El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Franca Sinopoli

Hajdari, pluripremiato in Italia a partire dal 1996, conserva, approfondendoli, nella recente raccolta Corpo presente (1999) i due temi fondamentali della sua poiesi in lingua italiana: l'esilio e l'assenza; o meglio, l'esilio come ricerca e attesa e l'assenza come eterna domanda che mina dall'interno e dissolve la tramatura faticosa della vicenda dell'esilio: "dove si nasconde ciò che non trovo?" (Hajdari, 1999, 13, v.14). Questa domanda ha come suo rovescio regressivo la messa in scena della possibilità (ricusata) del ritorno ad originem: "Avrebbe senso ritornare / nel tuo sangue?" (Hajdari, 1999, 15, vv.8-9). Ma un confronto tra le due versioni della poesia il cui primo verso (quasi immutato rispetto alla prima versione) recita "Sono campana di mare..." (Hajdari, 1997, 29 e 1999, 17), rivela l'abbandono e il taglio netto col passato, come risultati ultimi del frammentarsi della memoria messo in scena ripetutamente nei testi precedenti a questa raccolta del 1999. Esemplari in tal senso sono i versi compresi in Ombra di cane (1993): "Il mio corpo / nato in un paese povero / è un verso cieco / senza memoria" (Hajdari, 1995, 25), dove la povertà oggettiva della patria - dolorosa presenza del passato - già trapassa nel corpo/verso ciechi e poveri, poiché senza memoria, ma aperti al presente del poeta e dove è leggibile peraltro una poetica della povertà, da intendere come messa in scena di un soggetto che si costituisce in quanto "nullachiedente". Il passato era anche tangibile in "Mi sto consumando...", un testo del 1996, ripreso poi in Corpo presente, dove veniva evocato - seppure come evocazione di un lutto - a contrastare il fallimento della parola nella consumazione quotidiana e biografica del poeta: "Mi sto consumando a poco a poco / nell'umidità delle stanze sgombre / denunciando la mia voce / nascosta tra le pietre / per questo chiamo la mia Ombra / uccisa in un altro paese / dai sassi con i sassi" (Hajdari, 1999, 41). Dove l' "Ombra" non è l' "ombra di cane", espressione con la quale il poeta nomina la sua identità italiana, ma l' Ombra, con la maiuscola, che viene da un altro paese, la forma veritiera di identità, come appariva chiaramente in "... lasciatemi solo": "...lasciatemi solo / con la mia Ombra / (i morti non risorgono) / io vengo da un altro paese / e non chiedo nulla" (Hajdari, 1996, 29). Ora, questo passato sembra essere svanito tra la prima e la seconda versione di "Sono campana di mare..."*, dove se il passato e la migrazione da un altro paese non appaiono più quale tema legante il dettato poetico, quello che resta è l'accentuazione esasperata del corpo presente, nudo ed esposto al reiterarsi ossessivo e implacabile della condanna e della pena:

(Hajdari, 1997)

Sono una campana di mare
di silenzio e di voci
chiuso nel Tempo come un eremita
nessun Dio sente i miei suoni
di acqua e di fuoco
in Occidente
ogni primavera che passa
è una condanna che si rinnova
ed io
scavato dalla nostalgia
così trascorro le notti italiane
senza spiriti
e i meriggi senza falchi nei cieli
da anni in ansia e la paura di morire
ingannato dalle voci di altri mari
richiamo volti conosciuti che non tornano
non torneranno mai!)
sterili sono i miei sogni
nel buio della stanza sgombra
come i giorni clandestini
nascosti dietro i vecchi alberi.

(Hajdari, 1999)

Sono campana di mare
di silenzi e di voci
chiuso nel Tempo

e nessun Dio sente i suoni
di acqua e di fuoco
della mia carne
In Occidente
ogni primavera che passa
è ferita che si rinnova

Ed io
scavato da ombre e pietre
trascorro le notti italiane
nel gorgoglìo di sangue
Da anni in ansia e paura di morire

Ingannato dalle voci degli oracoli
richiamo volti conosciuti
che non tornano (e mai torneranno!)

