avevo bisogno di parlarti della mia tristezza e della mia grande saudade. Di cos’è fatta la solitudine se non di questo miscuglio?”
Scorrendo le poche pagine di questo racconto si percepisce perfettamente il senso di solitudine sofferenza e ricordo – in una parola di saudade – dell’immigrata venuta in Italia che si trova a dover affrontare il nuovo modo di vivere del Paese d’arrivo, con tutti i disagi pratici e psicologici che ciò comporta. Numerose le domande, trattandosi di una lettera rivolta ad un interlocutore ben preciso, Jandira; e altrettanto frequente, se si pensa alla dimensione del testo – poco meno di tre pagine –, la ripetizione in particolare della domanda “ti ricordi?” – tre volte –, oltre ad un “mi sono ricordata” sempre nella stessa pagina . La dimensione del ricordo è infatti fondamentale per tentare di definire il concetto di saudade, in quanto essa presenta questa duplice natura di dolore e piacere che è tipica anche del ricordo; non è infatti il ricordare in sé che è doloroso, quanto piuttosto l’attimo che segue il ricordo in cui esso si svela in tutta la sua materiale inconsistenza: “Non esiste saudade senza morte, senza perdita. Saudade… lo struggimento che accompagna un ricordo bello ma finito. Saudade di persone lontane o scomparse, saudade di situazioni già vissute, di giorni che non potranno più tornare… Anche se legata ad eventi gioiosi, è triste, la saudade” .
III. 1. Saudade: etimologia e significati
Il DITL, Dictionnaire International des Termes Littérairs, dedica al termine saudade una pagina molto vasta, suddivisa in specifiche sezioni, ciascuna delle quali tratta un aspetto della parola; si distinguono così quattro sezioni intitolate rispettivamente Etimologie, Étude Sémantique, Commentaire, Bibliographie. Questo quanto riportato dal DITL nella sezione dedicata all’etimologia della parola:
Selon le Novo Dicionáário Aurélio de la langue portugaise (Rio: Editoria Nova Frontiera, 1986) et d’autres sources […], saudade provient du latin solitate « solitude » qui a donné le portugais soledade et solidão, « solitude » avec chute du /l/ intervocalique, réduction du /i/ atone et sourd, à travers la forme archaïque soydade, suydade et avec influence de saúde « santé » ( de salus, salutatis) .
Secondo l’etimologia fornita dal DITL dunque, la saudade è esattamente questo miscuglio di tristezza, solitudine e abbandono, come avvertito nelle pagine del racconto sopra citato; lo stesso dizionario portoghese poi però, traduce la parola saudade come nostalgia. Tale traduzione tuttavia, rende solo in parte la complessità del termine, che condensa in sé tre momenti mentali ben determinati: la solitudine di chi è lontano dalla propria terra, il senso di abbandono e di separazione fortissimi al momento della partenza, e la nostalgia vera e propria del Paese d’origine al momento del ricordo; la seconda sfumatura poi, definita sempre nel Dicionario come “dolore della separazione”, è un regionalismo tipico del Sud brasiliano.
Ma proprio per la sua complessità e ricchezza di sfumature, il termine saudade si può applicare ad una enorme varietà di campi semantici e ambiti discorsivi letterari e non solo, ma anche più latamente filosofici.
La saudade così, nel periodo romantico, col suo retrogusto di malinconia « s’apparente ainsi, tout en les dépassant sans doubte en complexité au mal du siècle français et au spleen portant en elle-même, l’aspiration à l’idéal baudelairien » . Tutto ciò resta valido, ma va tenuta anche presente una sostanziale differenza tra lo spleen e la saudade: il primo infatti rimanda più che altro ad un vuoto esistenziale totale, una mancanza che stenta anche a definire se stessa, e di cui si ignora l’oggetto; nella saudade, invece, il dolore della mancanza e della perdita ha un nome ben preciso, si identifica con l’assenza di qualcosa o qualcuno perfettamente individuabili.
