El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Silvia Vajna de Pava

Nota: il presente lavoro è stato oggetto di relazione al convegno internazionale “L'italiano, lingua di migrazione: verso l'affermazione di una cultura transnazionale all'inizio del XXI secolo”, organizzato da CIL (Centre International des Langues) e CRINI (Centre de Recherche sur les Identités Nationales et l'Interculturalité) Departement d'italien dell’Université de Nantes in collaborazione con l'Universite de Montreal (Quebec) e tenutosi nei giorni 8, 9 e 10 dicembre 2005, al Centre International des Langues dell’Université de Nantes.
L’intervento stesso verrà pubblicato in versione cartacea negli atti del convegno che usciranno a fine 2006 presso le edizioni CRINI dell'università di Nantes a cura di Walter Zidaric.



La peligorga canta in italiano:
la poesia di Gëzim Hajdari e i suoi apporti interculturali

1. L’emergere del sostrato culturale albanese nella poesia dell’esilio di Hajdari

Gëzim Hajdari è un poeta di origine albanese che dal 1992 vive in esilio in Italia e di questo paese ha adottato la lingua, entrando così a far parte del sistema letterario italiano e in modo particolare di quell’ambito particolare che Carmine Chiellino definisce “poesia interculturale in lingua italiana”. È proprio degli apporti interculturali della poesia dell’esilio di Hajdari che ci occuperemo in questa sede; si mostrerà cioè come la poesia di un autore che migra tra le lingue possa arricchire direttamente (senza la mediazione del traduttore) la cultura in cui egli decide di inserirsi adottandone la lingua.
La poesia di Hajdari arricchisce la letteratura italiana di elementi propri della cultura albanese attraverso il progressivo recupero ed inserimento nei testi in lingua italiana di tratti linguistici, simbolici, mitologici e folclorici propri della sua cultura di origine. Questo “recupero” avviene in modo graduale all’interno del percorso poetico hajdariano, nel quale si può infatti distinguere una prima fase in cui non vi è alcun riferimento esplicito alla cultura albanese, ed un passaggio ad una seconda fase, tuttora in atto, nella quale il poeta usa la lingua italiana come strumento per formare una cultura transnazionale, come un ponte capace di mettere in relazione due terre e due culture divise da un braccio di mare.
Se infatti le prime tre raccolte in italiano Ombra di cane (1993), Sassi contro vento (1995) e Corpo presente (1999)) sono intrise di quel senso del tragico e del destino che Hajdari stesso designa come propri della letteratura balcanica, è in Stigmate (2002), in Maldiluna (2005) e ancor più in Spine nere (2004) che compaiono espliciti riferimenti alla tradizione mitologica e folclorica albanese. Pare che questa tradizione, a livello soprattutto tematico (quindi più esplicito), ma anche in parte formale, venga in un primo momento accantonata dal nostro poeta, quasi per un tentativo di adeguarsi o lasciarsi assimilare dalla cultura in cui egli cerca di inserirsi (per un desiderio dunque di accettazione), per tornare ad affiorare solo ad avvenuta maturazione del linguaggio poetico ed in seguito ad una serie di riconoscimenti di merito (1). Come se, superato lo sforzo iniziale di farsi accettare come “italiana”, questa poesia potesse finalmente tornare ad esibire la propria origine. Dal punto di vista metrico e linguistico si può innanzitutto notare un percorso di maturazione espressiva, che, dalle prime prove linguisticamente scarne, porta a formulazioni man mano più complesse e articolate; le prime prove in lingua italiana sono infatti caratterizzate da componimenti estremamente ridotti d’estensione, formati in genere da pochi versi di misura breve o brevissima. È sembrato di poter rilevare a proposito un influsso derivato ad Hajdari proprio da un importante poeta della tradizione italiana: nell’introduzione a Corpo presente Marcello Carlino parla di Ungaretti come del “poeta della tradizione occidentale forse più caro ad Hajdari” [Carlino, in: Hajdari, 1999: 8] (si pensi in particolare all’Ungaretti de L’allegria).
La forza dell’esempio ungarettiano sta, per lo scrittore che si cimenta nella scrittura in una lingua non materna, nella possibilità che esso offre di racchiudere l’espressione di un sentimento in poche parole, in versi brevi in cui è esaltato il singolo vocabolo come “veicolo di verità”. Con ciò non si vuole tanto alludere ad una “facilità” di questo modello, quanto alla possibilità che esso offre di dare compiuta espressione al proprio sentire poetico in una lingua che non è ancora pienamente posseduta, attraverso la forza allusiva delle singole parole, che, isolate, assumono rilievo nella loro nudità. La costruzione del verso basata su elementi fondamentali della lingua, sul rilievo dato alle parole accostate in maniera inattesa, è alla base della maggior parte delle poesie composte da Hajdari nei primi anni dell’esilio; in esse non è tanto il ritmo a dettare la versificazione, quanto il porsi dei singoli versi come frammenti di un discorso, staccati e sottolineati perché assumano rilievo. È l’accostamento inatteso che crea il gioco poetico, un gioco in cui le parole prendono forma nella fantasia del lettore con il loro passaggio attraverso l’analogia che le rimodella. È proprio questa metrica franta e allusiva che ha fatto pensare ad un legame con la poesia di Ungaretti.
Non bisogna però dimenticare che esempi affini Hajdari poteva trovare anche nella recente tradizione albanese. Proprio a partire dall’esperienza italiana e francese di decadentismo, simbolismo ed ermetismo, i poeti albanesi Mjeda e poi Koliqi avevano sperimentato, prima della metà del secolo XX, delle tecniche espressive nuove rispetto alla tradizione, poi riprese e sviluppate dal Poradeci e dall’Arapi.
Quando Hajdari inizia a muoversi in quel suo equilibrismo tra lingue e tradizioni poetiche, ha dunque un duplice appoggio: da un lato la poesia di alcuni poeti albanesi della prima metà del Novecento, un esempio rassicurante nella lingua materna; dall’altro la poesia di Ungaretti, nella lingua adottiva, che può fornire un supporto non solo formale ma anche forse lessicale. Non sembra del tutto inammissibile infatti un accostamento tra alcuni versi di Ungaretti e di Hajdari anche dal punto di vista del linguaggio. Scrive il poeta italiano nella poesia che chiude Il porto sepolto:

Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso(2) ,

sottolineando la centralità della poesia nella propria vita, il ruolo fondamentale della parola, che assume rilievo e profondità insieme quando è circondata dal silenzio, da quello spazio bianco in cui risuona.
Anche Hajdari mette al centro della propria esperienza la parola, una parola che si è fatta sasso per scavare abissi nella vita del poeta:

i sassi che ho gettato controvento
hanno aperto su di me enormi abissi
[Hajdari, 2002a: 25, vv. 6, 7].

Il tema della poesia che vive al fondo dell’anima del poeta è affrontato con uno sguardo diverso, ma il lessico usato, con l’opportuna sostituzione di parola con sassi, è affine.
Dal punto di vista della metrica si può dunque supporre che il poeta, nel comporre i suoi primi versi nella lingua dell’esilio, abbia cercato un sicuro appoggio all’interno della tradizione letteraria in questa lingua, per poi recuperare una versificazione differente, e talora ammiccante a modelli della tradizione albanese, ad avvenuta maturazione del proprio linguaggio poetico italiano.
Da un punto di vista tematico e dei contenuti, all’interno del percorso di recupero delle proprie origini culturali, la raccolta Corpo presente si pone come punto di passaggio tra una fase e l’altra. Se infatti le poesie ivi raccolte non contengono rimandi diretti alla tradizione albanese, la patina allogena non si limita qui alle risonanze tragiche di cui si parlava a proposito delle prime composizioni in italiano, ma trova talvolta espressione più concreta. Si può innanzitutto rilevare in vari passi hajdariani un’affinità con certe espressioni contenute nei cicli epici albanesi sulle gesta di Skanderbeg: il tema dell’esilio, unito al canto della patria lontana, così ricorrente nella poesia di Hajdari, ha una tradizione importante nella letteratura degli albanesi d’Italia, nei canti trascritti dalle comunità arbëreshë alla fine dell’Ottocento, che narrano le imprese di Skanderbeg e l’abbandono della terra albanese da parte dei figli dell’aquila ("gli shkipetari"). Ed è in Corpo presente che, rievocando il proprio percorso di esule, Hajdari usa un’espressione che rimanda direttamente al titolo di un importante poema di Giuseppe Schirò, Nella terra straniera (3):

fuggo senza sosta
nelle terre straniere, nei templi
e non trovo a chi consegnare il mio
segreto d’uomo.
[Hajdari, 1999: 33, vv. 12-16].

Nonostante Hajdari persegua dichiaratamente lo sforzo di rinnegare ogni patria che non sia il proprio corpo o la poesia, e di riconoscersi solo nel proprio nome(4) , superare completamente il concetto di appartenenza è impossibile, e il pensiero della patria non cessa di tormentare il poeta che attinge al formulario di motivi della poesia dell’esilio, veri e propri tòpoi ripresi dalla tradizione arbëreshë.
Ci sono però nell’opera di Hajdari riferimenti più precisi alla tradizione albanese, sia a livello di “latenze linguistiche” (5) che di rimandi testuali.
Se escludiamo il termine "peligòrga" che è una trasposizione in italiano dell’albanese "peligorgë" e che compare in varie raccolte, altri termini inseriti nel testo italiano direttamente in lingua madre compaiono solo nella raccolta Spine Nere e in particolare nel poemetto che porta il titolo: “Occidente, dov’è la tua besa?”.
Questo componimento dunque si presenta al lettore fin dall’intestazione come rivestito di quell’aspetto straniante rispetto alla poesia italiana che lo caratterizza nella sua completezza. Il componimento è strutturato come un lungo monologo recitato dalla madre del poeta: egli, cedendole la parola, crea per lei un linguaggio che comprende termini della sua madrelingua, riferimenti al paesaggio e alle tradizioni albanesi, tratti dell’andamento ritmico proprio dei canti popolari albanesi.
Si tratta infatti di un poemetto di metro libero, i cui versi oscillano per lo più tra il settenario e il dodecasillabo, con alcuni versi doppi o molto lunghi (fino a sedici sillabe) e qualche raro quinario, senza rima. Prevalgono ottonari, novenari e decasillabi. La struttura metrica è dunque così varia da non consentire una classificazione precisa, ma vi si può leggere come un ammiccare alla tradizione popolare albanese il cui metro va dall’ottonario al decasillabo e viene “livellato” dal cantore attraverso ripieghi melodici e con l’opportuna declamazione. Il genere del componimento è di difficile determinazione, a cavallo tra il monologo, il dialogo teatrale e il compianto funebre. È l’autore stesso a ribadire il riferimento a quest’ultimo genere (molto diffuso nell’ambito della poesia popolare albanese, e tradizionalmente inserito tra i canti eroici), suggerendolo esplicitamente dall’interno del componimento, attraverso il ricorso al termine albanese "gjam"(6) [Hajdari, 2004: 99, v. 11].
A partire dal titolo del poemetto, “Occidente dov’è la tua besa?”, il poeta rimanda ad una delle norme del Kanun, il “Codice della montagna” che per secoli ha regolato la vita sociale del popolo albanese, secondo il quale la besa, la parola data, è sacra ed ha maggior valore di qualsiasi documento scritto e firmato. Dunque i versi che aprono la II sezione del componimento:

