Continuo oggi, a distanza di tempo, cioè partendo da quel benedetto (o maledetto) giorno dell' 8 ottobre del 1987, che testi¬moniò il mio arrivo in Sicilia e quindi in Italia a domandarmi sul significato di diverse parole come emigrazione, esilio, fuga, xenofobia, intolleranza, immigrazione e via dicendo senza trovare risposte precise e convincenti. Come ho già detto e ripetuto in varie occasioni, sono partito da Tunisi cinque anni fa, con una laurea in tasca e una borsa piena di libri più che di vestiti, senza sapere però se quel giorno "stavo partendo come un emigran¬te nord africano o come un qualsiasi ragazzo che vuole conoscere il mondo ?". Ero affetto all'epoca come tanti altri giovani della mia età che erano musulmani di appartenenza e occidentali di pensiero, da una malattia chiamata "febbre dell'occidente". E per affrontare questo male ho deciso di andare alla sua fonte, con la speranza di poterlo estrapolare dal mio corpo e dalla mia anima. Passarono quindi 1825 giorni circa da allora, ed invece di trovare un rimedio a questo malanno, mi limitai a mutare l'appellativo del male che d'ora in poi non si chiamerà più "influenza occidentale", ma degrado psicologico dell'anima.
Detto questo farò ora una lieve digressione, evitando così di impantarmi in una descrizione dettagliata del percorso e della terapia delle mie cure, per tornare a parlare invece del soggetto (o l'oggetto) di questo incontro e quindi "raccontare l'immigrazione".
Per abbordare un tale argomento ho cercato prima di tutto di ridurre la mia ignoranza in questo vasto campo, un'ignoranza diffusa comunque non solo fra gli italiani ma soprattutto fra gli immigrati stessi che si sono stabiliti in questo paese. Ho provato quindi a fare di ciò che ha detto il linguista E. Benveniste che "E' necessario talvolta chiedere all'evidenza di giustificarsi", una regola. Sono dunque andato a vedere nei vari vocabolari il significato letterario della parola immigrare, e ho trovato la seguente definizione : "inserirsi più o meno stabilmente in una regione diversa da quella di origine o in un paese straniero, e specialmente alla ricerca di occupazione". E dopo averla letta e riletta mi sono reso conto che il contenuto era debole e superficiale e che ciò che stiamo vivendo oggi è una situazione completamente diversa. Ho optato quindi in un primo momento per la parola "esilio", che voleva dire più o meno quello che avvertivo io e tanti altri come me, e cioè l'isolamento e la lontananza da luoghi, persone, e attività che ci sono o ci erano cari. Ma sono arrivato alla fine a scartare anche questa definizione perché la parola esilio stessa potrebbe alludere ad una certa forzatura e non ad una libera scelta. Scoraggiato ma non affatto sconfitto da queste sbarre linguistiche, ho dovuto ricorrere in fin dei conti, all'uso di una parola araba anziché italiana per raccontare la "GHURBA", che una situazione di assenza e di separazione dalla terra di origine, come viene definita nel vocabolario di lingua araba Al-Mungid.
La partenza è quindi segnata in un primo luogo dall'assenza, dal non essere e dall'annullamento della propria persona; un annullamento che si ripercuote inevitabilmente più tardi nel paese ospitante. Dentro al cerchio, di cui faceva parte il protagonista, vengono a verificarsi una serie di avvenimenti, durante la sua assenza dinanzi ai quali gli viene tolta la facoltà di poter scegliere, di poter decidere, aiutare o piangere l'improvvisa scomparsa di un parente caro. Mentre lui non c'è i luoghi e le cose cambiano e le persone ai quali era legato se ne vanno senza nessun preavviso. Questa assenza degenera col passar del tempo, nella già fragile costruzione psicologica del protagonista un forte senso di sconfitta e di impotenza che si ripercuote poi sul suo modo di essere e di comportarsi dentro il nuovo cerchio "adottivo".
L'andar via comporta in un secondo luogo la separazione e quindi viene a mancare quel contatto fisico con le persone, i luoghi e le cose di tutti i giorni; un contatto che permetteva in precedenza di non sentirsi né un alieno né un alienato. Questa paura della separazione segnerà per sempre il corpo e la memoria di questo individuo che tenderà nel futuro ad evitare un qualsia¬si legame serio, soprattutto con le persone, del paese di arrivo, e da lì le incomprensioni, l'incomunicabilità e l'amarezza di una seconda sconfitta, questa volta molto determinante nel divenire del protagonista.
Questi travagli e sofferenze interiori che lo straniero riesce sempre a custodire gelosamente finiscono, in fin dei conti, per creare fantasmi marcianti e individui assenti e afflitti dal peso dell'amara separazione che li induce generalmente a rinchiu¬dersi dentro se stessi. Chi vive questa situazione di "GHURBA" finisce per ritrovarsi avvolto in un sudario di silenzio che lo costringe gradualmente a mutare e ad alterare le sue azioni, e spesso in una maniera negativa nei confronti della vita, basta pensare per esempio a quell'episodio di un anno e mezzo fa che ha visto un tunisino, stabilito in Italia con un regolare permesso di soggiorno e un contratto di lavoro, protagonista di un tentativo di dirottamento, con una bomba inesistente, di un aereo dell'Alitalia.