Tornando per un attimo al romanticismo, ricordiamo come esso inoltre, fece dell’infanzia una sorta di paradiso perduto, qualcosa di cui avere saudade nel senso stretto del termine (cfr. W. Wordsworth, Leopardi, fino a Pascoli con la sua più tarda poetica del “fanciullino”), idea che sembra condivisa dalla stessa Autrice, quando nell’introduzione alla riedizione di Amanda Olinda Azzurra e le altre afferma che “l’infanzia sia la nostra vera patria” contribuendo a rinforzare la ricchezza di sfumature del termine saudade che qui si cerca di sottolineare. Sostiene inoltre la nostra Autrice:
La saudade può sfociare nella chiusura e nella rabbia quando, senza delle gratificazioni sostitutive, in una persona predomina il sentimento della perdita. Ma può portare alla creatività, se diventa il pozzo dal quale attingere l’acqua fresca e profonda che ha il colore della notte. Non è la saudade che spinge ogni scrittore a trasformare la propria sete in gioia di bere? Non è per caso la saudade il fondamento della filosofia di Platone o l’energia che ha spinto Dante ad arrivare in Paradiso?
Il senso di mancanza cui la saudade fa riferimento non può non richiamare anche il rimpianto per la fine delle Illusioni che è tipico della poesia di Foscolo; come non ricordare poi il mito dell’Ermafrodito narrato nel Simposio di Platone, filosofo citato anche dall’Autrice, in cui le due metà si cercano senza sosta finché non si incontrano, nutriti solo dalla saudade che hanno l’uno dell’altra?; e si potrebbe andare avanti per pagine e pagine, data l’universalità del senso di mancanza, di assenza che però è stata anche in passato presenza, in una parola di perdita, che è tipica della maggior parte della letteratura moderna e di ogni tempo:
“Bien que la saudade soit un sentiment auquel s’identifie l’âme portugaise, elle n’appartient pas moins aux diverses cultures lusophones trouvant des correspondants avec une infinité de nuances dans les autres langues” .
Tuttavia, tornando nuovamente a citare Christiana de Caldas Brito e il suo saggio di poetica apparso sul già citato numero di Kúmá, Creolizzare l’Europa:
La cultura brasiliana è saudade. Gli africani, venuti come schiavi, si ammalavano di tristezza nel ricordare la patria. Questa malattia si chiamava banzo, una saudade tanto forte che uccideva. I portoghesi avevano lasciato l’Europa del cinquecento per stabilirsi, con saudade, in una terra sconosciuta. Gli indios hanno cominciato pure loro a provare saudade di com’era il loro territorio prima dell’arrivo dei colonizzatori.
III. 2. Nuovi modi di intendere la saudade
Saudade è anche il nome di una rivista, o meglio di:
[…] un blog letterario autonomo e indipendente, creato da alcuni studenti della Sapienza di Roma alla ricerca di un punto di incontro. Il sito si compone di cinque sezioni: 1) CRITICA un nuovo modo di intendere gli autori e la letteratura filtrati dalla saudade 2) NUOVE POETICHE la saudade incontra la poesia 3) NUOVE PROSE l’incontro tra i giovani autori e la saudade 4) SATURA riflessioni sulla società odierna 5) DIGRESSIONI tutto quello che abbiamo da dire e non trova spazio in nessun altro luogo che in questo sito.
Gli obiettivi e le utopie del blog potete trovarli all’interno del testo comune SAUDADE MIA.
La redazione è attualmente composta da Eleonora Aleotti, Chiara Macchiarulo, Marco Migliorelli, Marco Paone, Salvatore Piombino, Annamaria Pompili, Aurora Ponzi, Edyta Scibior e Diego Vitali .
Nel testo comune Saudade mia, un interessante miscuglio di prosa, poesia e critica, sono espresse alcune delle fonti, degli obiettivi e più in generale, delle idee di questo gruppo di studenti, che si propongono di utilizzare la saudade come una specie di filtro attraverso cui leggere la realtà e la letteratura, sia quella già scritta che quella ancora da scrivere; sembra interessante citare, e poi brevemente commentare, alcune parti di questo testo, partendo dall’inizio:
Certe cose
Sono fatte più per essere ricordate
Che per essere vissute.