Occidente, dov’è la tua besa
Che mi avrebbe restituito Gëzim salvo?
[Hajdari, 2004: 101, vv. 27, 28]

farebbero riferimento ad una promessa ottenuta dalla madre del poeta alla partenza di questi per l’esilio. Quella di non aver mantenuto la parola data è accusa gravissima, qui rivolta ad un mondo, quello occidentale, che non conosce le norme del vivere sociale albanese e risulta quindi incomprensibile nel suo comportamento agli occhi di questa donna.
Ma il riferimento non si limita al particolare della parola besa: in questi versi è contenuto un preciso rimando testuale ad uno dei più caratteristici canti tradizionali albanesi: quello di “Garentina” .(7)
Quando Hajdari scrive “Occidente, dov’è la tua besa?”, ricalca i versi in cui la madre della leggenda chiede a Costantino di tener fede alla sua promessa: “Costantino, o figlio mio, / dove è la fede che mi hai data?” [Schirò, 1923: 47], laddove col termine fede si traduce appunto la parola besa.
Dunque la protagonista del poemetto, la madre del poeta, parla ricalcando modalità proprie della letteratura popolare albanese. In lei rivivono personaggi di altre storie; Hajdari, scrivendo il proprio compianto funebre, abilmente mescola il proprio mito a quello della tradizione del suo paese. I rimandi infatti non terminano qui.
Nella prima sezione del poemetto Gëzim, o la sua ombra, o il suo fantasma, bussa alla porta della madre e ha un breve scambio di battute con lei: il figlio, restituito alla madre dal paese lontano, quel non meglio precisato Occidente, parla con lei, da dietro la porta, con le stesse parole che Garentina, anch’ella riportata a casa dopo lunghi anni trascorsi in un paese lontano, rivolge alla propria madre da dietro la porta.

Apri la porta o madre mia. 
      Tienti lunge crudele (odiosa) morte,
         […] –
  Apri signora madre mia,
        Io stessa sono Garentina.
    [Camarda, 1866: 101]
- Vattene, non mi offuscare la casetta!
- Apri la porta madre mia
- Chi sei tu dietro la porta?
- Signora madre, sono Gëzim
- Vattene strega morte!
[Hajdari, 2004: 99, vv. 12-19]
 

Come richiesto dal poeta, la madre promette di seppellirlo sulla collina brulla, dove resterà a vegliarlo, e seppellirà con lui il proprio cuore:

Ti seppellirò sulla collina brulla
All’alba con la luna piena
Sulla tomba farà da custode tua madre
Che seppellirà con te anche il suo cuore
[ibid., vv. 38-41]

Con quest’ultimo elemento Hajdari ricalca certi passi della poesia albanese in cui due persone che si amano vengono trascinate insieme nella morte. Ma questa bella morte non è concessa al poeta e alla madre, che in ciò sono assimilati ad un’altra madre e al suo figlio eroe, Aikuna e il figlio Omero, cantati nel ciclo che celebra le gesta di Mujo e Halili:

Mentre alla tomba starà qui custode
tua madre che ha sepolto in essa il cuore!
[Koliqi (a cura di), 1986: 39]

