In Immigrato, di Methnani e Fortunato, è palese il forte intreccio che esiste fra
illegalità, criminalità e connivenza con le forze dell’ordine. Ma molto spesso
l’illegalità diventa un intreccio fra sfruttamento economico ed emarginazione.
In questo testo comunque i piani di interpretazione si muovono su almeno tre
livelli. I primi due con forte senso finalistico, il terzo con più caratteristiche
letterarie. Methnani conduce i tre piani parallelamente e in modo intrecciato.
Il primo è incentrato sul forte fascino che l’autore tunisino ha sempre sentito
per l’Italia. “Mio padre veniva a prenderci ogni sabato. Ci portava in città per
il fine settimana. Ricordo che aveva una Simca Ariane celeste e che in quell’anno,
per la prima volta, sentii parlare dell’Italia. A dir la verità, non sentii
parlare proprio dell’Italia: sentii l’italiano”.
Questo legame fra il paese dell’Italia, la lingua italiana e suo padre assume un
profondo significato. “Un giorno, su quella strada stretta e piena di buche, mio
padre mi insegnò a contare in italiano. Ripeteva: “Uno, due, tre, quattro, cinque...”.
Arrivava fino a dieci, si interrompeva un attimo e subito riprendeva.
In realtà, credo che non conoscesse altre parole italiane, se non, forse:
“Grazie” e: “Arrivederci”. Ma quel giorno continuava a dire: “Uno, due, tre,
quattro, cinque...”. Io ripetevo, e ogni volta, ricordo, inciampavo nel dieci.
Dicevo: “Diaci”. Proprio non ci riuscivo a pronunciare quella “e”. Non so se
davvero quel pomeriggio sia nata in me la voglia di conoscere l’Italia. Non so
se un episodio così minuto possa servire da spiegazione a scelte e azioni di
molti anni dopo. Certo è che da quel giorno, chissà perché, ho cominciato a
pensare all’Italia come a un Paese incantato, felice”.
E certamente l’italiano era strettamente legato al fascino per l’Italia.
“Un’estate, con il mio amico Faisal decidemmo di visitare Trapani.
Prendemmo il traghetto... Molti miei amici avevano già fatto quel viaggio:
venivano in Italia per acquistare jeans... Noi non comprammo niente.
Palermo, visitammo chiese e musei e, una sera, andammo al cinema, a vedere
C’era una volta l’America”... “Ricordava quell’altro viaggio. Ricordavo le
parole di Ketti e degli altri amici italiani: in Occidente, non c’era solo il lavoro,
ma anche la libertà. In Tunisia, ce n’era sempre di meno, negli ultimi anni
di Burghiba”.
L’Italia rappresenta il miraggio della libertà, il paese del consumo, ma anche
quello della cultura. La scappata in Italia, che per i suoi coetanei vuol dire
acquisto di mitica merce occidentale, per il protagonista invece è percorso culturale.
“Visitammo chiese e musei...”
I momenti di tristezza, di angoscia vengono affrontati ricorrendo al ricordo
della lingua, quasi come un talismano che abbia la capacità di allontanare le
tristezze. “Ma subito, alla bocca dello stomaco, si è formato un grumo di ansia
e, forse, di malinconia. Fra me e me, contavo: “Uno, due, tre, quattro, cinque...”.
67 Ma il contare fino a dieci serve al protagonista anche per nascondersi
le bassezze, le turpitudini che incontra. Il ricordo di quella lingua che ha
sentito da ragazzo, di quella numerazione è capace di contrapporsi vittoriosa
alla depravazione.
Il seguente passo è illuminante:
“Prima di farsi convincere a trasferirsi nella stanza da letto, a bruciapelo, chiede
centomila. Sandro è cotto abbastanza per mettersi a fare resistenza. Tira
fuori due pezzi da cinquanta, prende per mano Rached, e i due si chiudono in
camera. Io rimango come un cretino, seduto dov’ero. Sono nervoso. Mi alzo,
guardo i libri di Sandro, poi accendo il televisore. compare la faccia di un
signore grasso con i baffi che discute con altri in una specie di salottino; cambio
canale, spengo. Ogni tanto, sento gemiti, e poi Rached che mi parla in
arabo: “«Vedi un po’ se riesci a fregare qualcosa». Per non ascoltarlo riaccendo
la televisione. Volume alto. Non voglio sentire. Non voglio pensare. Conto
fino a dieci. Non sono qui”.
Nel momento in cui anche lui, il protagonista in qualche modo si arrende, o
cade nella trappola dell’abbrutimento, il contare non può essere evocato. Si
stabilisce quasi un parallelismo: il contare è avere dentro la lingua e quindi la
libertà e quindi l’umanità e quindi la moralità. Se queste cose vengono meno
diventa inutile, sarebbe quasi un tradimento, evocare la numerazione. “Si alla
fine mi chiede di sputargli in faccia. Non so perché lo faccio... Quando finiamo,
ci laviamo in silenzio. Per tutto il tempo, siamo rimasti vestiti. Il nostro
rapporto è stato solo di parole e di violenza. Emilio si comporta come se nulla
fosse. Vado via con la testa confusa. Non serve a niente, adesso, contare fino
a dieci”.
