A questo punto passiamo a Salah Methnani, autore (con la collaborazione di Mario Fortunato) di Immigrato (1990), diario di un viaggio in Italia compiuto da un giovane laureato tunisino. Il testo è uno dei più noti della nostra giovane letteratura della migrazione. Insieme al senegalese Pap Khouma, autore (con la cura di Oreste Pivetta) di un'autobiografia intitolata Io venditore di elefanti, e al marocchino Mohamed Bouchane, autore di Chiamatemi Alì, entrambi del 1990, Methnani inaugura con il suo viaggio in Italia quello che è stato definito il "triennio iniziale 1990-92" della letteratura italiana della migrazione (Gnisci, 1998b, 35).
La critica letteraria ha inquadrato Immigrato a partire da due prospettive principali e distanti tra loro: quella ermeneutica, che ha messo in campo una lettura diretta corpo a corpo con il testo leggendo attraverso il tema del viaggio e il registro autobiografico la doppia immagine dell'immigrato dal mondo del sud al mondo del nord, da un lato, e dell'Italia vista e svelata "a contropelo" dallo sguardo lucido e doloroso del migrante, dall'altro (Gnisci, 1992); l'altra prospettiva adottata è quella che si interessa sostanzialmente alla ridefinizione dei modelli linguistici e letterari italiani da parte delle così dette letterature emergenti (L.E. Ruberto, 1997, 130) o minori italofone, che si rapportano al canone maggiore "deterritorializzandolo" (G. Parati, 1995, 5) e rimettendolo in connessione con la dimensione sociale.
Le due prospettive prediligono, rispettivamente, la dimensione palinsestuale, da un lato e intertestuale, dall'altro, della narrazione autobiografica della migrazione. Nel primo caso, cioè, l'interpretazione del testo instrada il lettore verso la comprensione dell' "errance", della viandanza come disciplina e prassi della profondità dell'umano (Gnisci, 1998c, 117), tematizzando ed esplicitando continuamente le responsabilità, i limiti e i meriti dello stesso atto interpretativo rispetto al testo interpretato. Solo in seconda istanza l'interpretazione (e, per suo tramite, il lettore che vuole accedere ad una lettura seconda del testo) passa ad una proposta di tipo retorico-normativo per quanto riguarda la posizione assunta dalla letteratura della migrazione rispetto al canone delle letterature nazionali europee.
Nel secondo caso, invece, l'approccio retorico-normativo, che per sua natura si presenta immediatamente come oggettivamente legittimato, ha come scopo principale la messa in luce delle modalità secondo le quali questi testi trasgrediscono il modello narrativo della letteratura nazionale attraverso una poetica intertestuale e allo stesso tempo transnazionale (Parati, 1995, 9-10; e 1997, 171-172). Da questa differenza/divergenza dei due approcci interpretativi praticati dalla critica letteraria dipende, a mio vedere, una sostanziale discordanza per quanto riguarda il trattamento del discorso autobiografico. Infatti, se assunto in chiave ermeneutica, esso è un rivelatore figurale della poetica della migrazione, e quindi non una convenzione "generica" latrice di un contenuto tematico abbastanza scontato:
La migrazione, comunque, non è una qualità che forma e distingue la letteratura solo da un punto di vista sociale o in ragione della tematica (fissa) che tratta: quella dell'immigrazione, appunto, in senso proprio e dominante. La migrazione, invece, è una qualità primordiale (di ordine primo: alla lettera) del destino degli umani. È un valore e un dolore, o anche un'abitudine e un'avventura, che origina l'umanità come tale e le permette di produrre immaginario e discorsi. È il contrario, quindi, di un carattere sociale (o "etnico") limitato, o di un tema minore e "poco nobile", perché troppo realistico, antropologico, per così dire [...]. (Gnisci, 1998b, 20).
