El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Il giardino

Christiana de Caldas Brito

Christiana de Caldas Brito IL GIARDINO

Ancora mi domando in quale momento il filo dorato iniziò a consumarsi. Forse quando ho manifestato la voglia di conoscere un giardino più vasto, più eccitante e pericoloso, diverso da quel calmo e silenzioso giardino di casa nostra, fermo nel tempo.
Da noi, niente televisione, niente telefono, tutti in giardino, fuori dal mondo. Il tenue filo d'oro tremolava al vento e ci teneva immobili, uniti, senza fretta, senza voler andare da un'altra parte, il gelsomino a profumare un'inutile attesa.
Non capisco come sia riuscita a vivere tanti anni lontana dal giardino, come abbia fatto a lasciarvi soli in quelle calde serate di scirocco, mamma sulla sedia di vimini, tu che parlavi alle stelle, sdraiato sull'amaca. Gustavo era sempre il primo ad avere sonno. Mi alzavo dalla panchina di legno per portarlo a letto. In camera, mi chiedeva di cantargli boi da cara preta e quando dicevo pega esse menino que tem medo de careta, la sua piccola mano stringeva la mia e il mondo era tutto lì, in quel contatto.
Proprio sulla panchina di legno, vi ho comunicato la mia decisione. Tu, dall'amaca, dicesti alle stelle: "Non torna più." Ti eri riferito a me come se io fossi già andata via, come se io non appartenessi più al giardino. Inutili i miei rifiuti: "Cosa dici, papà, non sarò fuori per molto tempo!". Mamma non fece alcun commento, ma la sua sedia scricchiolò. Sempre alle stelle ripetesti: "Non torna più, lo sento. Maira non torna più."
Ti sei sbagliato, papà. È passato molto più tempo di quanto io abbia previsto, ma sto tornando a casa. Per te, per mamma, per Silvia, Rodolfo e Gustavo. Non vi ho potuto seguire durante questi anni, ma insieme ritroveremo le serate della mia adolescenza, quelle serate in giardino, inconsapevoli delle ore che passavano, e senza che ti credessimo pazzo perché parlavi alle stelle. Appagati dal giardino, nessuno osava uscirne o chiedere di più alla vita. Nessuno, tranne me.
Non torno perché mi sono trovata male. In Europa faceva freddo, ma nel freddo si studia e si lavora meglio. Non ho avuto conflitti con l’efficacia frettolosa degli europei. Ho imparato anch'io a fare le cose in fretta. Torno per riacquistare il ritmo delle nostre serate in giardino, un ritmo fatto più di cose sognate che realizzate. Quando Silvia diceva di voler essere una ballerina, e Rodolfo affermava che un giorno sarebbe stato il padrone di un circo grande quanto uno stadio di calcio, noi sapevamo che quei sogni non si sarebbero mai avverati, ma sapevamo anche che i sogni esistono non necessariamente per trasformarsi in realtà, ma per mantenere integro il sapore della vita.
Poi, una sera, domandasti: "E tu, Maira, qual è il tuo sogno?" Fu la tua domanda a svegliare il sogno, papà. Non pensavo di averne uno. Mesi dopo, ti diedi la risposta: "Voglio viaggiare, papà, il mio sogno è partire."
Da allora non feci altro che prepararmi.
Il giorno della partenza, mi prendesti da parte: "Sappi che né io né tua madre siamo d'accordo."
Non mi avete scritto.
Silvia era pure arrabbiata: "Non puoi lasciarci così!" Senza baciarmi, si era allontanata, nascondendo il viso nel grembiule rosso. "Silvia”, le avevo detto, “presto ti sposerai e andrai via pure tu!”
Neanche lei mi scrisse.
Nei dieci anni che sono stata in Europa, Rodolfo è stato l'unico a mandarmi notizie, laconiche e generiche.
Io vi scrivevo una o due lettere la settimana. Cercavo di nascondere le cose brutte, enfatizzavo gli eventi gradevoli, nella speranza che voi arrivaste ad accettare che l'orizzonte è una linea che protegge alcuni, altri, invece, li invita a partire.
Quante notti contengono dieci anni? Per quanto tempo ho lasciato Gustavo senza canzoni? Chissà se la mancanza delle ninnananne avrà trasformato mio fratello in un adolescente scettico e ribelle. Mi metterà ancora le braccia intorno al collo come faceva ogni sera quando gli dicevo "dormi che è tardi"?
Silvia adesso sarà una casalinga, forse anche grassa. Mio Dio, com'è difficile immaginarla grassa, ma in qualunque emisfero dieci anni sono sufficienti per aggiungere dei chili a una donna, ballerina o casalinga che sia.
Rodolfo alla chetichella si sarà trasformato in un uomo, non più il ragazzo dalle lunghe braccia che graffiavano l'aria e dalla voce che passava dal falsetto al basso. E tu, papà, parlerai ancora alle stelle? Ti immagino calvo, le spalle piegate. Penso che troverò mamma con i capelli bianchi, gli occhi più tristi di prima.
Gli anni sono carte da gioco equamente distribuite tra tutti i giocatori. Dieci a voi, allora dieci anche a me... Come mi troverete?