Nel rifarsi a questo canto, Hajdari non si limita a qualche rimando più o meno letterale, ma recupera interi versi e li inserisce nel proprio poemetto mantenendo la traduzione del Koliqi, con varianti minime. Con questo espediente egli fa compiere a tali versi un curioso percorso tra lingua albanese ed italiana. Koliqi ha raccolto il canto in lingua albanese e l’ha tradotto in italiano senza seguire la lettera del testo, rendendo con l’endecasillabo l’ottonario albanese. Hajdari riprende i versi così tradotti e li inserisce nel suo componimento italiano di metro libero, offrendo al lettore quella che è già un’interpretazione del canto albanese pensata per un pubblico di cultura italiana; il passaggio più interessante è forse quello finale, in cui Hajdari restituisce questi versi alla lingua albanese nel testo a fronte della sua poesia, senza ricorrere alla fonte originale cui ha attinto il loro primo traduttore, in una veste quindi completamente rinnovata, vicina alla lettera del testo italiano.
Già nei primi versi del componimento di Hajdari emergono richiami, ancora vaghi, al compianto per Omero. Come Aikuna diceva: “Dimmelo, Mujo, Omero mio dov’è? / […] / Che n’è in nome di Dio di mio figlio?”; Nurie, la madre del poeta, ripete: “Ditemi, al mio Gëzim cosa è accaduto?” [Hajdari, 2004: 99, v. 6], “Ditemi, dov’è la mia gioia?” [ibid., v. 24], verso in cui torna, esplicitato nel testo a fronte (“Më thoni, ku është gëzimi im?”), quel gioco di parole già altrove usato da Hajdari per cui cercare “la mia gioia” significa per la madre cercare il figlio Gëzim, nome che in albanese significa appunto “gioia”. La lingua adottiva non è in grado di esprimere questo doppio senso e si limita ad ammiccare al lettore esperto che rintraccerà la conferma alla propria intuizione solo nel testo in albanese.
Ma torniamo ai rapporti del poemetto di Hajdari con il compianto funebre per Omero. Come nel canto popolare l’usignolo ora fa eco ai compianti, ora tace per ascoltare le parole di Aikuna, così nel canto di Hajdari lo stesso uccello compare due volte e tace al sopraggiungere della triste notizia portata dagli “uomini neri”.
Il poeta affida il suo testamento al cuculo attraverso parole che riformulano con maggiore dolcezza quelle di Mujo alla moglie Aikuna:

  Allor l’eroe a lei risponde e dice:
 -Piangilo quando vai per legna al bosco:
   non voglio dentro casa alcun frastuono
     [Koliqi (a cura di), 1986: 35]
Cuculo, ascolta una parola
Un testamento voglio lasciarti
Vai volando in Hajdaraj
Tre parole dirai a Nurie:
Non voglio pianti in casa
Né lutto da chi mi ha amato
[Hajdari, 2004: 103, vv. 56-61]
 

Davanti al corpo del figlio la madre non ne può accettare la perdita e lo supplica: “Parla Gëzim a tua madre che ti crebbe” [Hajdari, 2004: 101, v. 44], ricalcando le parole di Aikuna sulla tomba del suo Omero: “parla, o caro, alla madre che ti crebbe” [Koliqi (a cura di), 1986: 37], e sempre sul ricordo di quel canto leggendario pronuncia la sua maledizione alla luna:

O luna, in cielo il tuo splendor s’offuschi
Perché quella notte non facesti cenno?
Mi sarei recata subito in Occidente
Ora giacerei accanto a Gëzim.
Forse egli al fianco non mi vorrebbe
Maledetta sia tu perfida luna:
Lo vedesti cadere e rimanesti muta!
[Hajdari, 2004: 103, 105, vv. 76-82],

passo questo ricalcato esattamente sullo schema del compianto per Omero, con qualche variazione dovuta all’adattamento della vicenda e all’attualizzazione del linguaggio a volte troppo aulico o arcaico della traduzione del Koliqi:

O luna, in cielo il tuo splendor s’offuschi,
ché quella notte non facesti un cenno?
Sarei uscita alle Convalli Gialle,
con Omer giacerei ora sotterra.
Fors’ei voluto al fianco non mi avrebbe:
[…]
Maledetta sia tu, perfida luna:
lo vedesti cadere e stesti muta.
[Koliqi (a cura di), 1986: 35, 37].

E se Aikuna viene consolata dalle ninfe dei monti (le Ore) che pietosamente asciugano il suo pianto, la madre di Gëzim viene rincuorata dal figlio stesso, con parole che sono forse rituali nel loro scambio di affetti, se ritornano esattamente nella stessa forma a conclusione di un’altra poesia dedicata alla madre [Hajdari, 2004: 23, vv. 6-9]:

È stato solo un brutto sogno
Se così breve sarà il mio destino
Non me ne andrò da questo mondo
Senza la tua benedizione!
[Hajdari, 2004: 105, vv. 85-88]

Con queste parole l’autore ci conduce infine al di fuori della dimensione del mito, attualizzato attraverso la forma del sogno, sogno in cui il poeta lascia agire le narrazioni eroiche udite dalla madre nel canto di qualche rapsodo.
Si è fin qui mostrato quanto questo poemetto sia ricco di elementi tratti dalla letteratura e dalla cultura albanese, in una misura non riscontrabile in nessun’altra poesia di Hajdari. Questo culmine è però preceduto e in un certo senso preparato da una serie di rimandi minori disseminati nell’opera del poeta.
È nei nomi dei luoghi che si riscontra il riemergere più frequente della lingua albanese nel nuovo vocabolario di Hajdari. In essi la lingua madre prorompe nel vivo del dettato della lingua adottiva, creando echi in qualche modo esotici per il lettore italiano, proprio mentre costringe lo scrittore ad avvicinarsi al familiare, a ciò che era parte del suo possesso più intimo: la lingua materna. Cristina Benussi ha scritto nella prefazione a Stigmate:

Gëzim Hajdari scrive ora in italiano, usando una lingua che potremmo definire “paterna”, che dunque respinge da sé qualsivoglia istanza regressiva della memoria per collocarsi piuttosto nell’attualità di una società adulta […]. [Benussi, in: Hajadri, 2002a: 15].