[…]
Avevamo il sentimento ma non il nome. Ed era sentimento di giorni corrotti, di vite sbagliate e sogni un po’ storti. Temevamo la vita e allo stesso tempo desideravamo averla tra le dita, sentirla palpitare, lanciarla nell’aria senza farla tornare. Ma il mondo ce lo vietava. […] Avevamo nostalgia di un mondo migliore, mai avuto, mai conosciuto. Lo sentivamo dentro come reale e da qualche parte lo sapevamo vero. […] (Avevamo il sentimento ma non il nome; non avevamo niente, neanche i nomi, sentimenti senza nome e senza voce, le passioni tutte uguali, che tristezza) […] Esilio. Nostalgia dell’appartenenza. […] Cosa ci chiedeva il mondo, cosa ci chiedevano i maestri, gente comune che aveva scelto di vivere vite speciali, e tu? Tu che eri nell’aria, ci avvolgevi fanciulli incoscienti, ti bramavamo come si può bramare un amore sognato. Ti cercavamo. […] Ma non era nostalgia. Era una malattia profonda, una nostalgia che non sarebbe stata mai colmata. […] Era la saudade, questa malattia profonda dalla quale traevamo noi stessi a nuova vita.
“La saudade può sfociare nella chiusura e nella rabbia quando, senza delle gratificazioni sostitutive, in una persona predomina il sentimento della perdita. Ma può portare alla creatività, se diventa il pozzo dal quale attingere l’acqua fresca e profonda che ha il colore della notte. Non è la saudade che spinge ogni scrittore a trasformare la propria sete in gioia di bere?”
(C. de Caldas Brito)
[…] Venimmo a scoprire un mondo nuovo, fatto di uomini che viaggiavano e ci rivelavano nella nostra lingua, lingue diverse.[…] Cercavamo scambi di merce e li trovammo nei gesti e negli sguardi di chi la saudade ce l’aveva addosso come un vestito. […] L’Africa e il Sudamerica erano le terre che si mostravano a noi con più disposizione. […]
[…]
È questo il viaggio che frantuma i continenti
Che muta i confini in bordi salati
E il suo mezzo
(di terra che trema nel cuore
Un parto lungi dai coralli)
-noi Alla Deriva Creatrice-
Una zattera di pietra
La lunga citazione è giustificata dal fatto che in questa reinterpretazione della saudade è presente tutta quella serie di fitti significati che la parola racchiude in sé arricchiti inoltre da un senso di impegno da attribuire all’opera e all’operazione letteraria: la saudade diventa una forma di nostalgia differente, e cioè nostalgia di un mondo diverso, senza dubbio migliore, cui l’uomo in realtà non è mai stato strappato, poiché esso non è mai esistito; questo nuovo, originale modo di vedere la saudade non è in contrasto con quanto afferma il DITL – cui abbiamo fatto spesso riferimento –, sulla differenza tra saudade e spleen baudelairiano: tale conciliazione è possibile riflettendo sul fatto che in diversi contesti storici una stessa parola può acquistare diverse sfumature di significato, ma anche per il fatto che la saudade di cui parla il testo appena citato – pur avendo come oggetto qualcosa di mai posseduto – diventa poi spinta per un nuovo modo di fare letteratura e critica diventando una specie di bandiera o manifesto dal quale farsi guidare nell’avventura letteraria; e poi ancora, pur non essendo mai esistito quel mondo, la saudade lo prende come oggetto, ossia esso è completamente identificabile. Inoltre, all’interno di questo testo è presente anche una citazione da un saggio di poetica della nostra Autrice, già citato in questa sede, per i cui riferimenti bibliografici rimando alla relativa nota .
III. 3. Christiana de Caldas Brito: la saudade e le “sette esse”
Saudade, inoltre, è per Christiana de Caldas Brito una delle sue “sette esse” ; le elencherò nell’ordine in cui mi sono state elencate da lei stessa:
-Studi
-Spostamenti
-Sorprese
-Saudade
-Solitudine
-Scrittura
-Separazioni
Mi sembra curioso e forse non del tutto inutile aggiungere che in un primo momento la nostra Autrice non riuscisse a ricordare una delle sue “esse”, la Solitudine; essendo una psicologa ritengo che abbia notato lei stessa questo suo lapsus, di cui si potrebbe proporre una approssimativa interpretazione. Tuttavia questa non sembra essere la sede migliore per discuterne.
Tornando alle “sette esse”, ritengo possibile e forse magari anche utile ridurle a 4, e cioè:
-Studi
-Sorprese
-Saudade
-Scrittura
Considero possibile questa riduzione partendo dalla precedentemente citata etimologia della parola saudade, in quanto in essa sembrano essere comprese anche le parole, in un certo senso, eliminate; perché fa parte della saudade lo Spostamento, che è fisico e mentale, psicologico, ossia il cambiamento di luogo fisico in cui ci si trovava verso il nuovo nel quale ci si trova; ma anche nel senso di Spostamento del punto di vista attraverso il quale si guarda il mondo che ci circonda fino a non riconoscerlo più o comunque a vederlo diversamente da come ci si sarebbe aspettati (cfr. il racconto Il giardino analizzato nell’Appendice).