* * *

Mi facesti un cenno con la mano. Eri venuto in aeroporto a prendere la figlia e il suo sogno. Uscita dal controllo dei bagagli, mi buttai nelle tue braccia. "Sei tornata", dicesti, la voce con cui parlavi alle stelle. Dieci anni non erano riusciti a piegare le tue spalle o a renderti calvo. "Bravo! " dissi, “sei lo stesso papà che ho lasciato." E tu: "Lo sono, lo sono." Ti scostasti un po’ per osservarmi: "Dieci, eh? Sembra ieri..." Volevi forse ignorare le rughe che si erano addensate sul mio viso? Una forma come un'altra per difenderti dai segni che il tempo con ancora più crudeltà lascia sui vecchi, vero, papà? Mi appoggiai al tuo braccio. "Fra poco sarai a casa", mi dicesti, "sono tutti là che ti aspettano." Chiusi gli occhi, per niente pentita di aver abbandonato i privilegi conquistati in Europa.
Non sospettavo ancora. Dovevo arrivare a casa per capire. Dovevo arrivare in giardino.
È stata Silvia ad aprirmi il cancello. Ci siamo guardate un attimo, per subito stringerci una nelle braccia dell'altra. Il bacio che mia sorella mi aveva negato il giorno della partenza si moltiplicò in tanti altri.
Mamma si alzò dalla sedia di vimini, mi prese le mani. I suoi occhi non erano tristi, anzi, nonostante le lacrime, mandavano una gaia luce estiva. "Mammina", le dissi, "stai benissimo!" Un adolescente, alto e magro, reclamava il suo turno:
"Adesso, tocca a me!" Ero sbalordita: "Gustavo, come sei cresciuto! Sei uguale a Rodolfo!" L'adolescente si mise a ridere: "Sono Rodolfo, Maira, non mi riconosci?" Fu allora che un bambino mise le braccia intorno al mio collo. Lo alzai. Guardai Silvia: era per caso diventata madre senza avermi detto niente? Il bambino strinse la mia mano. Confusa da quel contatto, sussurrai: "Gustavo?”
Mi sedetti sulla panchina di legno, il mio posto al giardino. Silvia venne a sedersi accanto a me. Portava il grembiule rosso del giorno della mia partenza. I suoi capelli avevano lo stesso taglio del periodo in cui ero andata via. “Silvia”, le domandai a voce bassa, “il bambino piccolo... è... Gustavo?” Lei fece di sì con la testa. "Come mai, Silvia, come mai?" Non mi rispose.
Tu, papà, eri sdraiato sull'amaca. Fissavi le stelle. Un filo dorato creava un tenue cerchio intorno al giardino. Il gelsomino emanava l'identico profumo di tanti anni prima.
“Silvia”, dissi a mia sorella, “tuo marito, dov’è?” Lei aggiustò il grembiule con le mani, come a scusarsi: "Ancora non mi sono sposata."
Rodolfo toccò delicatamente la mia mano: "Non riesci a capire?"
"Spiegami, Rodolfo, spiegami perché invece di trovarti un uomo, sono davanti allo stesso ragazzo della foto che ho portato con me."
Un greve silenzio precedette le parole di Rodolfo: "Non è stato facile". "Cosa, Rodolfo, cosa non è stato facile?" Neanche lui mi diede una risposta.
Gustavo mi tirò verso di lui: "Mi canterai, questa sera? Mi canterai boi da cara preta?" Era la voce di un bambino di sei anni, sì, ma che doveva averne sedici.
Abbracciai il giardino con un lungo sguardo. Il filo d'oro oscillava su fiori e piante, gli stessi fiori e le stesse piante di dieci anni fa. Sopra il centrino del tavolo di vimini, il vaso di ceramica blu con sei camelie bianche. Profondamente turbata, mi alzai: "Mamma, le camelie...” Mia madre sorrise: “Sì, tesoro, quelle che mi hai regalato prima di partire.”
La gioia del mio ritorno, che con l'immaginazione era stata anticipata nei minimi dettagli, si stava trasformando in qualcos'altro che non sapevo ancora definire e che mi riempiva di terrore. "Mio Dio, voi..."
Cercasti di tranquillizzarmi, papà: "Te l'ho già detto, Maira. Per noi, sei partita ieri. Siamo rimasti qui, in giardino." "A far cosa, papà?" "Ad aspettarti" mi dicesti con la voce calma.
"Ho sonno" sbadigliò Gustavo. "Portalo a letto, Maira " disse mamma.
Portare Gustavo a letto e cantargli boi da cara preta, come se io non mi fossi mai allontanata? Rientrare a far parte del giardino insieme ai miei familiari che avevano vissuto un lungo giorno durato dieci anni? O spezzare per sempre il filo dorato?
Presi Gustavo in braccio, le sue mani intorno al mio collo. Ti guardai, papà, e dall'amaca ti sentii dire alle stelle: "Non torna più, lo sento. Maira non torna più."

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(ISSN 1824-6648)

Christiana de Caldas Brito

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 4, Numero 16
June 2007

 

 

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