Se la coscienza linguistica del poeta respinge le istanze regressive della memoria, tuttavia a tratti la lingua italiana (una sorta di Super-io che tiene a bada l’insorgere degli istinti di quell’Es che ha le forme della lingua materna) lo tradisce con la sua incapacità di tradurre i termini della geografia albanese, che insorgono con la forza di atti istintivi. Il tè del Tomorr, la città di Lushnje, i cieli di Myzeqeja… affascinano il lettore con le loro risonanze inudite, commuovono il poeta col loro legame diretto ai luoghi patrii, laddove non è più possibile interporre il filtro della lingua straniera.
Ma già in una poesia raccolta in Stigmate il poeta consapevolmente introduce un nome, di persona questa volta, che porta il lettore a confrontarsi con la tradizione albanese. Hajdari scrive, rivolgendosi alla sua eterna interlocutrice che è la madre:

ritornerò in autunno come Costantino
tu nelle colline natali hai già raccolto l’origano
che porterò con me nella stanza ancora sgombra
[Hajdari, 2002a: 35].

Cosa significa infatti ritornare come Costantino?
Ci sono due leggende albanesi che hanno per protagonista un personaggio con questo nome. Oltre a quella di Garentina, è nota infatti la “leggenda di Costantino il piccolo”, che narra di un giovane sposo chiamato in guerra poco dopo le nozze. Egli, ottenuta dalla sposa la promessa che lo attenderà per nove anni e nove giorni, parte. Trascorre il tempo pattuito e la sposa si prepara a nuove nozze, ma Costantino, avvertito in sogno, o da un uccello, torna e riprende la sposa con sé.
Non ci sono indizi nel testo di Hajdari che ci rivelino a quale leggenda si faccia riferimento. In entrambe le leggende si parla di un ritorno. Il Costantino fratello di Garentina torna dalla morte per ricondurre alla madre la sorella lontana e mantenere in questo modo la sua besa; Costantino il piccolo torna dalla guerra per non perdere la propria sposa. Entrambe le leggende parlano di personaggi spinti ad abbandonare la loro terra, l’Albania, dove lasciano i propri affetti per recarsi in terre lontane (Garentina per seguire il proprio sposo, Costantino il piccolo per obbedire all’ordine del suo signore che lo chiama in guerra).
Ci sono però degli elementi, non esplicitati nel testo, che fanno pensare che il riferimento più proprio sia quello alla leggenda di Garentina.
Innanzitutto è alla madre che Hajdari promette di tornare, e non ad una sposa. In secondo luogo questo passo, sebbene contenuto nella raccolta Stigmate, può essere riletto alla luce della raccolta successiva, Spine nere. Abbiamo visto che nel poemetto “Occidente dov’è la tua besa?” il poeta torna presso la madre solo dopo la morte, e il loro incontro è narrato negli stessi termini dell’incontro di Garentina con la propria madre. È come se Hajdari avesse voluto fondere in una sola figura (la propria) il personaggio di Garentina e del fratello di lei, Costantino. Del resto già in Corpo presente compaiono dei versi in cui si fa riferimento ad un ritorno del poeta nella sua terra, ritorno che avviene sempre in termini magici:

di giorno sto con voi e di notte emigro laggiù
portato da un’ombra
[Hajdari, 1999: 125, vv. 8, 9]

Hajdari, come l’eroina della leggenda, è riportato nella sua terra da un’ombra. Ancora in Spine nere, narrando la propria leggenda nel poemetto che porta lo stesso titolo della raccolta, il poeta fa cenno al ritorno nel suo paese:

Così narra la leggenda:
si dice che egli di notte torni
nel paese dell’Est che tanto amava
su di un cavallo bianco.
[Hajdari, 2004: 97, vv. 85-88];

il cavallo che riporta Garentina a casa è la pietra sepolcrale di Costantino tramutatasi in destriero proprio di notte (a mezzanotte):

A mezzanotte, in quella stessa notte,
Costantino si levò dal sepolcro.
La pietra del sepolcro diventò cavallo,
diventò cavallo nero come la notte;
[Schirò, 1923: 47]

E forse non è troppo fantasioso pensare che Hajdari ritorni nel suo paese dell’Est portato, come Costantino, dalle proprie pietre, quelle pietre che nella sua poesia simboleggiano la parola.
La figura di Costantino compare dunque velatamente in Corpo presente, e poi nuovamente in Stigmate, dove per la prima volta Hajdari si identifica esplicitamente con un personaggio del mito albanese. Con maggiore sicurezza egli proseguirà la costruzione del proprio mito, ricalcato sulle tradizioni della sua terra, nella raccolta successiva. Abbiamo visto come ciò si verifichi nel poemetto che chiude l’opera, che è però preceduto da un altro poemetto dal titolo “Spine nere”, strutturato come un racconto leggendario sulla vita del poeta. Così posti l’uno di seguito all’altro, i due componimenti vanno a formare come un dittico, con le gesta del protagonista seguite dal suo compianto funebre.
La nascita del protagonista avviene sotto il segno di strani presagi, gli oracoli gli annunciano un destino immortale ed egli viene preso in custodia dalle Ore, divinità tradizionali, abitatrici dei monti (“per sette giorni e sette notti egli dormì sotto le ali delle Ore” [Hajdari, 2004: 89, v. 13]). Nei cicli eroici della tradizione albanese sono proprio le Ore a destinare gli eroi alla loro missione, esse li prendono sotto la propria protezione infondendo in loro forze invincibili e rendendoli invulnerabili o immortali (questo avviene ad esempio all’eroe del noto ciclo di Gjeto Basho Mujo). Anche il poeta reclama per sé l’immortalità, ma la ottiene attraverso la parola di pietra che resiste alla storia: “di pietra in pietra verrà scolpito il suo verbo” [ibid., v. 7], attraverso il linguaggio magico della poesia che nasce dal dialogo con gli uccelli: “O donne lo renderemo immortale / […] / gli insegneremo la lingua degli uccelli e delle fate” [ibid., vv. 9, 11].
È dunque così che Hajdari, in Spine nere, ricostruisce l’origine della propria vicenda disseminata nei versi già cantati, inscrivendo il proprio esilio nel cerchio di un destino prestabilito, che lo accosta ai grandi personaggi dei cicli epici della sua terra.

