Esperienza dell'esilio nella poesie di Gezim Hajdari
La disamina di esperienze specifiche all'intemo di questa letteratura servirà a sostenere il discorso sin qui condotto e a fornire materiale per ulteriori studi e riflessioni. Tra le presenze piú interessanti di questo articolato panorama si deve registrare quella di Gazim Hajdari, la cui opera è proposta in queste pagine a modello di una cifra scrittoria in cui confluiscono il rapporto conflittuale con una cultura estranea, la constatazione di una graduale perdita dei sé e la conseguente sfida al senso di marginalità e di disfacimento opprimente.
Poeta albanese da anni presente e attivo sulla scena letteraria italiana, esule politico dal 1992, Hajdari costituisce forse uno dei casi piú interessanti e complessi di esperienza della migrazione. Nato a Lushnje e laureatosi in lettore albanesi all'università di Elbasan, Haidari aveva già nel suo paese intrapreso la carriera di poeta. La sua opposizione alla dittatura comunista e piú tardi al regime «democratico" dei presidente Berisha gli valsero l'ostracismo e la condanna politica. Nel 1992, in seguito all'intensificarsi delle minacce alla sua incolumità, Hajdari fu costretto a lasciare il suo paese e a stabilirsi in Italia, dove ancora oggi vive e lavora. LA sua poesia è stata accolta con interesse ed è stata premiata in diverse occasioni. I suoi versi sono stati pubblicati in diverse antologie e in sette raccolte personaIi tra le quali spiccano, per rigore compositivo e unità tematica, Antologia della pioggia (1990), Ombra di cane (1993), Sassi contro vento (1995), Corpo presente (1999), Erbamara (200 1), e Stigmate (2002). A tutte le raccolte soggiace una intenzione narrativa autobiografica, caratteristica che accomuna Hajdari agli scrittori migranti, e tuttavia il percorso poetico e umano di questo autore indirizza ad una investigazione di tutta l'opera, anche quella pubblicata e rubricata in Albania e precedente all'esperienza dell'esilio.
L'esame dell'opera complessiva si prefigge di esplorare le coordinate dell'itinerario esperienziale hajdaríano e di illuminarne l'evoluzione tematico¬simbolica. La selezione qui proposta si snoda da una realtà poetica già compiutamente strutturata negli anni della difficile convivenza con la nomenklatura albanese, in cui la ricerca della parola da opporre alla appiattente propaganda dei regime si esprime in un verso centellinato,' ponderato, scarnificato, e rimane per Hajdari scuola di vita e di pensiero, atteggiamento sapienziale che è nel contempo etica della resistenza. La dedica "Alla mia Albania/ che divora i suoi figli/come Medea” apposta sul frontespizio di Antologia della pioggia, a delineare , con chiare coordinate spazio temporaIi, la
vicenda del poeta, il cui dramma è legato alla storia della terra di origine, tragica e incontrovertibile presenza negli anni albanesi, assillante richiamo nella distanza dell'esilio
Forse nelle colline brulle di Darsia
verranno chiusi i miei versi fragili
sotto le spine secche dei melograno
picchiati dai venti gelidi d'Oriente
Lontani dagli amori delle fanciulle
che sapranno mai della loro angoscia
solitari sotto il cielo nero
come il pettirosso nel buio d'inverno
Il fiuscio dell'erba, il canto dei merlo
faranno compagnia al loro lamento
mentre le notti corte d'autunno
li copriranno con la pallida luna.
