Ho preferito rivolgere ai due autori, che sono ancora molto amici, le stesse domande per far emergere le differenze e particolarità della loro esperienza. Sembrano ancora in attesa di riprendere a collaborare nella scrittura. E’ sufficiente che qualcuno, qualche casa editrice, commissioni qualcosa o che sia disponibile ad accettare un loro coprodotto perché riprendano penna e mani e producano ancora dei lavori d’assieme.
Siete stati fra i pionieri degli autori della letteratura della migrazione in Italia. Come vedete oggi questo fenomeno letterario? Allora gli scritti da voi prodotti erano definiti “racconti di vita”. Quale considerazione presso la gente, i giornali ha la produzione letteraria degli stranieri in Italia che scrivono in italiano?
Micheletti: Quando intervistatore e intervistato sono amici di vecchia data, l’intervista non può che assumere il tono di una chiacchierata ai limiti del confidenziale, quasi si sia seduti al tavolo di cucina fra una portata e l’altra. Allora con sincerità dirò che da dieci anni a questa parte la mia vita ha imboccato una direzione imprevista e che essendo mio malgrado costretto a rinunciare allo scrivere ho perso per strada la letteratura dei migranti ma anche – per una questione di par condicio – la letteratura degli stanziali. Non voglio parlare di rifiuto della lettura, come quel personaggio di Italo Calvino che si poneva provocatoriamente l’obiettivo di disimparare a leggere, ma se in biblioteca devo scegliere un romanzo da portare a casa lo vado a cercare non fra le nuove accessioni ma fra i volumi dalle pagine ingiallite, a garanzia che non ci siano compromissioni con l’industria culturale di oggidì. Di conseguenza non sono in grado di dare un giudizio sulla produzione attuale degli scrittori stranieri in lingua italiana. Se però mi è concesso allontanarmi un attimo dalla letteratura della migrazione in senso stretto, vorrei sottolineare l’importanza di una recente letteratura “sulla” migrazione a opera di autori italiani che affrontano l’argomento con grande consapevolezza. Penso a Erri De Luca con L’ultimo viaggio di Sindbad e al testo teatraleLa nave fantasma di Renato Sarti sul naufragio della Johan: una vicenda che mi ha molto colpito, tanto che da quando “Il manifesto” ha pubblicato i primi articoli su quel naufragio (era la fine del 1996) li ho tenuti da parte tutti con l’idea che ne potesse “sortire qualcosa”, e sono felice che adesso qualcuno ci sia riuscito. Con Saidou Moussa Ba abbiamo parlato un paio di volte di come si sarebbe potuto dare forma narrativa alla terribile realtà di un mare che inghiotte tante vite umane e tanti sogni (anche a noi era sfiorata l’idea di una specie di Mille e una notte ambientato nella stiva di una carretta del mare...). Ma è rimasta una idea, come dicevo non è stato possibile continuare per quella strada.
Saidou All’inizio c’è stato il boom degli scritti a
quattro mani perché era una novità, c’era un desiderio di voler raccontare
una situazione sommersa. Gli indigeni raccontavano già chi erano gli immigrati.
Era, però, un punto di vista particolare, una specie di monologo. E’
difficile, infatti, raccontare l’altro a partire da come si è fatti. Al di
là dei pregiudizi, dei luoghi comuni, delle stereotipie e del bello
dell’esotismo, questa forma di letteratura nasce proprio per dare una lettura
oggettiva della realtà.
Era anche una letteratura di esperimento. Aveva
un valore politico per affermare il senso di una nuova società composta da
tanti colori ed etnie, che era alla base di un percorso interculturale. C’era
inoltre un interesse da parte dell’industria editoriale italiana. Anche la
stampa dei quotidiani avevano convenienza a dare notizie sugli stranieri.
Dopo tanti anni di cammino sento che c’è stata una strumentalizzazione, ci sono stati elementi negativi e positivi. La letteratura della migrazione ha permesso il dialogo e ha anche messo in moto tante idee importanti e significative. Esiste quindi un valore simbolico e importante, che mette in secondo piano l’elemento strumentale. Oggi c’è di nuovo un silenzio sulla letteratura della migrazione. E’ difficile che oggi si trovino notizie. C’è quasi un ritorno al sommerso.