Se considerato sul piano della individuazione e descrizione delle tecniche di auto-rappresentazione del soggetto, il discorso autobiografico diventa immediatamente un problema di "genere letterario", cioè propriamente dell'autobiografia e in particolare del modo in cui essa viene praticata dagli scrittori e dalle scrittrici immigrati in Italia per costruire le loro identità culturali in un contesto linguistico-letterario acquisito:
Naming these new writers in Italian has been and still is the problematic center of this essay. The temporary solution is to define them as African-Italian authors, since their texts construct African identities within an Italian national and linguistic context. (Parati, 1997, 171, ).
"Trovare qualche definizione di me stesso" (Methnani, 1997, 24) è, infatti, lo scopo del viaggio del protagonista di Immigrato, anche se nel procedere della narrazione ciò non si traduce in una ricerca della propria identità (nord)africana, la quale anzi il protagonista possiede integralmente al momento della partenza per poi scoprire di averla persa al suo ritorno in Africa. Di quale forma di "definizione di sé" si tratti lo apprendiamo dalle ultime pagine del testo, dove, a nostro parere, appare evidente che la viandanza italica dell'immigrato non è affatto un viaggio di formazione (verso l'acquisizione dell'identità auto-determinante e sicura di sé - cioè, aggiungerei, tipicamente europea - come sostiene invece L.E. Ruberto, 1997, 137), ma semmai il rovesciamento del finale tipico del romanzo di formazione: l'essere diventato allo stesso tempo familiare e straniero a se stesso si traduce - in occasione del ritorno del protagonista a Kairouan - nel riconoscimento di sé come disponibilità e apertura a sentire, riconoscere e capire, allo stesso tempo, l'estraneità della propria patria d'origine, così come estraneo era ogni luogo che attraversava da migrante: una superficie su cui si scivola, fatta di cose e persone che si succedono senza lasciare traccia nella memoria:
Era curioso tornare ad esprimersi in arabo con chiunque. Durante la breve fila per il biglietto, mi ero sentito per metà uno straniero. Era come se la realtà mi arrivasse di colpo dopo aver superato un qualche filtro, che la rendeva contemporaneamente comprensibile e ignota. Mi chiesi se, in qualche modo sconosciuto, io avessi smesso di essere un tunisino. (Methnani, 1997, 128).
Immigrato è il rovescio di un classico percorso formativo, che riconduce cioè il soggetto risanato dal suo disagio e addomesticato in seno alla società di origine. Forse un tipo di viaggio che potrebbe servire a tale scopo sarebbe prefigurabile nell'ultima battuta del testo "Pensai che il viaggio cominciava adesso" (132), ma di esso non abbiamo racconto. Quello che abbiamo è invece la messa in forma sulla carta e nella carne (il diario che il protagonista tiene durante il viaggio e il suo corpo delirante che appare nei passaggi cruciali di questa trasformazione, magistralmente ad esempio come passaggio e oscillazione tra l'uso dell'italiano, dell'arabo e del francese), attraverso il discorso autobiografico, di una poetica generale della migrazione continua del soggetto che da "self-reliable" e "self-determined" diventa anch'esso, come appare la città di Kairouan al suo ritorno e come si presenta il racconto stesso nella sua chiusa, un "annuncio di transitorietà":
In arabo, Kairouan vuol dire accampamento. [...] Le sue case, la Medina, le strade, le piazze paiono, da un momento all'altro, dover riprendere il loro cammino. [...] Anche l'aria, immobile e spessa per il caldo, entra in agitazione. Si scompone e indica mille direzioni, traiettorie di fuga, annunci di transitorietà. [...] Avverti che ogni ritorno è in realtà una nuova tappa in avanti, e che anzi non c'è mai un ritorno. (129).