(Antologia della pioggia 27)
Nell'incipit dubitativo si addensa e si dissolve l'io poetico, nel timore speranzoso che il proprio dire fragile venga serrato entro l'orizzonte di un paesaggio impervio e tuttavia familiare, intimo e quotidiano. Un'inquietudine e una invocazione alla natura perché protegga, entro le asperità del proprio orizzonte, anche il verso dell'uomo e lo stesso poeta che vigila, come il pettirosso, nel buio di una stagione trafitta dal vento, nutrendosi della propria angoscia come di un bene prezioso e inalterabile. La natura, unica amica del poeta, gli si rivela, nelle sue manifestazioni più impercettibili, come nume tutelare, spazio della creatività e della vita. Poesia di soffusa elegia, leopardiana nel referente semantico selenico e nella diffusa sofferenza del canto che nasce per venire celato, e chiuso, per resistere, dalla linea dell'orizzonte collinare. La poesia sorge, per Hajdari, già consapevole del suo destino di clandestinità, e per questo il verso si fa secco, aspro e contratto, un sasso da lanciare nel vuoto, cosciente atto di opposizione a una realtà gelida, che impone la morte individuale a gloria di una stolida massificazione. Privilegiato referente di molta poesia di questo periodo, nella natura e nei suoi elementi, il poeta iscrive il suo messaggio cifrato, il codice della disperazione, della insopprimibile resistenza di fronte all'ideologia del regime, alla grettezza censoria del suo apparato:
cicli chiari
dove ti affacci e ti perdi
Territori Sterili
dove germoglia
l’ombra dei tuo Corpo
(Antologia della pioggia 3 5)
E ancora
Accanto a me nulla scorre
sono sempre io
ricordo solo me stesso
sulla terra incanutita
(Antologia della pioggia 4 1)
Chi si ricorda
della nostra infanzia
di pura innocenza
che moriremo sotto
questa pioggia sottile è certo
Fisse le nostre forme
all'orizzonte
che di freddo e di obli
o
si nutrono.
(Antologia della pioggia 47)
L'aridità, la sterilità del paesaggio hajdariano sono i traslati di uno spazio storico interiorizzato, la realtà di una devastazione umana personificata nella canizie di una terra che, nata già vecchia, nutre i ~ figli di "freddo e oblio"s o li divora come Medea; di cui non rimane che un'ombra una linea schiacciata contro l'orizzonte. Immagine ricorrente, l'Ombra è l'emblema di un 'io" sottile, svuotato e rarefatto, assottigliatosi fino all’impercettibilità, un "io" che tuttavia continua a respingere il vuoto assediante. La pioggia e la morte, uniche certezze, vengono contrapposte in questi versi ad una infanzia che è nel contempo luogo dell'innocenza e improbabile ritorno salvifico, poiché la forma rimani fissata e all'orizzonte , cosi l'uomo, condannato al divenire di un immanente senza riscatto.
La parola hajdariana è consapevole del divario incolmabile tra l'infanzia e il presente, tra l'impossibile ritorno e la realtà, e tuttavia il suo ricordo permane, lascito dell'immaginario da custodire gelosamente. Euforica e disforica, la memoria appaga e amareggia il poeta che oscilla tra la contemplazione di un universo irrecuperabile e lo sconsolante raffronto con l'hic er nunc. Nella sterile natura si riflette una umanità depredata anche dei propri sogni giovanili; è allora urgente incombenza del poeta raccogliere le memorie, preservarle dall'oblio, supremo strumento della barbarie.
in un pugno di sabbia la mia infanzia
non la sciolsero le acque dei torrente
sulle bianche pietre le tracce di allora
rispecchiate su un filo d'orizzonte
Ancora sento i tuoi echi
torrente avvolto di salici piangenti
sulle conchiglie scorrono acque quiete
¬cumuli di nebbie le tue valli
Un tempo alla tua riva
le donne lavavano i panni sulla pietra
fino a sera nei campi si sentiva
l'amara voce della peligòrga
Ora torrente della mia infanzia
scorri nella nostalgia, lontano da me
ma spesso nei sogni s'affacciano
pugni di sabbia e conchiglie vuote
Lì è rimasto tutto, sabbia, pietre
al fondo stanno date e inni
come allora le conchiglie suonano
echi notturni e venti invernali
(Angologia dellapioggia 71)
E ancora:
Per campi e sentieri
andrò come allora
e raccoglierò
gli anni sparsi dell'infanzia
Tace la polvere sulla strada
erbamara nei prati¬
Sotto il cielo sempre cupo
alberi nudi e solitari.
Non piú tra le pietre
fischi lontani e suoni:
anche gli uccelli sono fuggiti
con i loro sogni giovanili.
Nulla cara è rimasto
Nei luoghi natali¬
Tutto tutto è svanito
E ricoperto dal Buio.
