El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

attesa

salah methnani

Al di là del vecchio portone di legno che separava Rachida dalla piazza principale del quartiere una folla indisciplinata e chiassosa scrutava in lontananza, con aria stanca , il polverone che il fiorino del Sig Bukhris aveva appena alzato alle sue spalle. Un sole tinto di rosso e agonizzante assisteva dall'alto, nel suo abituale splendore alla confusione che si era creata in questa parte della città. Il rumore che si sprigionava dalla massa aumentava man mano che l'automezzo avanzava. Alle orecchie di Rachida giungevano con chiarezza le voci dei vicini che si erano assembrati a quell'ora davanti a casa sua per rifornirsi, come al solito del latte fresco che il venditore ambulante trasportava nel suo furgoncino. Anche lei una volta faceva parte di quei clienti che non mancavano mai un appuntamento con il liquido bianco che il Sig Bukhris stesso spremeva dalle sue mucche. Sembrava fosse diventato un sostituto dell'acqua santa della mecca. Lo volevano tutti, grandi e piccini. Ma la buona qualità di un latte non era più sufficiente per far varcare a Rachida la soglia di casa e renderla partecipe delle diverse attività della vita. Per lei la vita non aveva più senso. La sua era arrivata ad una età abbastanza avanzata e quei pochi anni che le rimanevano erano diventati un miscuglio di speranza e di apprensione. Non temeva di certo la morte ma pregava perché la sua anima rimanesse in terra finché non riabbracciasse il suo caro e adorato figliolo. Era abituata a sentirlo al telefono almeno una volta la settimana , la sua voce la rendeva felice e l'aiutava a sopportare meglio la sua assenza. L’aveva supplicato, quel fatidico giorno, a non emigrare e a rimanere accanto a lei, ma non riuscì nel suo intento di dissuaderlo dal rinunciare al suo progetto. E poi col tempo si era asuefatta all'idea di questo esilio spontaneo e voluto da colui che aveva visto crescere davanti ai suoi occhi , e accettò suo malgrado che il destino la sconfiggesse e le portasse via, in altre terre, il suo prediletto. Sembrava che tutto fosse stato scritto nei libri celesti, prima ancora che lui nascesse e lei non insistette a lungo per fare cambiare il corso degli eventi. Visse per circa vent'anni appesa ad un filo in attesa di poter sentire la sua voce e far finta che non la stesse chiamando dall'altra sponda del Mediteranneo ma da una cabina vicina alla casa materna. Lo immaginava sempre con una sigaretta in mano, appoggiato sulla parete di vetro, stanco dopo una giornata di lavoro. Le bastavano quelle due parole che chiedevano della sua salute per sentirlo vicino a lei, non chiedeva più di tanto. Ma ora che quelle parole si erano dissolte nel nulla, in mezzo all'aria inquinata che regnava incontestata nel cielo di Roma, e non accarezzavano più il suo udito, la sua vita era diventata buia, simile ad una lunga notte invernale condannata a perdurare per l'eternità senza rivedere mai più la luce del giorno.