Strettamente connesso allo Spostamento in quanto sua diretta conseguenza, è la Separazione, che anche in questo caso può rivestirsi di una duplice connotazione sia fisica che psicologica, in quanto a volte una distanza psicologica può essere infinitamente maggiore di una strettamente fisica: l’immigrato è separato non solo dalla sua terra e dalle persone care in senso fisico, ma lo è in misura forse ancora maggiore in senso psicologico rispetto alla propria cultura, ai propri affetti; in una parola egli è uno straniero nel senso più totale del termine. Ma la Separazione può essere anche causa dello Spostamento: il senso di Separazione, il non riconoscersi in un dato luogo, il desiderio di “spostarsi” per conoscere il mondo e per rafforzare la propria identità può anche precedere e quindi causare lo Spostamento stesso. Potrebbe essere questo il caso della nostra Autrice, che sebbene si consideri un’immigrata nel senso più proprio del termine, ammette lei stessa di non essere “migrata” per necessità economiche e quindi proprio di sopravvivenza, come fanno invece molti dei personaggi dei suoi racconti più strettamente d’immigrazione; ella stessa, infatti, afferma che è stato a causa dei suoi Studi che ha effettuato il suo primo grande Spostamento, che l’ha portata appena diciassettenne in Nord America.
Da ultima, ma non meno importante, la Solitudine; la “esse” che de Caldas Brito non riusciva a ricordare nella nostra chiacchierata è contenuta nella etimologia stessa della parola, ed è forse l’essenza stessa della saudade, il sentimento più forte che la caratterizza, la sua base; in una terra straniera la Solitudine è forse l’emozione più forte che si possa provare, almeno in un primo momento; è il caso ancora una volta della protagonista-narrattice di Cara Jandira.
Punto d’approdo di questo cammino attraverso le sue “sette esse”, è la Scrittura, come afferma lei stessa nella già citata comunicazione personale; la Scrittura è per la nostra Autrice una specie di vocazione sentita sin da piccola, un punto finale in cui, oltre alle “sette esse”, converge tutto il suo Essere:
”[…] Sono cresciuta sentendo la macchina da scrivere di mamma. Quel tic tic tic triim tic tic tic trim ha dato un ritmo alla mia infanzia. Da piccolina, vedevo entrare fogli e fogli di carta bianca nel rullo della sua Remington. Uscivano pieni di storie. A quel tempo pensavo che i romanzi fossero lì dentro al rullo, già pronti, e che bastasse battere i tasti della macchina, con un certo ritmo, per essere una scrittrice. All’età di quattro anni mi sono spesso esercitata in tale attività, provocando le risate degli adulti. Non sapevo ancora leggere, ma quei geroglifici incomprensibili sono stati i miei primi racconti […]”
III. 4. Il “racconto di saudade”
Alcune proposte di analisi: Amanda e Ana de Jesus
Di strada sicuramente la nostra Autrice ne ha fatta tanta, a partire da quei primissimi ed incomprensibili racconti infantili.
Amanda Olinda Azzurra e le altre , la sua prima raccolta di racconti, esce in una prima edizione presso la Lilith Edizioni di Roma nel 1998 e contiene tredici racconti di varia lunghezza e contenuto, tra i quali vi sono alcuni tra i più rappresentativi della scrittura di de Caldas Brito: Ana de Jesus, rappresentato anche come monologo teatrale; Amanda; ricordiamo anche Olinda e Il pinga-pinga.
L’analisi che segue, in relazione al taglio di questo lavoro, vorrebbe rintracciare il tema della saudade, così centrale nell’opera di Christiana de Caldas Brito, in due racconti giudicati più rappresentativi per il loro contenuto tematico.
Si propone una definizione dei racconti citati come “racconti di saudade”, poiché essa è così centrale anche nell’azione narrativa (Ana decide di tornare a casa, Amanda spende metà del suo stipendio per rivedere uno sconosciuto), da annullare il racconto stesso qualora mancasse; si spera di non aver creato una ulteriore inutile categoria, e per questo motivo si preferisce non continuare in spiegazioni teoriche, lasciando che l’evidenza della classificazione emerga dalle stesse analisi dei racconti, e dai racconti stessi ad una seconda e più approfondita lettura.