(Pietre al confine 5)
L'itinerario memoriale tramuta tattile, visiva e sensitiva visivo esperienza dell'infanzia in un sapore assoluto, cristalizzato in un tempo interiore collocato al di fuori e là della storia, depositato nel profondo; prezioso sedimento e ricchezza esclusiva dell'uomo, la memoria lo salva dal buio presente restituendogli ciò che ha di piú suo. Nella dialettica opposizione tra procedere storico e ritmo dell'interiorità la rievocazione memoriale promette il rinvenimento di un ubi consistam; il torrente , la sabbia. le sue pietre, le sue conchiglie corrispondono metaforicamente ad una origine. ad una individualità recuperabile solo nella distanza e nella separazione. La sintesi onirica viene comunque soffusa di lievi presenze simboliche, l’amaro canto della peligòrga, i salici piangenti che rinviano alla impossibità di una rielaborazione,abile in chiave idilliaca; il suono della terra infanzia sparge infatti dalle conchiglie come faceva un tempo la fredda eco del vento nelle notti autunnali.
Queste poesie, contenute nel prirno volume di versi in italiano, sono una possibile aggiunta all'organismo originale, la cui pubblicazione avvenne presso la Frasheri di Tirana nel 1990. Sono già presenti le tematiche della solitudine e dell'isolamento condizioni queste registrate chiaramente dai versi posti in chiusa, probabilmente posteriori all’esperienza albanese. Si conclude con essi la prima fase della scrittura hajdariana, nella quale aveva prevalso una estenuante limatura del tessuto sintattico e del codice retorico, una rarefazione stilistica e concettuale che definisce la tramatura del verso e le dà un timbro drammatico. Il referente rinvia ad un orizzonte linguistico chiuso costruito su una serie di segnali ricorrenti: la pioggia, il vento, la pietra, l'Ombra, il Buio, l' inverno, la terra-madre, valenze semantico-simboliche in cui la voce poetica oggettivizza l’esperienza del dolore.
Il testo che segue ha un andamento piú disteso, quasi narrativo, mentre il tessuto frastico è percorso da modulazioni autobiografiche; in esso viene fissato il momento iniziale della migrazione, uno spostamento fisico e geografico sostenuto dal dato ge politico, quel documento di identità che fornisce una seppur vaga localizzazione evenenziale e ciclotimjca, un porsi ingenuo di fronte all'evento. Il motivo del viaggio e dell'approdo è già tutto esplicitato in quel “vengo” in posizione forte che del soggetto senziente ha già delineato il bagaglio storico, quella strada di 'lampi e vento”, e nello stesso tempo lo ha collocato in un presente in divenire un passaggio verso un luogo indeterminato, un luogo di possibile accoglienza:
Vengo per la strada di lampi e vento
in tasca la mia carta d'identità
con la data di nascita e una piccola foto
da provinciale distratto
nel mio corpo profili di pioggia e di ombre
degli anni che vivo per caso
mi infrangono i giorni, mi uccidono le Pietre
la solitudine del pettirosso in inverno mi fa pena
Ho il mio volto, la mia Voce, il mio nome
lodo, amo, grido fino al sangue
e temo gli abissi dei Tempo
Conosco gli assassini di Amleto
la maledizione dei cavallo di Troia la conosco
non mi inchino agli dèi
credo nell'Uomo
Arnici,
non chiedetemi di essere quello che non sono
senzaa la mia corazza e le mie armi.
come Patroclo.
(Antologia della pioggia 13)
Il bagaglio della storia individuale che qualifica il viaggio nella sua fisica gravezza, si è stratificato nel corpo del poeta, tracciando “profili di pioggia e ombre”; il dolore esperito è l'unica costante esistenziale, mentre la casualità degli anni della sua vicenda umana continua a consolidarsi nelle immagini del fango e del pettirosso, estrinsecazioni di un percorso di solitaria opposizione. E’ la raffigurazione di un destino che non ha risparmiato la materia, di cui solo sono rimasti un volto e una identità, che tuttavia non è quella trasparente dal viaggio, esplorazione che trascende il semplice dato geografico, rimane la parola, unica salvezza contro l’estrema dissoluzione. La chiusa prospetta un futuro critico, conflittuale, esperito in solitudine, condizione sottolineata stilisticamente dall'assottigliarsi del dettato che va, con andamento discendente, dalla doppia quartina all’essenzialità dell'ultimo verso.