Anche i momenti di felicità sono segnati da questo ritornello della numera
zione. “Quando voglio farla sorridere, vado a colpo sicuro: imito le sue vocali.
Lei allora mi fa il verso, e conta fino a “diaci”, come quando ero bambino”. La numerazione, l’italiano è strettamente legata alla paternità, alla
legge, alla moralità. Lo si vede dalla frase che segue: “Una volta mi ha
domandato all’improvviso: “Ma, se non lo vedi da più di dieci anni, non ti
manca tuo padre?” Sarà stata la dolcezza del suo tono, o forse la brutale verità
delle parole, fatto è che ho sentito un nodo alla gola. Ho fatto fatica a dominare
l’emozione...”.
E così nel momento finale quando va via da suo padre “mentre l’autobus si
allontanava, pensai a un tratto che, in tutti quei giorni passati insieme, non
avevo mai parlato a mio padre dei nostri viaggi insieme, dal collegio di
Mateur a Tunisi. Avevo parlato di fame, di sonno, di solitudine, di razzismo e
di violenza, ma avevo dimenticato quel piccolo, insignificante particolare dei
numeri contati in italiano fino a dieci, e della forza che mi avevano comunicato
nei momenti più difficili. Ebbi voglia di scendere dall’autobus, di correre
indietro, di ripetere con lui: “Uno, due, tre, quattro, cinque...”. Gli avrei
dimostrato che ora, finalmente, potevo pronunciare con facilità e scioltezza il
numero dieci. Lui avrebbe sorriso, forse. Avrebbe detto: “Bene”.
Il secondo piano di lettura del testo di Methnani è dato dal percorso interiore
che l’esperienza di immigrazione produce e dalla dimensione prettamente letteraria
che tale percorso assume.
Si parte quasi dalla consapevolezza di far parte di un Sud del mondo che in
qualche modo segna il proprio destino, elimina ogni progettazione individuale,
costringendoti ad una precarietà sempre presente.
Nel testo si legge che il proprietario di un’imbarcazione di Mazara del Vallo,
rivela al protagonista che quando era stato a Roma, qualche mese addietro, si
era sentito davvero un emarginato “proprio come voi”.
L’autore precisa: “Penso che tutti quelli che vengono dal Sud del mondo
rimangono, in un modo o nell’altro, dei clandestini”. E poche pagine più
avanti: “No: di colpo, mi scopro a essere in tutto e per tutto un immigrato
nordafricano, senza lavoro, senza casa, clandestino”.
La clandestinità assume in Methnani un significato più ampio. Non è solo una
condizione giuridica, è una condizione di marginalità, di povertà, di sottosviluppo.
Questo fatto genera perfino senso di colpa, quasi che l’essere nordafricano,
del Sud del mondo, clandestino, in sé, sia addirittura qualcosa di male.
“Sento spesso parlare di mafia. Io non so che cosa sia, con precisione. Ho
capito che si tratta di qualcosa di orrendo e pericoloso. Così penso che anche
la mia vita deve essere diventata una sorta di mafia”.
L’omologia mafia-clandestinità è illuminante. La prima è una condizione del
delinquere che fa della segretezza, della omertà, la struttura base della propria
azione criminosa. Il clandestino sembra usare la non regolarità nelle stesse
forme. La grande differenza è che mentre il mafioso agisce contro la legge
perché è un immorale, il clandestino è contro la legge quando è così definito
dalla legge poiché lo diventa nel momento in cui la legge lo dichiara tale. La
clandestinità è un “crimine” contemplato dalla legge.
Uno dei passi chiave di interpretazione di tutto il testo è il seguente:
“Mi avverto come un oggetto delirante, qualcosa di remoto che, ai confini
della sua coscienza, è attraversato da visioni mostruose. Mi alzo a fatica. Ma
non sono proprio io a sollevarmi dal letto: è quel grumo di brividi e di stanchezza.
Arrivo in bagno, un passo dopo l’altro. Mi piego in due sulla tazza del
water: il buco dello scarico sembra a una distanza stellare, e io spesso sono
laggiù. Ho vomitato a lungo, con sollievo. Mi pareva di liberarmi di un’infinità
di cibo cattivo e di cattivi pensieri. Alla fine, con lucidità, ho pensato che
risalire l’Italia corrispondeva, nella mia personale geografia, a una discesa nel
Sud di me stesso”.
La sua personale geografia che vede il percorso geografico verso il Nord invece
che come liberazione, emancipazione, civiltà, valori ecc., una discesa nel
suo Sud. Il Sud non è solo un fatto fisico, le parti meno nobili dell’essere
uomo, ma rappresenta qualcosa di più simbolico: il Sud di sé stesso è la continua
rinuncia a mantenere una eticità, una possibilità di vita civile; il Sud di
se stessi è la perdita della propria identità.