Maggior attenzione si ha da parte delle piccole case editrici. Esse compiono un percorso non solo di scoperta, ma di valorizzazione.
La vostra produzione era rivolta essenzialmente agli alunni delle scuole. E’ stata una scelta fatta ad opera conclusa, oppure avevate subito chiaro chi dovesse essere il vostro interlocutore?
Micheletti: I due romanzi sono stati ideati per i ragazzi delle scuole e si può dire che ogni frase sia stata pensata, scritta e calibrata in vista di questa destinazione. Quando ho conosciuto Saidou, io e mia moglie Patrizia Restiotto (che ha lavorato con noi alla stesura di entrambi i testi, oltre a curare gli apparati didattici) lavoravamo da più di dieci anni come collaboratori editoriali nel campo della scolastica: siamo stati fra i primi cococò italiani, i nonni di San Precario. Insomma conoscevamo tutti i meccanismi della narrativa scolastica, tutte le regole da rispettare e i trucchi per aggirarle. Il risultato sono stati due romanzi in apparenza conformi ai requisiti del genere, in realtà profondamente innovativi. Questo al tempo stesso ha determinato rapporti tempestosi con gli editori e grande apprezzamento da parte degli insegnanti che sono (erano?) molto più pronti alle novità di quanto gli editori stessi immaginassero.
Saidou. Io lavoravo già per le scuole e mi mancava uno strumento attraverso cui stabilire un dialogo a distanza e continuo. L’esperienza fatta nelle scuole conferma il senso politico dell’operazione attuata. San Precario e l’emarginato, che vendeva nelle metropolitane, si sono incontrati e hanno capito che la scuola era come un luogo sacro ove portare questa esperienza. La risposta è stata positiva; sono ormai 15 anni da quando il libro è stato pubblicato ed ancora oggi sempre più nuove scuole mi chiamano per presentare, illustrare, fare educazione interculturale mediante questo testo.
E’ superfluo chiedervi quale fosse la vostra metodologia di lavoro, ma forse è importante sapere se avete avuto l’impressione, nel mentre confezionavate gli scritti, di fare veramente una operazione di commistione di diverse culture e se sentivate di tanto in tanto la loro diversità e quindi la difficoltà di amalgamarle.
Micheletti: Non vorrei sembrare riduttivo, ma per tutto il tempo che Saidou Moussa Ba e P.A. Micheletti (sveliamo il segreto del frontespizio: P. A. sono le iniziali di Patrizia e Alessandro anche se qualche volta sui giornali mi sono trovato ribattezzato Pier Aldo, Paolo Antonio o nomi più fantasiosi) hanno lavorato assieme, nessuno ha scomodato concetti impegnativi quali la mediazione interculturale, la commistione e l’amalgama. Tutto si è svolto all’insegna della più grande immediatezza, come se fosse la cosa più naturale del mondo, e in effetti lo era. A nostro favore ha giocato anche il fatto che nel 1989, ai tempi della Promessa di Hamadi, ci conoscevamo appena, si può dire anzi che attraverso la Promessa di Hamadi ci siamo conosciuti: una bella esperienza condotta alle spalle dei futuri lettori. Questo ha determinato fra noi un clima di grande rispetto, una certa cautela, una costante attenzione a non rifiutare quello che veniva dall’altro. Ogni suggerimento che giungesse da una parte o dall’altra ha trovato prima o poi spazio nel libro. Se mai qualcuno muoveva un’obiezione su un aggettivo, su una frase o su un episodio, l’obiezione era accolta, si cercava subito una soluzione soddisfacente per tutti. Vuoi definirla una esperienza di scambio culturale? Io preferisco chiamarla simpatia istintiva e fiducia reciproca.
Saidou. Per me è stata un’esperienza molto positiva, è stato un percorso formativo. Abbiamo capito che il lavoro era possibile come anche il confronto perché c’era una capacità di ascoltarsi reciprocamente. La stesura del libro è diventato lo strumento per capire chi fosse Micheletti. Siamo stati due “altri” che si sono incontrati e che hanno insieme avviato un percorso che ha fatto coagulare esperienze e culture diverse, in un cammino di reciproca scoperta. Questa esperienza è ancora viva. Dal punto di vista umano Alessandro è uno dei miei migliori amici. Il libro è stato il simbolo di una conoscenza reciproca.