Rachida si sacrificò non poco per far crescere i tre figli che il marito le affidò prima di prendere congedo dalla vita. Dovette uscire di casa e andare a fare la serva nelle case degli altri. Era l'unico lavoro che i suoi genitori le insegnarono a fare bene, servire prima sotto l'ombrellone patriarcale per passare dopo sotto quello coniugale. Tutte le femmine che appartenevano al suo ceto sociale erano condannate alla stessa fine, erano i tempi della guerra di indipendenza e della donna chiusa a chiave dentro casa. Ma ora le cose erano cambiate e Rachida si era ritrovata sola senza nessun appoggio, con tre piccole bocche da sfamare. Decise quindi di lottare e di sottomettersi ad una dura prova per offrire ai suoi ragazzi una vita dignitosa. La preferenza di cui godeva il suo primogenito non mancò di destare la gelosia dei piccoli fratelli che combinavano di tutto per rendere la vita in casa più difficile di quanto lo fosse in realtà. Ma Rachida non ci poteva fare nulla. Salah rappresentava per lei la sua unica speranza di riscatto su una sorte crudele che l'aveva costretta all'umiliazione e alla schiavitù perenne. Fece di tutto per accudire il suo protetto e non fargli mancare niente. Passava notti intere a programmare per il suo futuro e a fantasticare su che lavoro avrebbe fatto da grande. Sognava di vederlo un giorno in camice bianco, girando per i corridoi di un grande ospedale, a prendersi cura dei suoi pazienti. Ma presto il suo sogno si frantumò in briciole e la povera donna non poté fare altro che rassegnarsi davanti alla decisione del consiglio di scuola che votò all'unanimità a favore dell'espulsione del suo prediletto. Lo accusarono di aver rubato una catenina d'oro che un suo compagno di classe aveva avuto come regalo per il suo ultimo compleanno. I tentativi di Rachida in seguito per iscrivere suo figlio in un'altra scuola furono vani. Nessun responsabile della pubblica istruzione era sufficientemente pazzo per prendere le sue difese e mettersi contro la risoluzione del ministro, padre del bambino, che lo aveva radiato da tutte le scuole del paese. Ebbe così inizio il lungo pellegrinaggio di Salah che si trasformò in una specie di cane randagio che si aggirava per le strade della città alla ricerca dell'oblio. Si dava da fare in continuazione e cercava di tenere la sua piccola mente occupata per non pensare all'ingiustizia di cui era stato oggetto. Lui quel furto non lo aveva mai commesso. Passò in seguito diversi anni della sua infanzia e gran parte della sua adolescenza a frequentare altri disgraziati del quartiere come lui che si erano visti le porte della fortuna chiudersi una appresso all'altra. Un intero esercito di disoccupati che lo stato aveva confinato in una zona remota della città dove i ricchi non osavano mettere i piedi per paura di inciampare nella merda dei suoi abitanti. Una città dentro la città, popolata da gente oppressa e rassegnata in attesa del buon messia che sarebbe dovuto scendere a momenti dal cielo per alleviare le loro sofferenze e far regnare quella ugualianza di cui sentivano parlare spesso alla radio e durante gli incontri dei politici. Ma quella chimera alla quale si aggrapparono in tanti non riuscì dopo un po' a sedurre il giovane Salah che cominciò ad avvertire il bisogno di piegare le tende e di partire per un lungo viaggio, lontano dall'inerzia che lo stava trascinando piano piano in una fossa senza fondo.