Certamente l’esperienza non può rimanere una conquista fine a se stessa e
proprio per questo ad un certo punto si ha bisogno di scrivere, di raccogliere
le proprie idee.
Quando si incomincia a scrivere si entra nella dimensione letteraria. I pensieri,
le idee, le sofferenze, le gioie, le frustrazioni, le vittorie, gli amori, le delusioni
entrano nel campo della lingua trattata, entrano nel campo del fissaggio
sulla carta, entrano nel campo della manipolazione linguistica che le decanta
e le rende umane, universali e non più personali e individuali. Scrive l’autore:
“Negli ultimi giorni, ho cominciato a tenere una specie di diario in cui appunto
gli avvenimenti più banali, i particolari più insignificanti. È un’esperienza
nuova, per me. Mi dico che, almeno, in questo modo il tempo, le persone, i
gesti non passeranno del tutto inutilmente. Fra qualche mese, potrò aprire il
mio quaderno, e a una pagina potrò domandare: “Ti ricordi di quella volta
che...”. Oppure: “Come si chiamava quella ragazza di Mazara?”.
Il quaderno, in silenzio, risponderà; indicherà i nomi e i profili e infine i corpi.
La solitudine, così mi illudo, sarà qua e là attraversata da una presenza, da
un’ombra lontana. Per un attimo, io stesso sarò il mio compagno di viaggio”.
Ancora c’è il tema della letteratura come strumento di identità e di salvezza
personale. Il diario diverrà la compagnia perché senza di esso si è da soli e
“guai a chi è solo”.
L’ultimo tema che è drammaticamente presente in questo testo è quello relativo
alla emersione dal mondo dell’immigrazione. Immigrato, sotto questo
aspetto, presenta qualche elemento di equivocità. Non si riesce a comprendere
a fondo qual è il senso del messaggio che si vuole dare; qual è lo scopo del
testo. Sembrerebbe che si voglia dare una fotografia realistica della situazione
dell’immigrato.
Ma fra le decine di figure che si presentano ve ne sono ben poche, che pur
vivendo nella clandestinità mostrano di avere una dignità, una moralità, una
coerenza. Ad una lettura attenta la condizione di immigrato è quella della
degradazione umana e morale. Né, sembrerebbe, a priva vista, che l’abbrutimento
sia opera di una trasformazione, anzi determinati comportamenti sembrano
del tutto indipendenti dall’esser un immigrato perché il comportamento
che ci pare di scoprire in questi personaggi sarebbe tale e quale in ogni
luogo.
“Qualcuno era già partito e, si diceva, aveva naturalmente fatto fortuna. Molti
amici e conoscenti, tutti giovanissimi, consideravano le cose in modo assai
semplice. Si pensava che il lavoro ci fosse dappertutto, che le donne ci stavano
e che gli uomini erano tutti froci... Del resto a Tunisi, la possibilità di un guadagno
facile con gli omosessuali occidentali era già da un pezzo una realtà. In
tanti, verso sera, andavano al Café de Paris o al bar dell’Hotel Capitol. Li si
incontravano con i gay: un giretto insieme, e si intascavano dieci dinari”.
La prostituzione maschile era già un fatto esistente prima dell’immigrazione,
non era determinata da un percorso di necessità, ma da una vile voluttà di
soldi. Vi è cioè un rovesciamento della situazione. Non ci si degrada perché si
è costretti ad una condizione di vita impossibile, ma il degradamento interiore
porta alla esigenza della migrazione.
Si scopre attraverso il testo di Methnani, quasi l’esistenza di un peccato originale.
Sembrerebbe che lo stesso statuto di immigrato sia portatore di devianza,
di illegalità, di delinquenza.
Già prima di essere degli immigrati si pensava e si giudicava l’operato di altri
immigrati: “Quello era un dritto, mica uno scemo. Dopo aver spacciato, si era
messo con un prete che lo manteneva e che, negli ultimi tempi, gli aveva
anche comprato una pizzeria”.
Il protagonista del testo di Methnani, in ogni città in cui si reca, trova abiezione,
delinquenza, gestita dagli immigrati. Non c’è angolo d’Italia ove non
avvenga questo fenomeno.
Sono pochi gli immigrati incontrati dal protagonista che sanno guadagnarsi
onestamente la vita, che sanno mantenere dignità e moralità di vita, anzi se in
qualcuno sembra manifestarsi qualche elemento di dignità, la moralità sembra
del tutto assente.
Ad una lettura attenta il mondo dell’immigrazione è un mondo di depravazione.
Quanto emerge dal testo di Methnani è tutt’altro che un canto osannate
alla “verginità” dell’immigrato, alla onestà e bontà dello straniero. Esso
supera la realtà.