L'ansia aurorale che traspare da questo lavoro si trasferisce al livello del vissuto nella raccolta successiva. In Ombra di cane i temi dello smarrimento e della morte dominano l'orizzonte e lo confermano sia il titolo dei volumetto che la dedica "a me stesso, perduto”, impressa sul frontespizio. I versi si rarefanno, ma acquistano in incisività e asprezza:
Piango solo
in questa stagione funebre
piena di morti e fiori calpestati
nel buio.
(ombra di cane 9)
il mio corpo
nato in un paese povero
è un verso cieco
senza memoria.
(ombra di cane 13)
Corne sono tristi
queste città
con l'uomo morto
dentro.
(ombra di cane 17)
Ombra di cane raccoglie la prima dell’esperienza della migrazione e dell'esilio, che racchiude in sé l’allontanamento dalla terra natale e il difficile innesto nella nuova realtà socìo culturale italiana. Il distacco e la lontananza colpiscono primamente l’universo affettivo, nel quale si è plasmata l'identità, mentre la terra di origine acquista i tuffi di uno spazio sapienzale custode dei numi tutelari: la madre, la lingua materna, la natura, i morti illacrimati i fiori calpestati dalla inesorabilità di un presente sempre uguale a se stesso.
Il richiamo alla propria materia, nella seconda quartina indica a qual punto sia giunta la dissoluzione dell’”iò”. Il corpo, sentito nella sua, umile fragilità, emblematizza l'inutile sforzo e la parola che da esso scaturisce soffre della sua pochezza, diviene incapace di esprimere il mondo, di trasfonderlo in esperienza poetica. Attraverso il corpo, sofferente e "senza, memorie, il poeta non può che comunicare il proprio buio, la propria disperazione. L'uomo «morto dentro», privato dei corpo e della parola, viene siluettato sullo sfondo vuoto di un paesaggio cittadino, contrapposto al quale anch'esso diviene segno negativo, emblema di una assenza. Città e uomo "morto dentro" sono gli estremi di un paesaggio sconfortante, nel quale destini diversi si incrociano senza mai sfiorarsi né confondersi.
Versi questi nei quali si piange la desolazione del vivere quotidiano in un paese straniero, in cui le difficoltà della coabitazione tra culture è simbolo di una ben piú tragica incomunicabilità umana. Momento di crisi e riflessione che porta necessariamente ad una fase di progettualità futura, che conferma una consapevole azione di resistenza liberata poeticamente nel volume successivo, Sassi contro vento. L'opera è prefata da una interrogazione che ne costituisce il palinsesto "ci sono altre possibilità”' che è nel contempo motivazione poetica ed epistemologica, un interrogarsi che raggiunge la compiutezza della forma nella parola scavata, ne Ila sua solida e petrosa asprezza. La validità dei progetto e la su forte valenza etica vengono confermati dal profetico "nessun altro gesto è possibile”, posto in chiusa ad indicare la determinazione aurorale a risemantizzare la poesia come gesto di resistenza contro il buio dell'annichilimento:
Ci perdiamo nella nebbia
come i corpi nell'abisso del Tempo
il cielo è chiuso di pietre
non è il sole che brilla
ma i marmi e la calce
quelli che fuggono la neve
parlano dei fuoco
poi ci accorgiamo
che le tombe sono vuote
senza ossa e nomi
dietro gli alberi e le statue
salgono ombre di sangue
immagini di polvere
qualcuno con impazienza
chiede della prossima dimora.