III. 4. 1. Amanda
Ciò su cui vorrei ora attirare l’attenzione proponendone una breve analisi è il racconto Amanda; nelle righe iniziali infatti, leggiamo – in corsivo nel testo – : “Uomini e donne, è arrivato l’ammazza-nostalgia! Con l’apparecchiatura adeguata, farà scomparire la vostra nostalgia! Uomini e donne, è meglio che non perdiate quest’occasione!” .
In una calda giornata di fine estate, la vita un po’ squallida di una donna triste viene scossa da un incontro bizzarro ed inaspettato: Amanda è come al solito sul balconcino della sua modesta casa di periferia quando sente questa specie di richiamo che si ripete con la meccanicità di una voce registrata come quella dell’arrotino che ogni tanto si faceva sentire con una formula del tutto simile da quelle parti. Inizialmente ella dubita, ma poi decide di chiamare dal balconcino quello strano personaggio, con cui ha un incontro al limite dell’incredibile: l’ammazza-nostalgia è un uomo gentile e distinto, sulla quarantina, che non può che colpire a fantasia di Amanda, i cui giorni si susseguono ormai miti e monotoni. Segue una breve “visita”, con tanto di richiesta di anamnesi e successiva immancabile diagnosi:
[…] “Da quanto tempo soffre di nostalgia signora?”
“Due anni.”
“Poco.”
“Poco?”
“Con il mestiere che esercito, signora, conosco nostalgie di gran lunga più vecchie. Una mia cliente cilena, che vive in Italia da ventisette anni, non riesce a dimenticare il Cile e piange tutte le sere. Quella sì che è nostalgia!”
“Mi scusi, lei misura la nostalgia dal numero di anni o dall’intensità?”
“La misuro con il nostalgiometro, signora.”
[…] “Adesso chiuda gli occhi, le applico il nostalgiometro.”
“Perché gli occhi chiusi?”
“Così tornano i ricordi.”
Speriamo che non tornino tutti se no piango, pensa Amanda mentre chiude gli occhi. L’ammazza-nostalgia le poggia il nostalgiometro sulla fronte. “Respiri profondamente”[…].
“Ho una sensazione dolce.”
“Sale.”
“No, non c’entra il sale. E’ dolce.”
“Sale il nostalgiometro.”
“Sto male?”
“Nostalgia del tipo S.”
“Sarebbe?”
“Sopportabile.”
“Ah, c’è pure l’insopportabile.”
“No. Le tipologie della nostalgia sono tre: S., M. e P. La prima, sopportabile, come la sua; la seconda, mediana, e la terza…”
“Profonda?”
“Purulenta, se accompagnata da pustole.”
“Dio mio, non sapevo che le nostalgie potessero addirittura provocare il pus.”
“I batteri della nostalgia sono tra i più potenti, signora. Non mi sarei dedicato a lottare contro questo male se non fossi assolutamente convinto della sua virulenza.”
L’ammazza-nostalgia sembra un po’ un medico e un po’ uno sciamano, una sorta di punto di contatto tra una cultura appunto sciamanica e una scientifica o meglio pseudoscientifica.
Come nella maggior parte dei racconti della nostra Autrice, il fantastico fa irruzione con naturalezza nella vita quotidiana quasi come se ne fosse parte integrante, e ancora una volta, la dimensione onirica non è ben distinguibile da quella della realtà. Quanti immigrati, infatti, non hanno “sognato” almeno una volta nella loro vita di “ammazzare” quella orribile sensazione di spaesamento e nostalgia che sono tipiche della loro condizione? E’ il caso, per esempio della cliente cilena dell’ammazza-nostalgia, la cui condizione morbosa dura ormai da ventisette lunghi anni, da quando cioè si è trasferita a vivere in Italia; forse non è un caso che la nostra Autrice scelga proprio una terra del suo Sudamerica per fornire un esempio di nostalgia che in questo caso diventa vera e propria saudade.
Christiana de Caldas Brito, inoltre, in questo racconto giustappone vari tipi diversi di nostalgia, e pare accennare a molte delle possibili sfumature del termine saudade: la cilena infatti, ha saudade della sua terra, Amanda dello zio Alfonso, l’ammazza-nostalgia – che scopriremo chiamarsi Mauro – ha una nostalgia di tipo “P.” per la madre morta da ormai trent’anni.