Sterili sono i miei sogni
nel buio della stanza sgombra e

ogni giorno impazzisco un poco.

La raschiatura, riuscita, del passato su cui scrivere il presente è un'attività che non impegna certamente tutti i testi contenuti in Corpo presente, dove si possono trovare ancora tracce del passato, ma per lo più evocato, da cui l'io lirico si allontana sempre di più "come la primavera dalla mia carne" (Hajdari, 1999, 49, v.13). Prima o poi, con la giovinezza scomparirà dal corpo tutto il passato: "invano cerco qualcosa a cui legarmi / all'orizzonte non trovo / né segni di memoria né di polvere" (Hajdari, 1999, 49, vv.5-7).

Ma torniamo alle due versioni di "Come campana di mare..." e cerchiamo di cogliere attraverso le modalità dell'immaginario di Hajdari, che abbiamo circoscritto nei due temi dell'esilio e dell'assenza, gli elementi semantici, linguistici e stilistici specifici che fanno transitare il registro autobiografico del dolore e il tema del viaggio di migrazione in Occidente verso una modalità figurale del sentire e del conoscere che riguardano un campo d'esperienza ben più esteso di quello circostanziato della biografia del poeta immigrato.

Fra gli elementi semantici generalmente presenti nei testi di Hajdari compaiono, oltre quello che Marcello Carlino ha definito, nella sua prefazione a Corpo presente, il "nodo semantico composto dalla pietra e dall'ombra" (Hajdari, 1999, 8), i trinomi ombra-io-eremita, voce-afasia-suoni "di acqua e di fuoco", la doppia sterilità dei sogni (qui, in Italia) e dei giorni clandestini (lì, in Albania) e la catena semantico-analogica potenzialmente infinita del corpo-dimora sgombra-buco-tempio per nascondersi ed indiarsi-cella umida-odore del suolo-corpo spaventato di sangue e acqua-grido che si piega nel Nulla-ombra di cane-Ombra di morto-verso cieco senza memoria-campana di mare. Hajdari stesso in un testo del 1997 si chiedeva: "perché sempre più tenebrosi / i miei pensieri / in Occidente?" (Hajdari, 1997, 31). Il confronto tra le due versioni di "Come campana di mare..." - di cui la seconda (di 20 versi) si presenta in sezioni di quattro, tre, due e un verso, mentre la prima (21 versi) è un'unica sequenza - fa emergere innanzitutto quella cancellazione del passato, di cui abbiamo detto, almeno in due punti macroscopici della seconda versione. Il primo si trova all'altezza dei versi 12-13 dove "trascorro le notti italiane / nel gorgoglìo di sangue" va a sostituire "così trascorro le notti italiane / senza spiriti / e i meriggi senza falchi nei cieli" (versi 11-13). La condizione del notturno italiano senza spiriti e del meriggio senza la presenza dei falchi fa pensare ad un contraltare albanese, vivo nel ricordo del poeta, dove al posto delle due assenze denunciate ci sono delle "vere presenze": spiriti e falchi. Nella seconda versione invece, l'io trascorre le notti italiane "nel gorgoglìo del sangue", cioè concentrato su se stesso, o meglio, come corpo presente. In sintesi, all'assenza di spiriti e falchi del suo paese, presenti invece nella sua precedente vita, si sostituisce una nuova presenza, una presenza che più presente e concreta non può essere: la voce materica del corpo, qui ed ora. Il secondo segno della cancellazione del passato è più semplice, forse, in ogni caso più evidente: si trova a conclusione della poesia, ai versi 18-20: "Sterili sono i miei sogni / nel buio della stanza sgombra e / ogni giorno impazzisco un poco" sostituiscono la chiusa della versione precedente: "sterili sono i miei sogni / nel buio della stanza sgombra / come i giorni clandestini / nascosti dietro i vecchi alberi" (versi 17-21). La vecchia sterilità dei giorni clandestini che il poeta paragonava alla situazione ugualmente sterile del presente, cede il passo e il posto all'unica realtà, viceversa, prolifica che sembra caratterizzare il suo presente e il suo futuro, l'accrescimento giornaliero della profondità del dolore.