Dal primo giorno in cui Salah mise i piedi sul suolo italiano promise a se stesso di non dimenticare mai colei che lo aveva messo al mondo e che aveva patito a lungo per seguire i suoi passi. Le sue telefonate a Rachida furono sempre regolari, la chiamava ogni fine settimana per sapere sue notizie e aggiornarla sugli ultimi sviluppi della sua vita. Sembrava che ci fosse un tacito accordo perché i due continuassero a vivere separati ma nello stesso tempo informati con precisione su ogni cosa che pensava, sognava o faceva l'altro. Così passò il tempo senza che nessuno dei due si accorgesse di quanto fossero lunghi gli anni trascorsi l'uno distante dall'altra. A nessuno dei due pareva che pesasse molto la distanza. Fu l'ultima conversazione a spaventare Rachida e a fare risvegliare in lei la voglia di rivedere suo figlio dopo tanto tempo. La voce di Salah perveniva soffocata, quasi spenta. Una tosse convulsa tradiva un malessere di fondo di cui il figlio cercava di minimizzare le eventuali nefaste conseguenze. Per un anno intero non ricevette altre notizie. Rimase inchiodata vicino al telefono e non uscì più di casa. Aspettava che si schiarisse la voce del malato per sentire di nuovo la sua dolcezza. Si inginocchiava giorno e notte per pregare l'Onnipotente e chiedergli di proteggere quell'essere fragile che il freddo gelido dell'esilio aveva indebolito. Mandò parecchia gente a Roma alla sua ricerca che tornò con scarsi risultati. Salah era scomparso dalla circolazione da diversi mesi e nessuno poteva dire dove fosse andato. Sia il governo tunisino che quello italiano si interessarono al caso e aprirono un'inchiesta per decifrare il mistero della sua scomparsa. Furono controllati i registri degli ospedali, delle carceri, degli obitori invano, il nome di Salah Ben Romdhane non figurava da nessuna parte. Sembrava che Rachida fosse condannata a vivere nel dubbio senza sapere se suo figlio fosse vivo o morto. Usava alzare gli occhi tutti i giorni verso il cielo all'ora del tramonto e rimaneva lì a fissarlo finché non fosse svanito. Era il suo modo di attendere il ritorno di colui che senza nessun ovvio motivo aveva smesso di dare segno di vita.
Ma i pianti e le grida della povera donna non riuscirono a rompere il muro di silenzio che si era alzato fra lei e la voce del suo bambino. Il sole che sorgeva ogni mattina rifiutava di dare ascolto alle preghiere che lo invocavano per riportare un po' di calore nel cuore di una vecchia mamma in attesa. I suoi raggi rigeneratori snobbarono la pelle scura di quel malato che si era fatto ricoverare al policlinico un'ora dopo aver fatto la consueta telefonata per salutare la propria madre. La voce preoccupata di Rachida che giungeva dall'altra parte della cornetta lo spinse quel giorno a prendere la metropolitana e a recarsi al pronto soccorso per farsi curare quella tosse soffocante che era diventata una compagna inseparabile sia di giorno che durante la notte. Si presentò dal medico convinto che la sua tosse sarebbe sparita con qualche pasticca e un buono sciroppo. Cercò anche di filar via quando lo informarono che la sua malattia necessitiva un ricovero immediato al reparto delle malattie infettive. Pensava che ci fosse stato un errore e voleva rientrare a casa e riscaldare la minestra che aveva preparato la sera prima. Ma le sue contestazioni non servirono a nulla e si ritrovò quella notte a condivedere una grande stanza d'ospedale con altri pazienti. Il suo stato di salute degenerò in poche ore e Salah non riuscì più in seguito a dire una parola. I vari tentavi che fece la mattina successiva per alzarsi dal letto e raggiungere il telefono pubblico che aveva visto appeso su una parete del corridoio furono vani. Era diventato un corpo spoglio di qualsiasi forza umana con gli occhi spalancati che scrutavano il soffitto alla ricerca di una spiegazione per quello che gli stava succedendo. Era entrato in quel posto con i propri piedi pensando di riuscirne nello stesso modo, si sentiva tradito da quelle gambe che non ce la facevano più a reggere il peso del suo scheletrico corpo. I suoi occhi stanchi che rimasero accesi per l'intera giornata si spensero per sempre col calar del sole. Così se ne andò il figlio di una madre che pazientemente aveva accettato che un'altra terra lo seducesse. Se ne andò ignaro di essere stato vittima di una malattia incurabile che la scienza moderna non era in grado di sconfiggere. Una piaga di fine secolo composta di quattro banalissime lettere dell'alfabeto che fanno rabbrividire le labbra che le pronunciano. Gli anni che Salah aveva passato in questo paese lo conobbero come un uomo invisibile fra i vivi, e un cadavere anonimo fra i morti. La sua ecclissi passò inosservata e nessuno andò a reclamare la salma del defunto. Quel nome scritto in pennarello sulla croce di ferro che indicava la sua tomba e che gli addetti del comune ricopiarono dal certificato di decesso fu l'ultima ingiustizia che subì quel diseredato. Nessun'anagrafe al mondo poteva attestare che un certo Salah Romdhane fosse mai esistito.

Ottobre 1994

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Supplemento

(ISSN 1824-6648)

Salah Methnani e Mario Fortunato: gli autori di Immigrato

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 3, Numero 14
December 2006

 

 

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