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La deriva della memoria. Intervista a Tierno Monenembo

Intervista con Tierno Monenembo

Bologna, 20 aprile 2005

Alessandro Corio

Alessandro Corio : Signor Monenembo, vorrei cominciare quest'intervista affrontando il tema del Rwanda. Stiamo preparando un dossier sugli scrittori che hanno partecipato al progetto "Écrire par dévoir de mémoire" ed ho appena incontrato lo scrittore senegalese Boubacar Boris Diop. Può raccontarci la sua esperienza in Rwanda e come vi siete avvicinati all'indicibilità e all'orrore di ciò che è accaduto?Lei e Boris Diop avete scelto delle strategie narrative differenti: lui ha adontato il genocidio in un modo orse più diretto e più crudo ... ho atto davvero fatica a leggere certe pagine; al contrario, lei ha scritto più "attorno" che "sul" genocidio e ha utilizzato, in maniera sobria ed efficace, la sua padronanza delle tecniche letterarie e dello stile per indagare la "banalità del male" e le sue orribili conseguenze sull'anima umana. Può spiegarci come ha lavorato a questo romanzo e le motivazioni delle sue scelte narrative e stilistiche?Qualcuno ha affermato che non si può fare un esercizio di stile parlando del Rwanda; sono d'accordo, ma è anche vero che non è possibile produrre una mera "testimonianza oggettiva". Cosa ne pensa? Qual è il ruolo della letteratura di fronte all'orrore dell'umanità?

Tierno Monenembo: Cominciamo dal mio approccio personale al genocidio. E' evidente che gli approcci non potevano che essere molto differenti; siamo degli scrittori ed ognuno ha i suoi occhi e le sue orecchie, quindi non prendiamo le cose alla stessa maniera. Ad un primo livello sta la particolarità della percezione. Il progetto era comune perché esiste sempre di più, tra gli scrittori africani, un senso di colpa di fronte alle catastrofi che hanno luogo in Africa. Ci sentiamo impotenti, resi fragili e minacciati dai regimi che hanno preso il potere all'interno dei nostri paesi, ma abbiamo comunque deciso che è necessario testimoniare con i mezzi della rappresentazione letteraria. Abbiamo preso la decisione di lasciare ad ogni scrittore la libertà totale di scegliere la propria opera e il proprio stile. Ognuno doveva scrivere il suo proprio libro. Soprattutto nessun'opera collettiva. Chi voleva poteva scrivere una raccolta di poesie, chi una pièce di teatro, chi un romanzo. Siamo andati insieme, abbiamo visitato insieme la maggior parte dei siti del genocidio, ma il lavoro successivo è stato un lavoro di scrittori, dunque un lavoro individuale. Ognuno si è ritrovato da solo di fronte al dramma rwandese. Quindi, è normale che io non abbia scritto lo stesso libro di Boris Diop, non abbiamo mai scritto lo stesso libro. Dopo aver visitato questi siti, mi sono ritrovato davvero in un senso di impotenza, voglio dire che questo non mi ha ispirato per niente, mi ha veramente tolto l'appetito, tanto quello reale che quello letterario, cioè la voglia di parlarne. Sono stato là due volte, al posto di due mesi, sono stato là due volte per un mese. Sono ritornato una seconda volta dicendomi: "Bene, al limite scriverò una semplice novella", perché, come ho già detto, il linguaggio mi si era prosciugato. Ma davvero, tutto ciò non mi ispirava. Proprio prima di partire ho incontrato questo bambino di fronte alla chiesa di Nyamata; stava delirando. Mi hanno raccontato la sua storia: aveva perso i suoi genitori in quella chiesa. Sono ritornato in Rwanda per incontrare questo bambino e orse per parlare con lui, per vedere se potevo utilizzare la sua testimonianza per scrivere qualcosa. Comunque, la prima volta avevo preso la precauzione di non prendere degli appunti e di non registrare. Ho voluto semplicemente caricarmi al massimo di emozioni, per poi creare un romanzo a partire da quelle mie emozioni. Quindi sono ritornato in Rwanda, ma non ho più incontrato quel bambino, non sapevo assolutamente che cos'era diventato, e questa è stata una grande fortuna per me. Alla fine, grazie a lui ho trovato quella distanza che volevo in rapporto al genocidio e allo stesso Rwanda. Quel bambino è stato per me semplicemente un modello. Lo ho ricostruito, gli ho dato vita, cosa che rende il mio libro una "fiction". La realtà è il Rwanda; la realtà è il genocidio. Tutto il resto è invenzione, ad eccezione di tre punti: il fatto che Faustin ha visto massacrare i suoi genitori nella chiesa; il fatto che quest'italiana è vissuta, è esistita ed è stata uccisa e sepolta nella chiesa di Nyamata; anche l'episodio di Padre Manolo, il fatto che sia morto di fronte al Papa è vero. Tutto il resto è invenzione. Preferisco questa scelta perché mi sento più a mio agio nella finzione piuttosto che, per esempio, nella testimonianza giornalistica. Non sono molto fedele in materia di ricostruzione. Non vedo mai le cose due volte nello stesso modo. Ecco quindi come si è svolto ciò che mi riguarda. Allora mi sono detto effettivamente che raccontare il genocidio, la fisiologia stessa del genocidio non aveva interesse in quanto tale perché penso che la violenza del genocidio sia molto meno, come dire ... nella forza di chi impugna i machete piuttosto che nelle conseguenze stesse del genocidio; è nella coscienza della rottura della coscienza umana, nel crollo della memoria che ho visto veramente la violenza del genocidio. Dunque, il romanzo ruota attorno a questo bambino, il personaggio principale, del quale ho descritto la vita dopo il genocidio. Sapete, quando un romanziere affronta un soggetto, ha la tendenza a generalizzare, ad entrare nell'universale. Ciò che mi interessa veramente è il cedimento della memoria collettiva dopo il genocidio. Tanto nel caso degli ebrei, nel Rwanda, nel genocidio degli indiani d'America o dei neri durante la schiavitù, questo corrisponde per me ad un abisso nella coscienza umana. Parlando del genocidio del Rwanda, piuttosto attorno che sul genocidio, come avete detto, la questione che pongo è la questione della coscienza umana, la questione della responsabilità umana, la questione della morale umana. E' la morale umana e la coscienza umana che metto sotto accusa. Questo bambino ha ucciso un uomo ed è condannato a morte per questo. Gli altri hanno ucciso un milione di persone, ma in fin dei conti non sono degli assassini. L'assassino è colui che ha ucciso un uomo. E' per questo che ho citato quella terribile frase di Edmond Rostand: "Se uccidi un uomo, sei un assassino. Se ne uccidi migliaia, sei un conquistatore. Se li uccidi tutti, sei un dio!". Faustin è un assassino; i genocidiari sono degli dei. Dunque, questo bambino attende la sua esecuzione quando ha ucciso per una questione d'onore, per salvare l'onore della famiglia, ha ucciso qualcuno che ha stuprato sua sorella. Ma che cos'è l'onore, questo valore umano, in mezzo al genocidio? Che cos'è l'onore in un paese dove hanno ucciso senza motivo quasi un milione di persone?

