Le testimonianze dei superstiti del genocidio del 1994 sono molto rare e quella di Vénuste Kayimahe è tanto più significativa quanto fu strategica la posizione occupata in seno alla propria società dal giovane ruandese durante un quarto di secolo. Posizione strategica certo ma senza incarichi ne autorità conferitigli ufficialmente: "Sono solo un semplice testimone della Storia... Questa è una storia, la mia storia. Ne esistono 200 000, 300 000 altre". Responsabile delle proiezioni cinematografiche e tecnico presso il 'Centre d'échanges culturels franco-rwandais (CECFR)' di Kigali per vent'anni, egli ha potuto conoscere dall'interno la meccanica dell'amministrazione francese in Ruanda. È stato a contatto con ambasciatori, direttori del Centro e a volte anche con militari. Nondimeno, Vénuste Kayimahe, rifugiato, nei locali del CECFR con la moglie e due dei cinque figli nel momento più cruento del genocidio iniziato il 6 aprile del 1994, sarà abbandonato alla sua sorte, contro il parere dell'allora direttrice, dai militari mandati da Parigi per rimpatriare gli europei e gli esponenti del regime genocidario di Juvenal Habyarimana. Lui che già stava piangendo la figlia maggiore, Aimée, morta assassinata, e quella della quasi totalità dei tutsi del paese, non ce la fa a trattenere la rabbia. In seguito, alcuni soldati belgi faranno evacuare la famiglia verso Nairobi.
Kayimahe ci racconta, con la paura e la rabbia nel cuore, i suoi cento giorni apocalittici, la fuga, il ritorno. Una testimonianza unica e preziosa per riattivare la nostra memoria disarmata.