Amanda dubita per un istante della buona fede dello strano personaggio che ha avuto modo di incontrare; ma le bastano pochissime battute per entrare in una certa empatia con lui. E’ proprio nella iniziale titubanza di Amanda che avviene il passaggio verso il momento del fantastico nel racconto: Amanda, inizialmente scettica, accetta di seguire una logica illogica, che è quella della dimensione onirico-fantastica che fa da sfondo al racconto.
Accettando di seguire questa logica “altra”, Amanda è attenta a rispondere con prontezza alle domande che le porge quell’assurdo medico della nostalgia: durante una vera e propria visita, l’ammazza-nostalgia le mostra il suo strumento di lavoro, il “nostalgiometro”, tramite il quale effettuerà la sua professionalissima diagnosi. La serietà della scena fa da contrappunto alla consapevolezza del lettore di trovarsi in una dimensione “altra”, una dimensione dalla quale però, non si vorrebbe uscire; una dimensione in cui è possibile, dietro lauto compenso – il costo della prima visita di Mauro è di ben trecento euro! –, liberarsi delle proprie nostalgie quasi per magia.
Una sorta di psicologo sui generis, questo ammazza-nostalgia, certamente non privo di rimandi alla professione, certo più seria e complicata, della stessa Autrice che si potrebbe qui vedere scissa in due parti: parte di lei ha saudade, e si identificherebbe – pur con molte riserve – con Amanda; parte di lei, invece – con le stesse riserve –, si identificherebbe con Mauro; quanto appena accennato non pretende di fornire una interpretazione univoca, ma soltanto di fornire spunti per ulteriori riflessioni.
III. 4. 2. Ana de Jesus
Un altro racconto, contenuto nella stessa raccolta, Amanda Olinda Azzurra e le altre, merita cenni più estesi; si tratta di Ana de Jesus .
Classificabile, pur con tutte le cautele di ogni classificazione, come “racconto di saudade” allo stesso modo di Amanda, e Cara Jandira, Ana de Jesus si presenta come una sorta di flusso di coscienza, o meglio un monologo che aspira a diventare un dialogo; Ana de Jesus, rappresentato come monologo teatrale, è il tentativo della protagonista che dà il titolo al racconto di trasformare questo monologo in un dialogo con “la signora”, che immaginiamo sia una donna benestante italiana che l’ha assunta come colf.
Ana prova a parlare con lei, ma “la signora” le risponde di avere fretta, di non avere tempo per ascoltarla; così il suo resta un tentativo di dialogo, resta un monologo, in cui ricorda la vita nel suo paese e la confronta con quella nella sua nuova terra. Compare qui un breve accenno al tema della pioggia, che sarà poi la colonna portante del romanzo 500 temporali .
”[…] Signora, qui triste e freddo. Lo so, lei dato me capotto bello, ma paese mio non bisogno capotto. Là il sole scalda da genaro a dicembro. Impermeabile neanche serve. Ieri sera, signora, piovudo forte, no? Io presa pioggia su corpo, capelli. Tutto bagnado. Io rideva, contente, e tutti guardavano come io era pazza. Paese mio prendo sempre pioggia. Non polmonite.
Italia ricca, tutti coperti non senteno piacere di pioggia nel corpo[…] “.
Il racconto-monologo continua con una serie di struggenti ricordi, e soprattutto di confronti tra la vita nel Paese d’origine e quella nel Paese d’arrivo, l’Italia-bene presso la quale lavora come colf.
Ana rimane colpita da tutta una serie di cose che lasciano interdetto anche il lettore più smaliziato: si meraviglia del fatto che in Italia il cibo per cani sia migliore di quello dato ai bambini nel suo Paese; per non parlare della reazione davanti alla Barbie, il simbolo della donna-oggetto della nostra cultura: la figlia, cui Ana ne spedisce una, le taglia subito i capelli, nel timore che possa avere dei pidocchi… Nel suo Paese, invece, i divertimenti dei bambini non si possono comprare come qui da noi; da bambini basta stare seduti da qualche parte ad ascoltare i racconti della nonna che rammendando, racconta storie, come quella dell’uomo che da quando era nato portava sulle spalle uno zaino pesantissimo: una sorta di rappresentazione letteraria dello Zaino della saudade ?