A.C. : E' paradossale, così come la reazione del nuovo governo dopo il genocidio: migliaia di persone sono rinchiuse nelle prigioni, anche se non si conosce chi ha ucciso e quante persone, chi non ha ucciso, chi è solo una vittima e chi invece ha partecipato attivamente al genocidio e a quale livello. Lei sa, dopo dieci anni, se qualcosa è davvero cambiato in Rwanda?

T. Monenembo : Cercano di fare ciò che possono. Come ha detto il presidente, non si possono obbligare gli Hutu e i Tutsi ad amarsi, ma possiamo impedire che si uccidano. Cosa che è possibile, anche se molto difficile, perché i carnefici e le vittime sono là, si conoscono molto bene, vivono uno affianco all'altro.

A.C. : Lei pensa che la letteratura possa svolgere un ruolo di de-costruzione di quelle categorie identitarie forti, come Hutu e Tutsi, che sono un prodotto dell'ideologia coloniale e che sono alla base del genocidio?

T. Monenembo : Sicuramente. Queste categorie identitarie forti non sono che delle ideologie, non corrispondono alla realtà storica. Nessuna etnia africana è chiusa, nessuna etnia africana è un bastione. Le etnie africane sono dei "momenti identitari", sono delle fasi, ma il movimento identitario è lo stesso. Noi abbiamo la stessa identità. Rispetto ad un senegalese, ad esempio, abbiamo la stessa lingua, la stessa origine.

A.C. : In effetti, per gli Hutu e i Tutsi non si può nemmeno parlare di una distinzione etnica.

