L'amico poeta albanese Gézim Hajdari, in una breve visita a Termoli, il 4 giugno, mi ha fatto omaggio della sua ultima opera poetica, SPINE NERE, appena edita dalla Besa Editrice.
li compagno di scuola di Haidari, Josef Radi, in quarta di copertina scrive: "Spine nere è parte di due mondi della vita dell'autore: di un mondo in appartenenza latente in lui, ma in realtà, assolutamente vivo, e dall'altro, quello della quotidianità, di un non luogo, che narra di esilio e di sfida. Due mondi che diventano soggetto di una raccolta strappata alla profondità del suo io centrale. Appunto spine nere che trafiggono silenzi, vertigini, solitudini, ferite, lingue, diven¬tando la cifra di una nuova etica" L’autore, a sua volta, nel risvolto di copertina, introduce la silloge con questi versi. La collina di siliquastri tuonava all'orizzonte/prima della pioggia/i lampi le conchiglie l'argilla oscura attaccata ai piedi gonfi/si affacciavano nei tuoi sogni di notti stra¬niere/come riuscirai a svegliarti/senza il canto del gallo sui rami del gelso/la strada di campa¬gna piena di spine nere/busserà ogni sera alla porta della tua anima.
Gézim Hajdari è senza alcun dubbio un poeta straordinario, ricolmo di nostalgie e ricco di perturbamenti interiori che si tramutano sulla pagina in versi di genuina sostanza poetica e di effi¬caci risvolti psicologici. La sua voce d'esule in affannosa ricerca di una patria ideale, di un approdo che dia una motivazione definitiva al suo errare tra due sponde, ugualmente amate e ugualmente odiate.
La patria d'origine è ben lontana dal riconosce¬re il suo valore e i suoi meriti. La patria d'adozione gli consente di vivere la pienezza della sua solitudine, mentre una psicologa della Padania ritiene che Hajdari "ha bisogno di uno psichiatra
è un uomo pericoloso da tenere alla larga" Se la pericolosità di Hajdari risiede nella parola poetica, ben vengano i poeti che oppongono all'arroganza e all'ottusità dei potere, alle follie visionarie dei demagoghi vanagloriosi, la nudità dell'anima che si illumina dell'immensa ricchezza dei valori ideali dell'esistenza. Hajdari, per sopravvivere, si accontenta di un pasto al gior¬no, per non morire scrive "canti d'amore e di pena". E non sono certo l'amore e la pena a rendere l'uomo pericoloso, a meno che l'umanità non si sia talmente rincoglionita e pervertita da considerare. tali sentimenti nocivi per la definiti¬va affermazione delle tendenze prevaricatrici, pervertitrici e demolitrici dei sani valori che sono alla base di ogni consesso civile. Il poeta può vivere senza una patria, ma una nazione senza poeti è una nazione che genera esseri senza cuori e mostri senz'anima.
Il bello della vita non è viverla ma attraversarla (pag. 25). Una perla, questa, che ci ricorda da vicino quella di Seneca "Quomodo fabula, sic vita non quam diu quam bene acta sít (Come un'opera teatrale, così la vita: non importa la durata quanto sia ben diretta). Che significa l'attraversare la vita" se non affrontarla, accettar¬la nella buona come nell'avversa sorte, operare secondo ragionevolezza e giustizia, esprimere nei tempi e nei modi più opportuni il proprio potenziale creativo/costruttivo, incidere in modo indelebile le impronte della propria operosità? Solo così il poeta può aspirare di nascere all'im¬mortalità; e Hajdari non fa misteri circa questa sua leggittima aspirazione: 'Accarito a te s'in¬nalzerà la mia statua. Puskin / nel verde del Píncio // ti prometto che sarò un degno vícino".
In Spine nere (pag. 89) troviamo la biografia passata e futura dei poeta albanese, una sintesi dei suo percorso esistenziale in una forma poetica originale, dove il lirismo scorre dentro l'alveo di un canto che ora s'innalza ad epica ora si adagia sulle note dolenti di un epicèdìo. in una proiezione transpersonale, Hajdarí detta la sua favola.
C'era una volta un ragazzo magro d'animo fragile/con gli occhi castani e sguardo penetrante come un corvo nero ... /quando vide i primi raggi del sole pallido/T suo nome vivrà in etemo dis¬sero i laghi e le nebbie cieche...'/luí veniva dall'Est, paese del sole nascente/ tra riti e falchi trascorreva la sua infanzia ... /Passarono anni ed egli crebbe col latte di rondine ... /Sul fango e la polvere camminava la sua gente umile...
Una notte, il ragazzo, disceso dalla collina fino al fiume, incontrò '/le belle spose danzatrici», la profanazione dei rito attirò su di sé l'ira e le maledizioni degli spiriti fluviani: 'Iche il tuo séri7e ¬non possa crescere sullà terralsaraí maledetto ín etemolmorirai in esilio solo e di crepacuo¬re ... /divoreranno impietosamente la tua debole carne/pietre ed aquile nere a due teste...'7Da quella notte, fonda/gli spiriti abbandonarono le. valfi/le donne misero la sciarpa nera in testa/una nenia sgomenta si udì per il paese.