(Sassi contro vento 43)
L'incalzare ritmico dei verso e la tonalità data dal continuo contrasto tra la freddezza e il calore, tra il sole e il marmo, la neve e il fuoco, le statue il sangue, dà alla poesia una vibratilità nervosa, un continuo essere in bilico tra luce e buio, vita e morte. L'incipit adombra un presente enigmatico, incerto, una umanità confusamente in cammino, abbagliata da miraggi, ingannata da ambigue voci oracolari. Contrastive sono in aggiunta le immagini della natura, il cielo, chiuso entro limiti di pietra, i raggi solari, sterile riflesso proiettato sulla materia. Ad una natura inanimata corrisponde un paesaggio umano in disfacimento, fatto di ombre e polvere; crollato ogni tempio, perduto ogni legame con la storia, all'uomo non rimane che constatare la ~a instabilità, l'equilibrio precario che si stende tra un passato irrecuperabile e un futuro indefinibile. La "prossima dimore è solo un obiettivo opinabile, mentre il presente si disfa nella complessità di un negativo assoluto, di uno spazio labirintico. Emblema di un non luogo, la nebbia che assedia l'uomo è estrinsecazione di una condizione collettiva, quella dell'esule, costretto a condurre la propria esistenza in un tempo chiuso e abissale, abbagliato dal miraggio di una improbabile utopia
partiamo di notte
dimenticando che siamo ciechi
per raggiungere un territorio nudo
dei quale ha bisogno la nostra voce
andiamo al mare per parlare
e lanciare sassi contro vento.
Nella partenza notturna c landestina e collettiva, si dà forma all'archetipo di un viaggio di conoscenza e di libertà che pone come condizione fondamentale il rifiuto dei luogo di origine, avvertito nella sua valenza negativa di travaglio e avversità. La ricerca di un altrove viene significata nell'orizzonte marino che acquista per il poeta il significato di una grande apertura, di una spinta esplorativa verso ciò che è sconosciuto, di una, diaspora. nel “diverso”. Il Topos marino racchiude l’euforia dell'incontro paritetico tra civiltà, lingue e culture;
nel mare si celebra il molteplice e dirigersi. verso di esso diviene per il migrante la concretizzazione di un desiderio comunicativo, di una volontà di mescolarsi, fondersi e trasformarsi in "altro”. Mare esperito allora sia come luogo della perdita ma anche come possibile via di salvezza, spazio della pluralità e della differenza, ma anche luogo della creatività e della rinascita poetica.
Al mare viene contrapposto l’approdo a un territorio nudo, potenziale; per L’esule e il migrante esso è il luogo della non appartenenza dell'eterno nomadismo, un contesto storico e culturale indifferente alle istanze della sua parola ma che di essa tuttavia ha estrema necessità. Da qui il coraggioso e speranzoso gesto del poeta, quel suo gettare sassi, parole, contro vento; destino del migrante, perenne straniero agli altri e a se stesso, è tutto racchiuso in questo atto, nella esplicitazione di una esperienza straniante e straniata del reale, di una visione dal di fuori, da testimone scomodo ma illuminato. Essere straniero, significa perciò mettersi in gioco, essere consapevole di esprimere l’”altro” con una parola essenziale, perché portatrice di autentica sapienza: Egli/ella, loro, decidono, in forza della loro dignità [...) . di giocarsi di rischiare e avventurare la propria unica vita senza assicurazione e garanzie. Solo dal migrante t ... 1 si può venire a sapere che valore abbia oggi l’esistenza umana. Il migrante, infatti, apre bocca dall'antro della sibilla più povera e continua a farlo lungo i crinali piú rischiosi e dai luoghi piú accostati alla sventura, all'umiliazione piú violenta, alla sparizione anonima e alla morte. Solo il migrante può cantare il «caso umano" dei nostro tempo con una lingua che possa essere tradotta in tutti i mondi. (Gnisci La letteratura italiana 67)
Nel 1999 esce Corpo presente, raccoltaa in cui la ricerca tematico stilistica si coniuga a una tenace investigazione epistemologica. Il tessuto compositivo registra una fase di evoluzione che si stempera nella riflessività del vivere in una cultura “altra”, scavato e interpretato con sofferta partecipazione; l’esperienza si gioca in un denso presente, nel quale la Voce, consapevole del proprio sradicamento e della propria marginalità, è spinta a elaborare il suo percorso come pratica di resistenza e, nel contempo, a significarlo in una “poetica del sentire e della transitorietà” (Sino poli, “Poetiche”195). Hajdari esprime già con il titolo la portata del suo itinerario esperenziale, oggettivando l’impeto della propria intuizione poetica ed esistenziale nella fisicità concentrata e prorompente del corpo, unica patria rimasta e estremo limite della conoscenza.