Nelle pagine del breve scritto, oltre ad una generale presentazione della saudade troviamo la descrizione del momento di arrivo, quello in cui più forte si presenta la saudade, presentando in un certo senso, il contenuto di quel pesantissimo Zaino:
”[…] Ogni persona che va a vivere in una nuova terra deve ribattezzarsi. Se rimanesse assolutamente fedele alle sue tradizioni, alla sua lingua, all’educazione ricevuta, se mantenesse le sue usanze di origine, se continuasse a mangiare solo quello che ha sempre mangiato, a parlare come ha sempre parlato, se rispettasse pedissequamente le sue abitudini di prima, cosa le succederebbe? Questa persona si troverebbe in una condizione simile alla pazzia. Chi è il pazzo? E’ il non adattato, è quello che non comunica, che è chiuso in un mondo idiosincratico le cui regole non sono le regole delle altre persone.
All’inizio della sua permanenza in un nuovo paese, io credo che un immigrato viva in una condizione simile alla schizofrenia: non avendo ancora avuto il tempo necessario per adattarsi a delle nuove abitudini, non avendo ancora avuto l’occasione di apprezzare quello che la sua nuova terra gli offre, il dolore nostalgico dell’immigrato, la sua saudade, gli impedisce di aprire gli occhi alla nuova realtà che lo circonda: il vissuto delle perdite è talmente grande che occupa tutto il suo spazio interno […] .”
Con qualche libertà interpretativa, si potrebbe supporre una certa vicinanza tra i due zaini, o comunque se ne può proporre un collegamento più o meno consapevole da parte della nostra Autrice: non sembra difficile immaginare come lo zaino che contenga la saudade dell’immigrato possa essere pesante, in quanto contiene tutto quanto elencato da de Caldas Brito nell’introduzione al già citato volume: tradizioni, lingua, educazione, abitudini alimentari e linguistiche ecc.
Immaginiamo come tutto ciò possa essere realmente pesante, sebbene si tratti di oggetti immateriali: tornando al racconto della nonna di Ana, ricordiamo che in realtà lo zaino dell’uomo del racconto era completamente vuoto; ma pieno di saudade. Poco più avanti, infatti, il racconto continua:
”[…] Pesante e vuoto il zaino, come la mia vita adesso. Di tanta saudade, mi sinto spezzettare dentro. Se nonna estava in Italia, con certezza mi insegnaria a rammendarmi. Saudade dentro di te, signora, è un grande orologio. Batte forte, sempre, sin fermare mai. Mattino, sera, notte, dentro di te, tom tom tom tom, l’orologio batte, ma tu non sai che ora è. “
Estremamente suggestiva la definizione proposta per la saudade, poetica, e certamente più efficace di qualsiasi ricostruzione etimologica, letteraria o filosofica.
Il racconto termina con una affermazione perentoria: “Io torno.” Ana non dice “io vado”, ma “io torno”: tornare è diverso da andare, suppone una scelta quasi definitiva, o che almeno si vorrebbe fosse tale; e lei vuole tornare, non riesce a resistere lontana dalla sua terra e dai suoi affetti, anche se sembra le manchi di più il suo paese che le persone che ha lasciato. Come si sarà visto dalle citazioni riportate, la lingua del racconto è del tutto particolare: è quel miscuglio di portoghese e italiano di chi pensa in una lingua ma parla in un’altra; è, come lo definisce l’Autrice stessa, il portuliano, “espressione della ‘mente lusofonica’ utilizzato da alcune tra le protagoniste dei racconti” .
La lingua è forse l’elemento fondamentale nella formazione dell’identità di una persona, tanto dell’identità individuale che di quella collettiva, o meglio nazionale; e la lingua di Ana e di altre protagoniste della raccolta Amanda Olinda Azzurra e le altre, non può non riflettere il momento del passaggio da un luogo ad un altro: nella lingua di queste donne, che non sono né qui né là – per citare il titolo di una successiva raccolta di racconti della nostra Autrice – è evidente proprio questo passaggio, questa migrazione nel senso interiore del termine, con lo spaesamento che ne consegue, poiché non essendo né qui né là, in realtà non sono in nessun luogo allo stesso modo in cui la loro lingua non è né italiano né portoghese ma “portuliano”, ossia una lingua che non esiste, in un luogo che non esiste, un trans-luogo in cui esse si trovano a “vivere”. Per ulteriori riflessioni sulla lingua, si rimanda al secondo capitolo di questo lavoro, a proposito del confronto con il paese d’arrivo.