Il ragazzo,. un giorno. abbandonò la sua terra dove "siccità e spine crescevano nei campi seminatí”, "attraversò il mare/avvolto da canti marini e nebbie cieche" e approdò in Occidente, dove. iniziò la sua vita di esiliato. Vita amara ed umiliante, riscattata di continuo dalla sua fede nella. poesia, dalla tenace volontà di vincere tutte le sfide dei tempo 'per diventare definitivamente/Celebre/un mito".
L’Occidente, per bocca dei suoi uomini che contano, è stata e continua ad essere generosa di promesse, ma piuttosto fiacca nel mantenerle. Nel tempo, la precarietà della vita di Hajdari non muta di molto: qualche lavoro occasionale, studi, viaggi, interviste, pubblicazioni di libri, conferenze, interventi in simposi internazionali, che, se da una parte accrescono la sua fama, dall'altra non gli danno, però, la tranquillità e la sicurezza economica di cui ha bisogno per sen¬tirsi realizzato almeno in parte. In patria, la sua 'Vecchiarella", mamma Nurie, trepida e si dispe¬ra per lui; incombe su di lei il presentimento che il suo Gèzim venga travolto da un fatale destino, da quando si è resa conto che l'Occidente non ha mantenuto le sue promesse, non ha saputo garantire a Gézim un tenore di vita degno dei suo rango di "poeta senza confini" Nell'ultima parte dei libro (Occidente, dov'è la tua besa9), in un giorno di festa in Darsìa, mamma Nurie, che vive nell'angoscia di non rivedere più vivo suo figlio, intreccia un dialogo serrato e commovente con il "corpo" di Gézim, presente nella sua
tormentata immaginazione. Un'atmosfera da tragedia greca pervade l'intero carme, diviso in quattro brevi canti, per un totale di 88 versi. Si apre con la visione, da parte della madre dei poeta, di "uomini neri” che bussava alla sua "vecchia porta" Vengono per recare una gioia o per portáre la notizia funesta di un lutto? "Ditemi, al mio Gézim cosa è accaduto?/ .. è spi
rato per strada/o nella sua stanza sgombra?" Ma Gézim è dietro la porta, a invocare la madre di aprire;. essa, però, non riconosce più la sua voce e lo manda via: "Vattene, strega morta!" Il silenzio. della montagna, dell'uscio, della peli¬gorga, e degli amici che sono in casa Hajdari "non è un buon segno" per la vecchia madre che ha smarrito per sempre la gioia e vive in uno stato di continuo dolore e di angosciosa aspettazione.
Nel secondo canto,la, madre. del poeta, total¬mente immersa nella tragica visione della morte dei figlio, ne accoglie le spoglie con le stimmate che, perdono ancora sangue e si chiede la ragio¬ne di quelle' "ferite di pietra nel corpo" e delle "spine nere" infisse nella pelle.. "Come ti ha mas¬sacrato l'esilio, Gézim”' In questo verso c'è tutto lo strazio di una madre che si vede restituire il figlio " immoto nel gelo della morte", sfigurato dai patimenti e dalle sofferenze: "Ti seppellirò sulla collina brulla/All'alba con la luna píena/Sulla tomba farà da custode tua madre/Che seppellirà con te. anche il suo cuore". Come un fiume che ha rotto gli argini, l'accesa e dolorante fantasia della madre si abbandona a visioni e ricordi, a sogni e speran¬ze: "Ora abbiamo la nostra terra". "Coltiveremo grano e girasoli/Costruiremo una nuova casa assolata/Avremo la nostra casa e i galli"...Il Duro l'esilio/Crudele l'Occidente/Bussa la primavera alla finestra: sei tu/ E’ uscita la luna piena: è il tuo volto... (canto 111).
Nel quarto ed ultimo canto (il più breve); il poeta si manifesta alla madre incredula e la riporta nel mondo della realtà: “Calmati
mia vecchierella/Sono vivo e accanto a te/ E’ stato solo un brutto sogno/Se così breve sarà il mio destino/ non me ne andrò da questo mondo/Senza la tua benedizione”.
Davvero una grandiosa e commovente rappresentazione di una visione degna di una madre che si strugge di continuo per la sorte di un grande figliuo condannato ad un esilio senza fine. Solo un poeta provato fin dentro le radici dei sangue a causa della sua condizione di cittadino senza patria e senza futuro, poteva esprime¬re, con così alta commozione, la solenne e tragica grandezza di un dolore materno, che evoca, nell’immaginario collettivo, quello altrettanto sconfinato e maestoso di quell'altra Madre, prostrata dinanzi al corpo senza vita dei Figlio appena deposto dalla croce.
Antonio Crecchia in "Sentierí Molisani . 2 maggio agosto 2004"