Ma la raschiatura del passato dalla pergamena del dettato poetico non equivale né tantomeno coincide con la sua definitiva cancellazione. Il passato, di cui fa parte lo stesso tema del viaggio migratorio, sembra essere diventato la trama al rovescio del presente, un filo rosso che ogni tanto riemerge, in altri testi che compongono Corpo presente, dalla complessa trama dei fili che costituiscono la nuova identità di poeta italiano. Nel migliore dei casi esso diventa una benedizione di ciò che si è incontrato durante il viaggio dell'esilio: "benedite i fiori calpestati, l'acqua dei pozzi / che avete bevuto / vi saranno protettori durante l'esilio / intrapreso" (Hajdari, 1999, 23, vv.12-16), mentre, nel peggiore dei casi, diventa un presagio carico di senso: "vedo all'orizzonte arido / aquile nere a due teste / che cercano di strappare / come un chicco di grano / la mia debole anima" (Hajdari, 1999, 33, vv.7-11).

Per quanto riguarda lo stile, cioè la forma data dall'autore ai contenuti del testo e alla sua materia espressiva, linguistica innanzitutto, il confronto tra due versioni dello stesso testo, anche se non può certamente ambire, nella sua limitatezza, a costruire uno specimen dell'intera cifra stilistica del poeta, contribuisce però ad individuare almeno qualcuna delle sue possibili invarianti. Soprattutto se le osserviamo dal punto di vista della loro messa in forma da una versione all' altra, del loro perfezionamento, del raggiungimento infine di una qualche loro stabilità.

Il passaggio dalla prima alla seconda versione di "Come campana di mare..." presenta un cambiamento importante dal punto di vista macroscopico dell'organizzazione del contenuto. Come si è già accennato, all'unica sequenza della versione del 1997 viene sostituita una articolazione di versi e di gruppi di versi scandita da sette pause. Questa ristrutturazione rende leggibile il significato globale che risulta dai diversi contenuti del testo, i quali nella prima versione si succedevano in modo troppo ravvicinato non facilitando il lavoro del lettore nella ricerca della sintesi finale. L'esilio come attesa e l'assenza, che qui viene connotata e precisata come "sterilità", sono l'inizio e la fine del discorso autobiografico del poeta, anche se l'assenza (di futuro) non può fare a meno di riportare il testo e la sua lettura dall' explicit all' incipit chiuso e perfettamente atemporale. Lo sviluppo spiraliforme dei contenuti del testo diventa leggibile se ne frazioniamo la lettura in quattro parti: la prima (vv.1-6) è l' incipit in cui riconverge l'intero testo e che incarna lo status dell'esiliato-in attesa, il corpo-campana di mare chiusa nel Tempo maggiore, un tempo non umano, inascoltata; la seconda parte (vv.7-14) descrive, se si può ancora dire così, il carattere della quotidianità dell'esiliato, cioè il suo tempo e luogo umani, trascorsi nella ripetizione infausta della condanna (la "ferita" della seconda versione) che accresce lo scavo interiore. La condanna è la nostalgia (le "ombre e pietre" della seconda versione), il cui effetto sono l'ansia e la paura di morire. La terza parte (vv.15-17) presenta l'unica forma ancora possibile con la quale poter esperire il proprio passato: l'evocazione inefficace, poiché ad essa corrisponde il disinganno di chi sente di aver inutilmente creduto al richiamo dell'Occidente (gli "oracoli", nella seconda versione, gli "altri mari" nella prima). L'ultima parte (vv.18-20), quella che dà forma al tema dell'assenza come unico futuro disponibile, ci riconduce attraverso il nodo semantico della povertà dei sogni (sterili) e della nudità della stanza-dimora-corpo presente all' incipit, il quale a questo punto si rivela essere la sublimazione poetica dell' explicit stesso: al fondo del testo la follia proliferante nel trascorrere del tempo storico, in cima al testo la sua contro-figura sublime chiusa nel Tempo maggiore. Quello che sembrerebbe il raggiungimento di una immobilità nel discorso metafisico è invece il frutto di una migrazione e di un procedere inappagati, unica testimonianza della progressiva "scomparsa dei poeti che legano / il cielo con la terra" (Hajdari, 1999, 71, vv.10-11). Coloro che si sono messi in viaggio "per cercare i segni confusi / e capire la maschera dei cieli / che ama gli abissi" (Hajdari, 1999, 13, vv. 8-10) e che invece si trovano a dover compiere l'ultimo gesto possibile per ritardare quella scomparsa: l'offerta esemplare dell'unica possibilità che resta da cogliere agli umani per sovvertire il mutismo della lingua e gli sguardi di vuoto e di freddo, la viandanza: "Procedo nel verde consumato / e non porto niente oltre il mio corpo. / Non lascerò niente!" (da "Canto il mio corpo presente", Hajdari, 1999, 13, vv.17-19). Dal punto di vista espressivo significativa è la limatura della terzina di versi d'apertura, dove scompaiono gli elementi figurali del discorso autobiografico (l'io che si paragona ad un eremita, la seppur minima determinazione concreta veicolata dall'articolo indeterminato per cui "Sono una campana di mare" diventa "Sono campana di mare") a favore di un distacco e di un estraneamento maggiori rispetto al proprio alter-ego lirico, il corpo presente, come si vede anche nella seconda terzina dove ai "miei suoni" subentrano i "suoni ... della mia carne". La concretizzazione di questa alterazione procede nel testo attraverso la ricerca di termini che fanno riferimento al dolore del corpo piuttosto che a quello dell'anima, per cui è il corpo presente che esibisce la "ferita che si rinnova" (v.9) e non più la "condanna che si rinnova", lo scavo prodotto da "ombre e pietre", al posto dell'incidenza della "nostalgia".