2. Perdere e riacquistare il canto: la peligorga canta in italiano

Si è fin qui indagata la contaminazione tra tradizioni che il poeta crea nel suo poetare a livello sia formale che tematico, ma vi è un altro aspetto proprio della poesia migrante, che risulta di grande interesse nella produzione di Hajdari: quello del bilinguismo. Leggendo in maniera diacronica le varie raccolte poetiche del nostro autore, si può indagare questo aspetto attraverso l’analisi di un elemento simbolico assai caro al poeta: quello degli uccelli. Il simbolismo legato agli uccelli è infatti presente in tutte le sue raccolte e ci svela un particolare processo di perdita e ritrovamento della parola.
Stormi di uccelli popolano le due raccolte scritte da Hajdari in patria e composte in lingua madre. Questi animali sono parte integrante di un paesaggio naturale che funge allo stesso tempo da specchio dei sentimenti poetici e da maschera per raccontare la propria situazione in un clima di censura durissima. In Erbamara e in Antologia della pioggia gli uccelli sono chiamati con i loro nomi e si presentano in una ricca varietà di specie: colombi, stornelli, rondini, tor clima di censura durissima. In Erbamara e in Antologia della pioggia gli uccelli sono chiamati con i loro nomi e si presentano in una ricca varietà di specie: colombi, stornelli, rondini, tortore, pettirossi… ognuno con caratteristiche specifiche. Nelle raccolte italiane essi tornano, ma perdono, almeno all’inizio, ogni connotazione naturalistica per farsi semplicemente simboli. Sia in Ombra di cane che in Sassi contro vento gli uccelli sono privati dei loro nomi: sono semplicemente “uccelli” o “ali spezzate”; talvolta portano una notazione coloristica che sembra non avere valenza descrittiva: si parla infatti di uccelli blu come simboli dell’infanzia lontana (“tacciono gli uccelli blu / i fuochi antichi / chi ti ha rubato l’infanzia?” [Hajdari, 1995: 35, vv. 7-9]), o della “nera fila degli uccelli” che conduce gli esuli oltre i confini [Hajdari, 1995: 21, v. 6]. Una guida dunque nelle nuove terre in cui per fatalità della lingua i messaggeri celesti sono assimilati alla sorte del poeta in esilio di cui non viene chiamato il nome ma solo il corpo (“parti verso un paese / che non chiama il tuo nome / ma solo il tuo corpo” [Hajdari, 1999: 43, vv. 1-3]). Il poeta dovrà essere solamente un corpo presente che resiste alla fatalità della sorte, cessando di essere Gëzim, gioia: forse proprio a ciò allude la maledizione “mai nessuno pronuncerà il tuo nome / nei richiami quotidiani” [Hajdari, 2004: 93, vv. 57, 58], al fatto che non ci sarà gioia nell’esilio, la gioia di essere chiamati per nome, con affetto. Così come il poeta, anche la peligòrga non ha più il suo nome, è un uccello che non può cantare (tacciono gli uccelli). Se gli uccelli rappresentano il poeta stesso, questo loro tacere riproduce il rischio dell’afasia che coglie l’esule nel momento in cui sceglie di adottare la lingua della sua nuova patria.
Gli esuli infatti, raggiunto quel “territorio nudo” [Hajdari, 1995: 49, v. 3] necessario alla loro voce per rinascere, sono:

[…] qui tra i sassi
con i sassi
circondati dal freddo del prato
e dagli occhi grandi degli uccelli
in attesa di una Voce
[Hajdari, 1999: 25, vv. 1-5].