Questo silenzio che lo scrittore marocchino T.B.Jelloun definisce come "un sudario che seppellisce la gente viva", porta quindi alla rivolta, che si manifesta negli intellettuali che vivono la "GHURBA" con una denuncia vera e propria di queste insostenibili situazioni, di degrado fisico e psicologico. E da qui nasce questa voglia di chi è in possesso di uno strumento linguistico di raccontarsi e di cercare come dice Abdelkebir Khatibi di rispondere, attraverso la scrittura, alla violenza storica con un'altra violenza, e cioè con la violenza del verbo che deve essere un veicolo per poter alleggerire il peso di un'umiliazione che sembra essere destinata a perdurare perennemente.
Tanti scrittori maghrebini hanno dunque rivendicato la parola e si sono già espressi in merito alla questione, sono autori noti come D.Chraibi, M.Khaireddine, A.Khatibi, Serhane, T.B.Jelloun, Assia Djebbar, M.Choukri, R.Boujedra e altri ancora che hanno messo in causa, con le loro opere, le forme accademiche sia del mondo arabo che quelle importate da occidente. Hanno rovesciato l'ordine lineare degli avvenimenti con la violenza verbale e ci siamo ritrovati all'inizio degli anni ‘70 di fronte ad un flusso torrenziale di parole che ha cominciato a spogliare la realtà invece di riprodurla.
L'uso di un veicolo linguistico per fronteggiare ed arginare le difficoltà di una possibile convivenza (e dico bene convivenza e non integrazione) fra chi ospita e chi è ospite ha cominciato col passar del tempo, a diffondersi in diversi paesi europei come la Francia, l'Inghilterra, la Germania e l'Italia.
E' così che due anni fa il lettore italiano ha avuto modo di leggere dei giornali-diari come "Immigrato" scritto da me insieme a Mario Fortunato ; "Io venditore di elefanti" di Pap Khouma curato da Oreste Pivetta ; "Chiamatemi Ali" di Mohammed Bouchane, curato da De Girolamo e Miccione ; "La promessa di Hammadi" di Saidou Moussa Ba e Micheletti ; e infine "Pantanella. Canto lungo la strada" di Mohsen Melliti edito da Edizioni Lavoro. Libri, questi, che hanno cercato a loro volta di prendere la parola ma che rimangono, nello stato attuale delle cose, superati ed estranei ad un'aspirante futura letteratura d'esilio di lingua italiana di una certa qualità. Gli artefici di questi racconti hanno in effetti dato nascita, con l'aiuto logistico, di giornalisti, scrittori o studiosi di madre lingua, a diari di viaggio origina¬li e tipici, che però bisogna stare attenti a non confondere con quella che potrebbe essere nell'avvenire una "giovane letteratura prodotta da immigrati che vivono in Italia". Bisogna quindi distinguere fra la semplice redazione di appunti di viaggio e una vera e propria creazione artistica, quale la scrittura di un romanzo, che deve essere una storia finta scritta in prosa nella quale l'autore cerca di destare l'interesse del lettore raccontandogli le passioni, i riti e i tabù di un popolo oppure delle avventure singolari. La rivendicazione della parola non deve quindi limitarsi come abbiamo già accennato sopra, a riprodurre la realtà ma a spogliarla, per fare avanzare la storia, nonché evitare di cadere in un processo di banalizzazione o speculazione su un argomento così complesso come quello di raccontare il percorso dell'esilio, cosa che purtroppo si è verificata molto spesso in questi ultimi tempi, da parte di immigrati, politici, sindacalisti, ed intellettuali (o pseudo intellettuali) italiani.
Il dibattito sulla "GHURBA" a questo punto rimane aperto a chi vuole partecipare umilmente ed onestamente a farlo avanzare nella direzione giusta. Lo concludo qui comunque, in questa sede e in questa bella città, che non ho ancora visitato e che ha te¬stimoniato la morte del sommo poeta, rinviando chi potrebbe essere interessato a voler capire meglio questo tipo di discorso a riflettere su un brano del canto 17, verso 58 dell'opera Dantesca Il Paradiso, che descrive lo stato d'animo di chi si è già trovato precedentemente in una situazione più o meno analoga alla mia , e chi si è pronunciato dicendo : "Tu proverai si come sa di sale lo pane altrui e come è duro calle lo scendere e il salir per l'altrui scale"; ed augurandomi di poter assistere insieme a voi nel futuro prossimo, cioè fra una trentina di anni quando ci sarà una prima generazione di immigrati nati e cresciuti in Italia, ad una reale letteratura d'esilio d'espressione italiana.
Ravenna, 9/10/1992