El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

da "Il rovescio del gioco"

armando gnisci

Ma torniamo al viaggio. Eravamo appena partiti e già sembra che siamo arrivati alle conclusioni. Procediamo con calma, facciamo i giusti passi, anche perché queste sono terre sconosciute e forse pericolose per un critico letterario. Di che parlano i nostri testi? Finora non ne abbiamo dato che qualche cenno. Guardiamoli più da vicino.
S.M. [Salah Methnani] racconta inizialmente del suo sogno adole¬scenziale dell'Italia, della sua voglia di partire da Tunisi, dopo laureato, verso il nostro paese visto come «un Paese incantato, felice» dove «il lavoro ci fosse dappertutto, le donne ci stavano e gli uomini erano tutti froci» (p. 12): una specie di Paese di Bengodi o Paese dei Balocchi. Il nostro narratore protagonista-autore decide così di partire e sbarca a Mazara del Vallo. «Erano i primi di ottobre. Mi domandavo: "Sto partendo come un emigrante nordafricano o come un qualsiasi ragazzo che vuole conoscere il mondo?'
Quel giorno non sapevo rispondermi. » (p. 14). Ecco la domanda fondamentale immaginiamo che il narra¬tore se la ponga nel tratto di mare tra Tunisi e la Sicilia, nel momento periglioso e iniziatico del varco e del passaggio che si fa subito innanzi alla coscienza di un giovane intellettuale e che mette in gioco l’identità stessa della persona nell'arrischiamento del viaggio: turista del desiderio o dannato della terra? La risposta arriva abbastanza presto, proprio in Sicilia: «Sono costretto a non vedermi più, in cosi poco tempo, come un giovane laureato all'estero. Non sono già più un ragazzo che vuole viaggiare e conoscere. No: di colpo, mi scopro a essere in tutto e per tutto un immigrato nordafricano, senza lavoro, senza casa, clandestino. Un individuo di ventisette anni venuto qui alla ricerca di qualche cosa di confuso: il mito dell'Occidente, del benessere, di una specie di libertà. Tutte parole che già stanno incominciando a sfaldarsi nella mia testa. Al loro posto, la smorfia orribile del viso di Jabari.» (pp. 25 26). Chi narra è ridotto subito a sentirsi un immigrato, a prendere su di sé il peso di questa identità scissa e spaventosa fin dall'inizio. Una condizione umana che proprio T.B.J. [Tahar Ben Jallun] ha descritto con una proprietà psicologica., esistenziale e letteraria assolutamente indimenticabile in La réclusion solitaire: «Coloro che non hanno altra ricchezza che la loro differenza etnica e culturale sono votati all'umiliazione e ad ogni forma di razzismo. Dànno anche fastidio. La loro presenza è di troppo. Il viaggio, per loro, non sarà mai di villeggiatura. Per loro il viaggio è la valigia legata con lo spago, pacchetti di roba da mangiare e un pugno di terra o di menta del paese, nel fazzoletto. Con la terra si cospargono il viso quando tutto va male e la nostalgia diventa il solo rifugio, l'unica consolazione. L'immigrato è un'aberrazione dei tempi moderni. E un errore della nostra epoca. Una sbavatura della storia» (p. VIII della prefazione all'edizione italiana, Torino, Einaudi 1990 de Le pareti della solitudine) ... come i personaggi «spostati» della modernità europea narrati da Kafka. Ricordate cosa dice l'ostessa all'Agrimensore K. ?: « Lei non è del castello, lei non è del paese, lei non è nulla. Eppure anche lei è qualcosa, sventuratamente, è un forestiero, uno che è sempre di troppo e sempre fra i piedi ... ». Qual è il percorso del nuovo pellegrino «di troppo», dell'emigrato «sempre fra i piedi»?