Quale aspetto della cultura dell’altro avete accettato con più facilità, quale con maggior difficoltà.
Micheletti: Ti ringrazio di questa intervista, Raffaele, perché mi permette di riflettere su cose che ormai mi sembrano ovvie. Sì, c’è un aspetto del bagaglio culturale di Saidou che non solo è stato facile accettare, ma che mi ha subito conquistato: il suo sentimento religioso, profondo, autentico, interiore, non invadente, lontano da ogni ombra di fondamentalismo. L’idea che ho dell’Islam l’ho costruita sul modello di Saidou e ancora oggi ritengo che l’Islam sia la religione che professa lui, non quella di cui scrivono gli opinionisti sui quotidiani. Elementi di difficoltà? Se proprio ne devo stanare uno, direi un eccesso di riserbo da parte sua, ma lo metterei nel conto delle difficoltà contingenti o soggettive, non in quelle di ordine culturale. Comunque mantenere un margine di riserbo nei rapporti interculturali mi pare salutare.
Saidou. Io ero in Italia da appena tre anni, e Alessandro era una persona molto aperta e disponibile. E’ stato molto facile intendersi con lui perché si metteva molto in gioco. Mi ha permesso comunque di acquisire certezze e superare i dubbi che avevo, perché era molto sincero e comunicava questa sua sincerità. Un’altra caratteristica di Micheletti, e della sua famiglia, era la modestia. Io ero in una situazione di conflitto e scontro tra culture e con lui ho scoperto il valore del confronto.
Sia nel primo che nel secondo romanzo è centrale la denuncia del razzismo. A circa 10 anni di distanza dalla pubblicazione del vostro secondo libro, a vostro parere, la situazione sul razzismo in Italia è mutata? Nella società italiana c’è la percezione di maggiore (in)tolleranza oppure la situazione è simile a quella di 10 anni fa?
Micheletti: Nella postfazione alla Memoria di A. ci auguravamo che sul fronte razzismo le cose migliorassero e che si arrivasse in breve a leggere il libro come il reperto di un’epoca superata. In realtà a dieci anni di distanza succede proprio il contrario, i due romanzi sono purtroppo sempre attuali, mentre aumenta l’intolleranza verso gli stranieri. Si tratta, a mio parere, di una intolleranza costruita ad arte da quelli che già nel 1990 Laura Balbo e Luigi Manconi chiamavano “imprenditori di razzismo”, e che da allora hanno lavorato sodo. Di questa schiera fanno parte oggi anche tutti gli operatori della comunicazione che agitano lo spettro del terrorismo per abituare l’opinione pubblica ad atteggiamenti ostili nei confronti di chi viene a cercare un futuro nel nostro paese. Queste persone svolgono il lavoro per cui vengono pagate e, per quanto sporco sia quel lavoro, per me non rappresentano un problema. A preoccuparmi è piuttosto l’opinione pubblica che assorbe come una spugna, quasi con avidità, i messaggi che i media propinano.
Saidou. Si possono distinguere due aspetti. Un primo dal punto di vista istituzionale che crea razzismo, grazie a delle leggi, come la Bossi Fini che alimenta un disagio profondo e ostacola ogni forma di inserimento dello straniero con la negazione dell’uomo in sé. Questa legge infatti vede nel contratto del lavoro il valore dell’uomo lavoro; è una legge in cui si prevede la costruzione dei centri dove gli immigrati vengono depositati come merce da espellere o da umiliare. Queste cose creano razzismo, sono la madre del razzismo. La stampa, i mass-media in generale tendono a presentare questa equazione molto facilmente: mussulmano = terrorista, oppure immigrato = criminale. Ciò ha la funzione di risolvere il problema dell’insicurezza, che è, invece, connesso al sistema politico-economico e culturale che crea malessere e profondo disagio. Lo scopo è quello di mascherare l’interesse del potere. L’italiano in sé, senza queste influenze è maturato moltissimo, perché è passato da una non conoscenza a una maggiore consapevolezza. I ricordi della esperienza migratoria italiana vengono recuperati per una più significativa comprensione del fenomeno migratorio.
E’ necessario ancora intervenire nelle scuole. Qual è il vissuto dei ragazzi, dei giovani, sugli stranieri?