Sono campana di
di silenzi e voci
chiuso nei Tempo
e nessun Dio sente i suoni
di acqua e di fuoco
della mia carne
in occidente
ogni primavera che passa
è ferita che si rinnova
Ed io
Scavato da ombre e pietre
trascorro le notti italiane
nel gorgoglio del sangue
Da anni in ansia e paura di morire
Ingannato dalle voci degli oracoli
richiamo i volti conosciuti
che non tornano (e mai torneranno!)
Sterili sono i miei sogni
nei buio della stanza sgombra e
ogni giorno impazzisco un poco.
(corpo presenze 17)
Sacrale cassa di risonanza la voce del poeta è pregna di echi e presenze memoriali salvifiche, familiari. Voce come estremo referente di una soggettività essenzializzata, messaggio di una esperienza vissuta nel segno della sofferenza e accettata in ragione della sua traslazione in paradigma universale. Superstite ed eterno migrante, il poeta vive la sua condizione come necessaria, la sua pratica del dolore come indispensabile alla sua vocazione. Nel testo si trova il rapporto contrastivo, caro a Hajdari, tra un corpo dilavato e scavato dalla temperie, disumano e pietrificato dal passato e il corpo in cui scorre caldo il sangue, acqua e fuoco dell'anima, il tempo della potenzialità. Alla composita stratificazione dell'io poetico fatta di fisicità e memoria, si contrappone una doppia valenza temporale: il tempo sigillato nella dolorosa ricorsività delle notti e delle stagioni d'Occidente è il tempo dell’esistenza mortale. Mentre il Tempo infinito, in cui il poeta riconosce la congiunzione tra umano e ultraumano, è quello dell’immortalità, dell’irrangiungibile felicità. L’aspirazione a trovare un nesso tra l'uomo e gli dèi, e il suo fallimento, emblematizzato nell'indifferenza delle divinità, imprigiona la voce e condanna l'io poetico a una disperante afonia.
All’incipitale parola poetica che è vibrante"campana di mare” si contrappone, nella chiusa sorprendentemente negativa, la constatazione di un male dilagante, di un’angoscia esistenziale acuita dalla sterilità dei desideri e dalla vacuità del reale.
La negati vità non è una compone, integrante dell'intuizione poetica, avverte Hajdari; essa si cela piuttosto nelle pieghe di un presente in cui si è
perduto il senso dell'essere, in cui viene dato sempre meno spazio all'uomo, logorato dal buio di un estenuante conflitto che ha per unico scopo la
sopraffazione. La paura e l'ansia, il riconoscimento della propria fragilità, scaturiscono dal confronto quotidiano con un mondo oggettivo che annichilisce l'individuo, soffocandone la voce e calpestandone il corpo. Solo la parola, che vive nel gesto del poeta, nei suoi sassi tormentati, può resistere e sopravvivere nell'impegno costante della ricerca, che è riconoscere e preservare, dal gelo dell'inverno, ciò che è incorruttibile, immortale:
Tu esisti di fronte all'inverno
come una ferita. Immobile e forestiera
in uno spazio imperfetto, mai ospitale
aspettando che il silenzio uniforme
della sabbia ti parli del segreto. Non ti stordire
dei fumi vaganti e dei nuovi alberi
che prima non c’erano. Dintorno
continuerà la caducità delle cose¬
la scomparsa, dei poeti
che legano il cielo con la terra
E’ detto che moriremo nelle terre opposte¬
I miei anni: fuga nell'ignoto e
risvegli spaventati nelle notti.
(Corpo presente 7 1)
Suono che resiste alla morte, che si insinua e ferisce, abitatrice coraggiosa dell'esistenza, spazio imperfetto, la poesia vive del silenzio, in attesa di una illuminazione. Poesia che Haidari oppone alla caducità delle cose, alla mortalità, carne, anche quella dei poeti; il loro destino di seguire i passi della parola, nei luoghi di confine, nelle terre inospitali, senza infanzia né memoria.
Se la poesia è vita, il poeta non possiede che la sua tragica esistenza di ansie e spaventi la sua quotidiana fragilità. Il verso sciolto, libero, si snoda nelle
immagini familiari dell'universo hajdariano: l'inverno, la sabbia, i fiumi, gli alberi, il cielo, la terra, la notte, senhals dì una natura umanizzata,
nel bene e nel male, referenti nei quali si estrinseca e si perfeziona il senso dell'eterna erranza, destino affine al poeta.