T. Monenembo : Il Rwanda è una nazione da più di sette secoli, costituiscono un medesimo stato. E' vero che c'è stata probabilmente un'invasione da parte dei pastori Tutsi, ma c'è stata anche un'invasione degli Hutu; anche loro sono arrivati in Rwnda dove, in precedenza, c'erano i Pigmei, i Twa, che oggi sono una minoranza. Nella società tradizionale i Pigmei erano dei cacciatori, gli Hutu degli agricoltori e i Tutsi dei pastori, che sono giunti con le loro greggi in mezzo a popoli sedentari. Questa è una dinamica storica di cambiamento che ha caratterizzato molti popoli e la formazione delle società nel mondo; anche in Europa, questo è successo molte volte. Tutte le nazioni europee sono state caratterizzate da delle invasioni, ma sarebbe come se oggi, in Francia, si manifestasse un risorgere delle guerre tra i Galli e i Romani! E' esattamente la stessa cosa. Se la società tradizionale in Rwanda era strutturata su questo sistema gerarchico, è anche vero che la società si è molto mescolata durante i secoli. Hanno avuto luogo molti matrimoni misti ed oggi è davvero difficile distinguere tra Hutu, Tutsi e Twa. Gli stessi Belgi, quando hanno creato il sistema delle carte di identità etniche, erano talmente in difficoltà che ad un certo punto hanno fatto una legge dicendo che chi possedeva più di dieci vacche era Tutsi, chi meno di dieci era Hutu. E' più una questione di stato sociale che di razza o di etnia, la quale è esattamente la stessa: parlano la stessa lingua, il kinyarwanda, adorano lo stesso dio, Imana, hanno le stesse abitudini alimentari, dopo la colonizzazione sono diventati tutti cattolici. Non vi sono stati nemmeno dei conflitti religiosi, non vi sono regioni, villaggi né quartieri Hutu o Tutsi ... è una nazione nel vero senso del termine. La manipolazione ideologica coloniale prima dei tedeschi e poi dei belgi ha creato la dinastia Tutsi per governare meglio indirettamente il paese. Il re veniva scelto nel corso di cerimonie secondo il valore dell'individuo del momento, esattamente come il Duda in Tibet, l'uomo più valido del momento, in base alla ricchezza, alla cultura, alla padronanza delle formule esoteriche ecc. In più, tra i duecento re del Rwanda, ci sono stati quaranta re Hutu. La dinastia è stata creata dalla colonizzazione; era uno strumento dei colonizzatori per meglio governare attraverso degli intermediari, in questo caso i Tutsi. Quindi, i belgi hanno accentuato le differenze tra Hutu e Tutsi, servendosi di questi ultimi come di un'élite, la classe dominante. Ma evidentemente, come in tutte le società, sono le categorie più emancipate che rivendicano la liberazione nazionale e l'indipendenza, come tra i Galli erano gli ufficiali dell'esercito romano che hanno cominciato a rivendicare l'autonomia allontanandosi dal potere di Roma. Sono gli "evoluti", i più vicini ai colonizzatori che rivendicano l'indipendenza. Dunque, i Tutsi hanno cominciato a rivendicare l'indipendenza nazionale e, di conseguenza, i belgi si sono rivolti agli Hutu dicendo: "Vedete? Quelli vogliono dominarvi!". Allora, nel 1959, è cominciato il genocidio dei Tutsi, realizzato dagli Hutu appoggiati dal governo coloniale. Ha avuto inizio così l'esilio dei Tutsi verso il Burundi, lo Zaire di Mobutu e l'Uganda dove, durante quegli anni, molti di loro hanno creato il Fronte Patriottico Rwandese che, nel 1990, ha cominciato una guerra contro Habyarimana. Quest'ultimo diceva: "Se rientrate vi uccideremo tutti!". Ecco come è successo e la storia mostra chiaramente che si è trattato di una manipolazione ideologica. Giustamente, le costruzioni ideologiche possono essere demolite dalla narrazione letteraria. In tutti i paesi del mondo le dittature sono create dai discorsi ideologici, dalla parola che si riversa dalla bocca dei dittatori. I dittatori sono sempre dei grandi oratori ed una dittatura corrisponde anche alla confisca della parola; ma quella stessa parola che definisce, che identifica, che taglia ... può anche smontare il discorso ufficiale e le categorie identitarie ufficiali ed artificiali al tempo stesso, allo stesso modo in cui si possono smontarne le cause politiche, che sono le dittature. Alla fine, in un contesto democratico, l'identità non è ideologica, non è una struttura rigida, ma è molto più flessibile e così anche il conflitto identitario si affievolisce. Prendete il caso del Senegal. Più o meno adesso vige una democrazia che permette degli spazi di libertà dove ogni individuo può manifestare la propria cultura e le proprie idee politiche. Allora è soprattutto nelle dittature che si vedono apparire dei conflitti identitari, etnici o religiosi. Prendete il caso dell'Algeria o della Costa d'Avorio.