La loro parola mutata in pietra li circonda con la sua freddezza, mentre gli uccelli, sbigottiti, ancora non sanno cantare e ispirare parole al poeta, si limitano a sgranare gli occhi; la Voce ancora non è giunta, si rimane in attesa “con le bocche chiuse nascondendo / le parole” [ibid., vv. 12, 13].
La padronanza ancora malsicura della nuova lingua costringe il poeta a trasformare gli abitatori ben conosciuti del suo paesaggio-linguaggio quotidiano in simboli vaghi, fortemente allusivi, non più legati ciascuno alla propria stagione, ciascuno al proprio paesaggio o ad una leggenda, come avveniva invece per gli uccelli nominati nella lingua materna. In quella lingua le rondini potevano essere il segno del tempo che fugge e si allontana con ritmo ciclico(“Gli anni si sciolsero / ad uno ad uno si persero / A stormi le rondini / nei cieli volarono” [Hajdari, 2001: 25, vv. 1-4]), la peligòrga assurgeva a simbolo dei poeti della sua terra (“Peligòrga caro uccello della valle / a te i poeti di Darsìa / legavano il destino” [Hajdari, 2001: 67, vv. 1-3]), il cuculo cantava mesto da collina a collina alla ricerca dei suoi piccoli che, narra una leggenda albanese, aveva perduto un tempo e ora cerca con il suo cu-cu, verso che ricorda in albanese le parole dove-dove? (ku-ku?): “con sassolini manda via il cuculo che intristisce / sulla ginestra” [Hajdari, 2000: 67, vv. 11, 12]. Nella nuova lingua le varie specie di uccelli non possono più essere nominate e finiscono col perdere i loro connotati specifici. Non più differenziati, gli uccelli si fanno semplicemente simbolo di libertà o di possibilità di oltrepassare confini e barriere: guide nell’esilio.
Solo poco a poco il poeta ritrova i nomi degli uccelli, che tornano a fatica in Corpo presente e con maggiore sicurezza nelle raccolte successive.
Poter dare un nome alle cose significa conoscerle, possederle, amarle; è rinascita per il poeta, è trovare finalmente un posto, una condizione dignitosa nell’esilio:

Presto conosceremo la nostra voce
e sapremo i nomi degli uccelli
che ci cantano nelle dita

troveremo anche il posto nella nebbia
noi uomini di cielo
sedotti a sorpresa nella penombra.
[Hajdari, 1999: 85]

Il nominare le cose parte proprio dagli uccelli che cantano nelle dita dei poeti, muovono le loro mani e le guidano alla scrittura, conducendoli a una nuova chiarezza, fuori dalla penombra, dai luoghi insicuri della nebbia, restituendo loro lo statuto di uomini di cielo.
Ma il passaggio dal silenzio alla parola è lento e doloroso, al poeta per primi non si mostrano gli uccelli amati dell’infanzia, bensì uccelli diversi che, nati da un’altra lingua, spaventano e fanno inorridire:

Ora non riusciamo a parlare
sotto questi cieli fissi

la nostra lingua si riveste
di un’altra lingua che germoglia
corvi
corvi che volano su ghiacci e muri
disfatti

anche i fuochi da dove veniamo
non ci consegnano ai nuovi fuochi
dei quali abbiamo ancora bisogno.
[Hajdari, 1999: 29]

Nel tempo immobile del silenzio (i cieli fissi) avviene il passaggio da una lingua all’altra, come un cambio d’abiti, o meglio: è la lingua materna ad essere avvolta in nuove vesti, quasi ad indicare che essa rimane come sostrato imprescindibile, come struttura profonda su cui la nuova lingua si sviluppa, restando a quella intrecciata (“[…] Rompe il silenzio / e intreccia le nostre mute lingue” [Hajdari, 1999: 83, vv. 9, 10]). Con l’uso del verbo germoglia il poeta suggerisce la possibilità che questa nuova forma di poesia sia fiorente, prolifica, ma subito al verso successivo, con la secchezza di quella parola isolata (corvi) delude le aspettative del lettore presentando i fiori della nuova lingua nella loro cupa essenza di corvi, non più usignoli o peligòrghe, e nemmeno tristi cuculi.
I fuochi che rappresentano la casa e gli affetti, ma anche il sacro fuoco della poesia, vengono a mancare al momento dell’esilio, essi abbandonano il poeta, non lo affidano a nuovi fuochi guidandolo nel passaggio da una lingua all’altra; è allora che avviene la perdita della voce, nel momento in cui si sente il compiersi del distacco dal passato e insieme la mancanza di quel nuovo fuoco che rappresenta il futuro della Parola, ma che ancora non appartiene al poeta. Da solo l’esule dovrà conquistare il diritto alla parola, allora potrà tornare a nominare gli uccelli. Ecco che tornano la peligòrga: “Puoi ritornare Peligòrga / a misurare la nostra distanza” [Hajdari, 1999: 131, vv. 1, 2], le rondini: “Ci separa la leggera estensione / dei campi / e l’altopiano di rondini libere” [Hajdari, 1999: 113, vv. 1, 2], e la capinera: “Vedo dalla finestra la capinera / […] / ci siamo incontrati dopo tanti anni / mi ha riconosciuto / anch’io l’ho riconosciuta” [Hajdari, 2002a: 105, vv. 1, 5-7]. Ma questi uccelli si fanno ora segnale di una distanza, ricordo del tempo trascorso, misura tra il poeta e la sua patria; nell’ispirare il suo canto non mancheranno di ricordargli il distacco, la lontananza:

in cima alla canna intristisce il pettirosso
e la volpe che abita nei dintorni mi guarda negli occhi
mai pensato di essere qui dove sono
senza la mia acqua e i miei uccelli di fuoco
[Hajdari, 2002a: 23b, vv. 7-10].