Questo percorso s-formativo e deformante del soggetto autobiografico messo in scena dai testi di Hajdari e Methnani richiama esemplarmente al lettore la qualità del migrante e del viandante come figure umane originarie, attraverso le quali - in quanto figure senzienti appunto e non in quanto contenitori di sentimenti e storie da raccontare - il discorso autobiografico si trascende in ritmo e corpo presente, spirito del corpo umano, essere nel mondo, mondanità compiuta. In questo senso a cucire le diverse poetiche della migrazione ci sarebbe una poetica più generale, quella che si è tentato sin qui di individuare come poetica del sentire e che consiste nel tentativo di rendere visibili le forze che animano il sentire stesso. Rendere visibili tali forze è presentarle mentre esse agiscono, mentre riempiono - deformandole - le proprietà dello strumento espressivo prescelto, in questo caso la rappresentatività e la figuratività soggettivamente marcate del discorso autobiografico. Tale discorso, infatti, non ha più storie da raccontare bensì figure esemplari da mostrare in quanto campi di sensibilità, attraverso i quali avviene l'interazione tra uomo e mondo, campi offerti alla percezione (e non all'intelletto che coglie solo le trasformazioni "formali") del fruitore.
In conclusione di questo rapido percorso attraverso i testi di Hajdari e Methnani ci preme ricondurre l'esistenza di una poetica della migrazione come poetica del sentire disappartenente e della transitorietà alla questione, sollevata da Dombroski e qui riportata in apertura di testo, della mancanza in Italia di " a cultural studies discourse: namely an ideology that goes beyond its material base, forcing the pratictioners of criticism to theorize their relationship to culture". Questo passaggio è stato ritardato secondo Dombroski, dal persistere nel nostro paese di un'idea elitaria di cultura e di conseguenza dei privilegi di classe di cui godono gli stessi intellettuali, malgrado il ruolo svolto dalla cultura marxista sul piano dello sviluppo istituzionale. La richiesta di approfondimento dei rapporti tra la cultura e il potere, base ideologica generale su cui si sono sviluppati negli Stati Uniti i cultural studies, con ampi riferimenti come si sa al pensiero gramsciano (l'intellettuale come colui che eleva se stesso a elemento della contraddizione, facendo di questa un principio di conoscenza e di azione), sembra richiedere anche nel caso della critica letteraria italiana contemporanea - come auspica Dombroski - la messa a fuoco del ruolo che il critico stesso riveste nell'analisi di quei rapporti. In tale direzione riteniamo che un utile contributo possa essere dato dal favorire anche da noi lo sviluppo di un discorso critico che in termini aggiornati alla nostra epoca possiamo definire decolonizzante, nei confronti dei propri "oggetti di riflessione", e decolonizzato rispetto alla propria storia di "casta".
Nel caso dello studio letterario, il discorso critico decolonizzante e decolonizzato muove oggi i suoi passi, in Italia, dal terreno comparatistico, che del resto anche altrove nel mondo condivide con le teorie postcoloniali, gli "studi culturali" e l'antropologia critica un atteggiamento autocritico comparativo, cioè praticato, oltre che teorizzato, nel colloquio tra le culture. Ma questa comparazione per essere veramente efficace deve contenere in sé proprio quella messa a fuoco del ruolo che il critico riveste nell'analisi dei rapporti tra cultura (e letteratura) e potere, auspicata da Dombroski.
Più in particolare, per quanto riguarda il tema della letteratura italiana della migrazione e del suo apprezzamento critico in relazione alla tradizione letteraria nazionale, il passaggio ad una concezione della letteratura italiana come sistema aperto, e non chiuso e monoetnico, può favorire non solo l'introduzione sul piano dell'analisi critica di quel corpus di testi che meno sembrano rispondere al canone tradizionale, così come è avvenuto per le altre letterature europee, ma chiamando in causa il ruolo svolto dalla cultura italiana nella formazione di questi scrittori (spesso provenienti dalle ex colonie italiane), potrebbe aprire prospettive nuove nella letteratura contemporanea. Parimenti, la messa in luce ad un livello sempre più puntuale dei caratteri delle poetiche della migrazione nella letteratura italiana contemporanea, attraverso i suoi vari casi particolari e diversi tra loro, può contribuire ad avvalorare ulteriormente l' instradamento mondiale degli studi letterari italiani.
* Il presente contributo è apparso su "Studi (e testi) italiani" (Dipartimento di Italianistica e Spettacolo, Università di Roma "La Sapienza"), n.7, 2001, pp. 189-206.
Dalla rivista Kuma 3 gennaio 2002