«Vedi dunque: adesso ti insegno l'itinerario di un emigrato: miseria locale passaporto corruzione umiliazione visita medica ufficio emigrazione viaggio lunga traversata alloggio di fortuna lavoro metropolitana il baule la masturbazione – il fulmine l'incidente ospedale o cimitero il mandato le vacanze le illusioni il ritorno la dogana l'ospedale la morte l'incidente la masturbazione la puttana lo scolo la metropolitana delle immagini delle immagini delle immagini ... Resta, naturalmente, un'altra soluzione: quella non la si scrive, non ci si sta a dissertare sopra, la si fa. » (T. B.J. p. 106). E questo è anche il viatico per S.M., da sud verso nord nel paese che è il sud del nord e che, con un'improvvisa illuminazione, il narratore vede ad un certo punto addirittura come il proprio Sud: « Alla fine, con lucidità, ho pensato che risalire l'Italia corrispondeva, nella mia personale geografia, a una discesa nel Sud di me stesso. » (S. M., p. 42). Da Mazara a Palermo, a Napoli, a Roma, a Firenze, a Padova, a Bologna e a Torino, a Milano, il ritorno a Kairouan, per una vacanza di lavoro, per raccontare tutto al padre (il testo, a questo punto, si rivela come «racconto filiale»), infine la residenza a Roma, con una attività dignitosa: scrivere.
«Per un momento, penso che tutti quelli che vengono dal Sud del mondo, rimangono, in un modo o nell'altro, dei clandestini». Anche i siciliani e i calabresi, come i ghanesi e i nigeriani, i tunisini e i pakistani e gli ebrei della diaspora millenaria. Chi risale il mondo da sud è comunque un immigrato, un pellegrino della miseria, che attraversa le terre della ricchezza dalla costa del dolore e della desolazione, della mafia e della disperazione: dalla parte del rovescio. E nel rovescio può rimanere arrestato per sempre, come un albero disseccato e strappato dalle radici, come un corpo pieno di cenere (le immagini sono di T. B. J.), come Joseph K, senza che si fosse nemmeno mosso da Praga. (Del resto, «C'è un piccolo passo dalla condizione di pellegrino a quella di accusato innocente» come dice Ripellino in Praga magica).
La sua domanda, di una disperazione esistenziale ed epistemica radicale, è: «Ma noi, ma io, cosa ci facciamo in questo posto ... ?» (T. B.J., p. 8). Uno che, anche se sta a Roma, è laureato e potrebbe visitare chiese, musei e monumenti, finisce «sempre, in un modo o nell'altro, per vagare fra Termini e le sue vicinanze» (S.M., p. 58). «Seguo la corrente degli immigrati, e finisco inevitabilemente alla stazione» (p. 30).
La stazione per l'immigrato è il luogo in cui si condensano il dolore e la nostalgia, il desiderio e la disperazione, l'impulso ad andare, a tornare, a muoversi, e la piovra scura della depressione, dell'immobilità blindata, della degradazione grigia, muta, circolare, coatta. La stazione è la crocifissione spaziale dell'assurdità dei viaggi e delle esistenze, il paradosso incancrenito dell'impotenza, il gigantesco grumo di vomito di tutte le solitudini metropolitane. Da luogo del transito, delle partenze e degli arrivi, delle novità e delle gioie, delle speranze e dei ritorni, delle vacanze e degli affari, vissuta dalla parte del rovescio, essa rappresenta l'ultimo girone infernale inchiodato nel fondo dell'orrore, nel cuore della tenebra: il luogo da cui non si può più partire ma in cui un giorno si arrivò. Lo squallido santuario dove si va a celebrare come in trance il rito luttuoso di quell'arrivo dal quale non è possibile derivare alcuna partenza, alcuna ripresa. La stazione è il punto. del mondo da cui gli altri partono e arrivano, mentre io sto, con un buco nell'addóme mi aggiro e mi chiedo: che ci faccio qui?
Ma questa non è forse la stessa domanda, anche se infinitamente diversa e degradata, del nomade?

Armando Unisci, Il rovescio del gioco, Crucci editore Roma 1992

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(ISSN 1824-6648)

Salah Methnani e Mario Fortunato: gli autori di Immigrato

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 3, Numero 14
December 2006

 

 

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