Una rinnovata consapevolezza umana emerge da questi versi, copulata ad una profonda comprensione dell’atto poetico come impegno. etica della
sofferenza, vissuta giorno dopo giorno, con sacrificio.
Sono la verità
di un viaggio e di una linea d'Ombra
custoditi sulla terra viva e chiusa
che vuole nasconderci qualcosa
vivo sospeso
senza appartenere a nessuna dimora
al bivio di un equilibrio
ho camminato con passo lento
fra i morti assetati
per raggiungere l'alba dell'indomani
di incendi e tregue
infinito che mi ospiti
sono stanco del Tempo e del vuoto
cosa è il mio frammento
o il tuo frammento?
La mia angoscia diventa orizzontale
come la mia illusione
sottile diventa anche il muro
che mi difende e mi divide.
(Corpo presente 87)
L'essenza della poesia sta nel suo messaggio di verità e il poeta, che del messaggio è latore, deve divenire esso stesso verità incarnata, la sua presenza richiamo profetico, ammonimento; umanissima e fragile linea d'ombra, il poeta vive la sospensione, l'essere in bilico tra diverse culture, la sua saggezza gli deriva dall'incessante oscillare tra la certezza dell’infinito e la coscienza della propria frammentarietà. Il suo peregrinare doloroso, di morte e memoria, è il suo testamento vivente poiché scavato nella carne. All'umanità ingannata da una realtà mendace, incagliata in un presente distratto e indifferente, il poeta offre il proprio corpo come, ultima ed estrema sapienza.
Nel nuovissimo Stigmate, che aggiunge nuova materia all'esperienza hajdariani, i versi incipitari rafforzano il discorso filosofico, poetico e umano
delle opere precedenti. La perdita delle radici, il viaggio come archetipo dello scavo e della scoperta, l,aspro conflitto tra la propria identità e il nuovo contesto socio-culturale hanno formato il pellegrino, lo hanno educato a un perenne nomadismo. Il nomade, l’esiliato, non posseggono che la propria differenza, la propria umana essenzialità e insieme il coraggio e la dignità del viaggio, del suo continuo moto di trasformazione. Ed è con questa energia. consapevole ma piena di speranza che il poeta offre la sua parola. Lascito superfluo, tesoro inutile, come ricordava Montale, la poesia è la sola ricchezza dell'uomo povero, proiettata oggi nella figura del migrante, apparizione scomoda agli angoli delle strade cittadine.
Distante, sconosciuto ed estraneo, il migrante disvela al mondo occidentale la sua ambigua civiltà, la sua desolazione; come rive Jean Pélégri, egli è
celui dont l,esprit se promène, c’est à dire quelqu'un qui réfléchit, médite, méme si sa réflcxion paraitre curieuse pour les autres. Ce n'est pas un simple d'esprit. C'est plus au moins queìqu'un qui est en rapport avec les réalités que les autres ne voient pas; C’est un peu le voyant de Rimbaud, le medium , celui qui a un contact avec la nature que l’homme ordinairement a perdu, sortoutdans sa civilization industrielle (Le banquet maghrebin 106)
Hajdari, poeta della erranza, della differenza e della sofferenza, porta con sé la verità di un viaggio che è tutta compresa nel cammino
Lascio questi versi come un addio
inghiottito dalla nudità della memoria
sapendo che il mondo non ne ha bisogno
Del mio saluto con la mano che trema
giú nel fondo stellato
nessuno si accorge
Orizzonte precario
mi appoggio alla tua acqua fredda
e scavo la tua fronte di cielo oscuro
abbandonato nella nebbia fitta
non so da dove vengo e dove vado
assedio nevi che mi assediano
la pioggia che cade nella pioggia
e gli Dèi fra gli alberi
in fila accanto al freddo e al destino
attendo che mi chiamino all'alba dalle pietre
volti pallidi di voci arrochite
il mo nome è una linea che divide
la luce dall'oscurità
il mio corpo misura tra la sabbia e il cielo
(Stimmate 21)
Simona Wright in "Annali di italianistica volume 20, 2002"