Il libro è apparso all'inizio degli anni '90. Sebbene l'Italia si avviasse a diventare un paese di forte immigrazione e il fenomeno era ormai percepibile a livello visivo, tuttavia non aveva assunto le dimensioni e le caratteristiche dei nostri giorni. Ci si interrogava in quel momento sul come gli italiani stavano reagendo a questa totale novità per loro. Quegli stessi italiani che fino a qualche anno prima erano stati degli emigrati. Avevano essi fatto tesoro dell'esperienza dell'emigrazione oppure si sarebbero comportati come tutti i cittadini di tutti gli altri paesi dell'Europa che rimanevano tolleranti fino a che gli stranieri servivano e poi passavano a forme repressive?
Non era facile rispondere. Le manifestazioni erano visibili solo ai più attenti. La maggior parte continuava ad credere nel buonismo, nella mancanza di germi razzistici in Italia, quell'Italia che si era distinta e aveva creato la sua Repubblica sulla Resistenza.
Quando il libro, poi, è stato scritto non sembrava che gli immigrati e gli italiani potessero avere una progettazione comune sul futuro. Le due comunità sembravano separate e distanti con pregiudizi, difficili da superare. Né pareva che fosse possibile e necessario avviare una progettazione comune. Solo i più avvertiti affermavano che l'immigrazione in Italia era un fatto strutturale e non episodico e legato al momento.
Il messaggio che si voleva invece dare con la stesura del testo era l'invito ad una collaborazione reciproca, ad un impegno comune per superare le diffidenze che stavano emergendo. Il libro assunse quindi una forte valenza politica.
L'altro aspetto che vorrei sottolineare è la collaborazione con un italiano nella stesura del libro.
Scrivere un libro con un italiano è stato per me un percorso formativo, e mi auguro anche per l'altro. Mi ha permesso di avviare nei fatti, nella ricerca un cammino interculturale, mi ha permesso di viaggiare dentro di me e cogliere i valori culturali presenti nell'altro e nella cultura ospitante che in quel momento era visivamente e concretamente rappresentata dal collaboratore italiano.
Certamente in quegli anni parecchi di noi hanno sentito l'esigenza di avviare una comunicazione con la società ospitante attraverso la scrittura, aiutati da italiani. Forse si poteva raggiungere, prima di pronunciarci, una padronanza linguistica più sicura, ma l'esigenza della necessità di farci conoscere, di interrogare e interrogarci è stata superiore ad ogni prudenza di attesa. Penso che sia stato molto utile questo percorso, perchè specialmente nelle scuole si è venuti a conoscenza dell'altra cultura attraverso la testimonianza diretta fatta da stranieri e non solo con l'uso di fonti provenienti da paesi d'origine ma che poco potevano dire dei cambiamenti che ciascuno di noi stava facendo.
E' inoltre da sottolineare la difficoltà incontrata per arrivare alla pubblicazione del prodotto letterario espresso. Le case editrici non erano disponibili a pubblicare e superare i loro pregiudizi. Alcune di loro affermavano che parlare di razzismo in quel momento fosse prematuro o esagerato perchè gli italiani non lo erano. La realtà invece diceva tutt'altra cosa perchè molto spesso venivano fuori manifestazioni razzistiche nella vita quotidiana della gente, ma anche i giornali fomentavano un discorso razzistico. Gli stessi libri di testo presenti nelle scuole, i films corroboravano questa idea.
Le domande degli italiani negli incontri che facevo quando vendevo sotto la metropolitana e lungo le spiagge della zona di Pescara, denotavano che non c'era una conoscenza chiara dello straniero, visto essenzialmente come un incapace di parlare e di esprimere elementi culturali validi.
Per me la promessa di Hamadi ha avuto un significato particolare: conquistare il diritto alla parola negata, dare l'informazione, contribuire, come dice il protagonista Samba, a costruire una società più umana, più tollerante.