Micheletti: la parola a Saidou
Saidou. Intervenire nelle scuole è diventato per me un lavoro. Ogni giorno di più mi accorgo che i ragazzi hanno bisogno di ascoltare, hanno tanta voglia di raccontare e di essere ascoltati perché questa società dà poco spazio all’ascolto. Ogni volta che vado nelle scuole vedo gli sguardi illuminarsi perché qualcuno ha saputo parlar loro con sincerità. Oggi il cittadino globale parla da solo, sembra quasi un folle perché si mette da solo davanti ai P.C. alle play station, rinchiudendosi, ma nel suo immaginario si sente e si vede il desiderio di comunicare, di superare le barriere e i muri che la vita di oggi pone. L’antirazzismo è una maturazione individuale che passa dal riconoscimento di sé e dall’accettarsi al di là dei pregi e difetti. L’antirazzismo è un coltivare una visione critica dei modelli che impediscono il dialogo reale in questi ragazzi abituati a un ascolto selettivo, con l’incapacità di ascoltare dall’inizio alla fine. Si genera così un blocco culturale. Perciò si ringraziano le persone che li aiutano a superare questi ostacoli e apprezzano la relatività del pensiero e la soggettività dei punti di vista in modo da sviluppare in loro un percorso di autocrescita che li libera. La diffidenza nei confronti degli stranieri viene meno perché si comprende che lo straniero fa parte della normalità.
Avete progetti per il futuro? Ancora lavoro insieme o separatamente?
Micheletti: Con Saidou Moussa Ba abbiamo molti progetti per il futuro, tutti i progetti che ci consente la nostra vita di adesso: da parte mia, telefonargli almeno una volta ogni due settimane, invitarlo a cena almeno una volta al mese, ricordarci di fargli gli auguri per il Ramadan come lui si ricorda di farceli per Natale, starlo ad ascoltare quando lui ci parla dei suoi problemi così come lui sta ad ascoltare i nostri... Ti sembrano progetti meno importanti che scrivere un libro assieme?
Saidou. Lasciamo al “destino” la responsabilità di un lavoro da attuarsi con Alessandro
E’ possibile ancora produrre a quattro mani? Dopo l’esperienza Blisset non c’è da porsi la domanda se non valga la pena riprendere l’esperienza a quattro mani, a sei a otto mani... per una forse più autentica combinazione delle culture?
Micheletti: Il problema di quante mani utilizzano gli scrittori per scrivere è annoso e delicato, bisognerebbe anzitutto stabilire se ricorrono alla penna o al computer, quindi se due scrittori ne usano complessivamente due, tre o quattro... Scherzi a parte, io la penso così: conclusa l’epoca eroica della letteratura della migrazione “degli albori”, è giusto che gli stranieri che vivono in Italia, se avvertono l’esigenza di oggettivare in uno scritto il loro mondo interiore lo facciano in piena libertà e autonomamente, dando prova della padronanza della lingua che hanno acquisito, senza ingerenze o filtri che non siano quelli di una normale revisione redazionale. Immettere nel panorama editoriale attuale un buon testo scritto da un immigrato ha sempre un positivo valore di “autentica combinazione delle culture” come dici tu: tanto più se l’ha scritto da solo.
Io vorrei però slegare il discorso dello “scrivere con” dal discorso interculturale. Prima dei lavori con Saidou avevo già scritto testi di narrativa con Patrizia Restiotto. Dopo l’esperienza con Saidou ho ultimato un altro testo di narrativa, per la precisione una libera riscrittura del Melville polinesiano e terzomondista di Taipi e Omoo. Colloco anche questa operazione nel campo dello “scrivere con” anche se in senso lato, avendo a che fare con un illustre coautore ottocentesco. La morale per me è questa: se potessi scrivere altri venti libri, li scriverei volentieri tutti e venti assieme a qualcun altro. Scrivere in compagnia, in tutte le forme, in tutti gli ambiti in cui è possibile, risveglia energie incredibili, ha più senso, dà più soddisfazione e offre risultati migliori dello scrivere nel chiuso del proprio studio. E’ una esperienza che consiglio vivamente a tutti.
Saidou. Scrivere insieme è un valore positivo perché può aiutare ad alzare il livello culturale, perché si scoprono vari punti di vista, perché si ha un confronto, un dialogo. Può essere un fatto molto utile.