Quando però Hajdari sceglie di creare una nuova patria che abbracci ogni luogo in cui il suo corpo si posa, ecco che gli uccelli tornano ad intonare un canto lieto, libero dalla nostalgia; essi si fanno i cantori di questa nuova dimensione del vivere: “l’inno delle mie patrie il canto del merlo / che io canto in ogni stagione di luna calante” [Hajdari, 2002a: 67, vv. 13, 14].
Il poeta ha ormai conquistato il fuoco della parola, ha rivestito con la sua nuova voce, con i suoi nuovi versi quel territorio nudo che aveva cercato all’inizio dell’esilio. Egli si è infine appropriato di una lingua nella quale può dispiegare il proprio canto senza più il timore della censura, né quello dell’inadeguatezza, della frammentarietà. Ritorna a dare un nome ai propri uccelli che sono di nuovo liberi di cantare; ritorna infine a sperare che qualcuno nomini il suo stesso nome ancora errante nella terra dell’esilio:

Ah, se mi chiamasse stasera qualcuno dalla patria.
Davanti ai bagliori dei coltelli
voglio che qualcuno nomini il mio nome
che erra sotto la pioggia
in Occidente
[Hajdari, 2005: 68, vv. 1-5].

(1) Hajdari ha ricevuto vari premi letterari, tra i quali il più importante è stato il Premio Montale per la poesia inedita, conferitogli nel 1997 per una serie di componimenti che hanno poi costituito il nucleo centrale della raccolta Corpo presente, edita nel ’99.

(2) Giuseppe Ungaretti, L’allegria, in: L. Piccioni (a cura di), Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Milano, Arnoldo Mondadori, 1969, p. 58.

(3) Il poema, edito dapprima nel 1900 a Palermo, poi rimaneggiato e riedito postumo nel 1940, parla delle origini del popolo albanese, delle gesta di vari eroi, dell’impresa di Skanderbeg e dell’esilio in Italia seguito all’occupazione turca.

(4) “La mia patria: il mio corpo / Gëzim: la mia identità” [Hajdari, 2005: 130, strofa 70].

(5)Per “latenza linguistica” si intende un termine nella lingua madre dell’autore inserito senza traduzione nel testo italiano; secondo Carmine Chiellino si tratta di “un nesso dialogico che fa passare sensazioni, ricordi, paure sedimentate in una lingua, in un’altra dove esse vengono attivate da nuove esperienze” [Chiellino, 2002: 50].

(6)“Gjam: convulsa enumerazione dei meriti del defunto fatta da maschi che si battono vigorosamente il petto e si lacerano il viso a sangue” [Koliqi (a cura di), 1986: 101].

(7)Narra questo canto di una madre che aveva molti figli maschi ed una sola femmina, Garentina appunto (o Doruntina), la quale andò sposa ad un signore straniero. Il figlio più giovane, Costantino, aveva promesso alla madre che le avrebbe ricondotto Garentina quando ella l’avesse voluta presso di sè. Morti tutti i figli maschi in guerra, la donna lamenta di non avere almeno la figlia a consolarla nella vecchiaia. Costantino allora, mantenendo fede alla parola data (la besa), esce dalla sua tomba, la cui pietra si trasforma in cavallo per condurlo a riprendere la sorella e portarla alla madre; le due donne ricongiunte muoiono insieme.



Riferimenti bibliografici

Camarda, Demetrio:
1864, Saggio di grammatologia comparata sulla lingua albanese, Livorno, Successore di Egisto Vignozzi e C.
1866, Appendice al Saggio di grammatologia comparata sulla lingua albanese, Prato, Tip. F. Alberghetti e C.

Chiellino, Carmine:
2002, Come leggere la poesia interculturale in lingua italiana, inedito.

Fracassa, Ugo:
2005, Carnevali e Hajdari. Paradossi di estraneità, in: Pagliaro, G. (a cura di), Presenze in terra straniera, Napoli, Liguori, 2005.

Gradilone, Giuseppe:
1997, Studi di letteratura albanese contemporanea, Roma, Istituto di studi albanesi dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”.

Hajdari, Gëzim:
1993, Ombra di cane, Frosinone, Dismisuratesti.
1995, Sassi contro vento, Milano, Laboratorio delle Arti.
1999, Corpo presente, Tirana, Dritëro.
2000, Antologia della pioggia, Santarcangelo di Romagna, Fara.
2001, Erbamara, Santarcangelo di Romagna, Fara.
2002a, Stigmate, Nardò, Besa.
2002b, Breve panorama della poesia albanese dagli anni Trenta ad oggi, “Kuma”, 3, gennaio 2002 (www.disp.let.uniroma1.it/kuma/critica/html).
2004, Spine nere, Nardò, Besa.
2005, Maldiluna, Nardò, Besa.

Koliqi, Ernesto (a cura di):
1963, Antologia della lirica albanese, Milano, Scheiwiller.
1986, Poesia popolare albanese, Firenze, Sansoni.

Schirò, Giuseppe:
1923, Canti tradizionali ed altri saggi delle colonie albanesi di Sicilia, Napoli, Stab. Tip. Luigi Pierro & figlio (si cita dalla riproduzione anastatica del 1986, stampata a Palermo presso le Arti Grafiche A. Renna).

Schirò, Giuseppe Jr.:
1959, Storia della letteratura albanese, Milano, Nuova Accademia Editrice.

Silvia Vajna de Pava

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(ISSN 1824-6648)

Gëzim Hajdari: Il poeta della migrazione

A cura di raffaele taddeo

 

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Anno 2, Numero 11
March 2006

 

 

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