Alla viandanza è dedicato un trittico di poesie contenute in Corpo presente (Hajdari, 1999, 87, 89, 91), dall'accostamento delle quali emerge un passaggio in fieri e ulteriore rispetto alla dimora immobile offerta dal Tempo maggiore in "Sono campana di mare". Sembra di assistere, cioè, ad una volontà di impegnare l'alter-ego lirico distaccato, il corpo presente, in un ritorno alla temporalità umana. Ancora una volta, quindi, siamo di fronte ad un movimento spiraliforme, che se nel caso di "Sono campana di mare" riconduceva il quotidiano nell'eterno, qui sembra ricondurre l'eterno nell'umano attraverso la rottura del muro dell'esilio.

La lettura successiva di questi tre testi che abbiamo voluto legare tra loro attraverso l'immagine del "trittico", sottolineando la non casualità della loro sequenzialità all'interno del volume, ci sembra possa corroborare, concludendola, questa prima analisi della poesia di Hajdari:

I.

Sono la verità
di un viaggio e di una linea d'Ombra
custoditi sulla terra viva e chiusa
che vuole nasconderci qualcosa

vivo sospeso
senza appartenere a nessuna dimora
al bivio di un equilibrio

ho camminato con passo lento
fra i morti assetati
per raggiungere
l'alba dell'indomani
di incendi e tregue

infinito che mi ospiti
sono stanco del Tempo e del vuoto

cosa è il mio frammento
o il tuo frammento?

la mia angoscia diventa orizzontale
come la mia illusione
sottile diventa anche il muro
che mi difende e mi divide.

. / .

II.

Esilio che si rompe? Splendore
e paura nella rinascita dei fuochi
doppio sgomento di una vita sospesa

Dimmi se ci sono sentieri di luce
che ti conducono alla fiamma
li posso scoprire se si nascondono
nell'oblio

a me non resta che amare la notte nera
sempre fisso nello stesso punto vivente.

III.

Mi cercano nelle città marine
io parlo con i sogni divorati al tramonto
della bufera

mi aspettano in fila alla partenza
mi trovano ubriaco nelle piazze
in nome di Itaca

vogliono darmi per forza una patria
io penso all'alba
che mi porta all'indomani.

Franca Sinopoli in "Kuma 3, genn. 2002"

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(ISSN 1824-6648)

Gëzim Hajdari: Il poeta della migrazione

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 2, Numero 11
March 2006

 

 

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