Ricordi d’Albania
Qualche volta i poeti migrano a Frosinone, in due stanze nude, dentro una palazzina popolare, l’orizzonte verde e grigio, spezzato dagli ulivi e dal cemento. Alle spalle c’è un’altra terra. C’è il giallo delle ginestre e il rosa, a grappoli, dell’Albero di Giuda, i cespugli selvatici dei siliquastri. C’è Lushnje, sessanta chilometri da Durazzo, una strada che piega verso l’interno, al cuore dell’Albania. Gëzim Hajdari viene da lì. Ha 46 anni, lo sguardo ramingo. Ti porta una tazza di tè con la malagrazia dei poeti. Dice che ha ricevuto, qui in Italia, il premio Montale. Dice che non ama la parola straniero: distante, cruda, fredda, ostile. “Come poeta – sostiene – mi creo ogni giorno una nuova patria. Scavo nelle lingue. Non cerco l’integrazione, ma il dialogo. E scrivo, qualche volta in albanese, altre e sempre più spesso in italiano”. Hajdari parla e racconta. Sul pavimento ci sono frammenti di giornali, sui muri cimeli dell’Albania, ricordi dei viaggi in Africa e in Oriente, una sua fotografia. Si definisce un viandante della letteratura. “Mio padre veniva dall’Asia. In Albania, prima del regime di Hoxha, possedevamo delle terre. Ho conosciuto così tutto il dramma del mio paese. Povero, fuori dal mondo, cercando un respiro nei miei libri, sottomesso”.
Si laurea in lettere. Sogna la poesia. Ma scrivere in Albania non è facile. Riesce a pubblicare qualcosa solo nascondendosi, usa un linguaggio metaforico, oscuro. E nel 1985 viene inserito nelle antologie dei migliori poeti albanesi. “Ho ereditato da mio padre il senso del mistero, l’influsso delle filosofie alchemiche ed esoteriche orientali. Da mia madre, albanese, il senso del tragico, l’incompiuta irrequietezza dei Balcani”. Presto, però, le cose cominciano ad andare male. Dopo cinque anni di censura, nel ’90 riesce a pubblicare la raccolta “Antologia della pioggia”. Ma a Tirana ormai arrivano notizie di disordini. Lo spirito del ’89 si fa sentire anche lì dove per anni aveva regnato il silenzio assoluto. Il regime si sfalda ed è l’ora delle illusioni. C’è chi, come Hajdari, crede nella riscossa degli albanesi di buona volontà e chi insegue l’Eldorado al di là dell’Adriatico. In mezzo c’è una folla di disperati.
Hajdari fonda con altri intellettuali la rivista “Il momento della parola” e cerca una risposta nella politica, con il partito repubblicano albanese. Comincia l’opposizione ai nuovi signori di Tirana. E’ l’ora degli sciacalli. Il passato era il comunismo di Oxha, il presente è l’anarchia di Berisha e la guerra tra clan mafiosi. E’ il 1992 e per Hajdari non cambia molto. E’ tempo di migrare. Scriverà poi in “Corpo presente” (Botimet Dritëro editore): “Il mio tormentò iniziò quando/ mi trovai solo/ di fronte ai sassi./ Il giorno in cui conobbi la loro/ materia/ dissi alla Parola:/ tu e i sassi mi distruggerete/ Padre/ salvami dal mio impietoso destino./ Non vedo che volti/ uguali ai sassi/ e sassi uguali ai volti”. E in “Stigmate” (Besa editrice) dirà: “Appartengo ad un popolo accecato sette volte dalle pietre”.
Hajdari va alla ricerca degli elementi primordiali, in una metafisica del cosmo, dove ritornano pietra, acqua, fuoco, sabbia. Ma nello stesso tempo c’è l’uomo che non trova terra. Il viaggiatore spaesato che cerca, dopo aver superato l’Adriatico, una rotta di viaggio. L’unico approdo possibile, per lui, è l’Italia. La terra in cui non sentirsi ospite, l’ormeggio da cui ripartire (per i suoi viaggi in Africa e nell’oriente più lontano). Ma come tanti suoi connazionali resterà deluso. Lo aspetta la vita del clandestino e dell’esule. Alcuni amici lo portano a Frosinone. E qui il poeta si arrangia a pulire gli ovili e le stalle. Guadagna, in nero, 50mila lire al giorno. Finisce poi a lavorare nei campi, manovale, aiuto tipografo. “Quanto siamo poveri/ io in Italia vivo alla giornata/ tu in patria non riesci a bere un caffè nero”. Quando può va a Roma, dove si è iscritto a Lettere. Si laurea e intanto continua a scrivere e a pubblicare: “Erba amara”, “Ombra di cane”, “Sassi controvento”. Incontra Armando Gnisci, professore di letteratura comparata alla Sapienza, che lo inserisce nel gruppo della “letteratura migrante”, poeti e narratori che scrivono nella lingua che li ospita. E’ un’antica tradizione: da Seneca fino a Keats, Nabokov, Yeats, Celan, Kundera, Walcott. Hajdari sorride e mostra un po’ di nostalgia per l’era dei mecenati. “E’ una vita - dice - che mi sento un poeta in esilio.
Vittorio Macioce (EMPORION 24 settembre2003) [Mensile dell’ENEL]