A.C. : Lei crede quindi che la qualità dell'ambiguità che caratterizza il testo letterario possa riuscire a decostruire una parola che è troppo forte, intellettualizzata e settorializzata?

T.Monenembo : E' vero che l'ideologia è fondata su un discorso semplicista, che è lo slogan. Lo slogan è altrettanto mortale della ghigliottina, è distruttore. Il romanzo giustamente non è lo slogan. Il discorso romanzesco è un discorso fortemente flessibile. E' un discorso dove non c'è una verità definitiva, anche nella nozione di identità. Nel romanzo tutto viene interrogato, il cuore del romanzo è l'interrogazione. Il romanziere pone continuamente delle domande, il conquistatore ed il dittatore danno in continuazione delle risposte. La letteratura, come ha affermato qualcuno, è la domanda meno la risposta. Le domande devono essere moltiplicate e sfortunatamente non si fanno domande a sufficienza sulle dittature. I romanzieri sono tutti dei rompiscatole, fanno domande su tutto! Si interrogano su tutto: sulla storia, sulla coscienza umana, sulla religione. Come i bambini, che passano il tempo a fare delle domande che sono delle vere domande. E' esattamente la stessa cosa: ci sono sempre troppe risposte e mai abbastanza domande. E la letteratura, lo abbiamo visto in America Latina, ha la possibilità di tracciare un vero cammino democratico. E' il delirio letterario. Hanno ben compreso che al delirio verbale dei dittatori bisognava opporre un delirio letterario. E questo ha funzionato, come nel caso di Garcia Marquez. Lo hanno fatto apposta per non lasciare il monopolio del delirio ai dittatori. Bisogna delirare allo stesso modo e delirare su di loro! Mostrare che la qualità del delirio di un dittatore è molto più povera e pericolosa rispetto al delirio letterario che è, al contrario, arricchente.

A.C. : Diciamo che questa caratteristica del "delirio verbale" che cerca di rompere il discorso dominante appartiene alla maggior parte della letteratura post-coloniale, dall'India di Salman Rushdie, all'Africa di Sony Labou-Tansi, al Sud-America di Marquez.
In L'Aîné des orphelins lei ha scelto il punto di vista di un bambino. E' una scelta che non è nuova nella letteratura africana, soprattutto negli ultimi anni. Pensiamo subito all'ultimo romanzo di Ahmadou Kourouma, Allah n'est pas obligé, dove è sempre un bambino che è diventato adulto troppo in fretta che ci mostra più chiaramente la follia nella quale siamo caduti. Sono sempre i bambini le vere vittime, perché sono loro a dover portare sulle spalle il peso dell'orrore. Quali sono le motivazioni della vostra scelta di questo punto di vista narrativo? In quale modo ha influenzato la struttura del romanzo?

T. Monenembo : Penso che il bambino sia più espressivo dell'adulto. Gli si possono far dire molte cose; la più piccola parola nella bocca di un bambino ha una risonanza straordinaria. Dunque, penso che sia un eccellente strumento, se volete, per esprimere il dolore e delle cose insopportabili come una dittatura, i conflitti o il genocidio. Tanto più che sappiamo bene che, nella realtà, i bambini sono gli attori principali della tragedia delle guerre tribali, delle guerre di religione, del traffico di droga e di armi. I bambini-soldato non sono solo nei romanzi, purtroppo sono anche nella realtà. Per quel che riguarda il mio caso e quello di Ahmadou Kourouma, non ci siamo messi d'accordo. Io ho scritto il mio romanzo nel marzo del 2000 e quello di Kourouma è uscito nel settembre del 2000. Dunque, credo che ciascuno abbia constatato quanto il bambino sia costantemente presente in quel genere di conflitto e quanto egli sia comunque uno straordinario vettore di parola. Una semplice lacrima sulla guancia di un bambino dice veramente molte cose e penso che il bambino faccia percepire meglio un certo numero di cose. Se avessi utilizzato il personaggio di un adulto per parlare del genocidio avrei dovuto spiegare troppo a lungo le circostanze e, mentre ci vorrebbero quindici venti parole per esprimere il dolore di un adulto, ne basterebbe una sola per esprimerlo nel bambino.

A.C. : Questa scelta del punto di vista di un bambino è legata anche alla de-strutturazione della linearità narrativa che lei ha utilizzato nel romanzo, i continui salti temporali dal presente al passato ecc.?

T. Monenembo : Sì, certamente, perché la memoria non è ancora definitivamente costruita nel bambino ed in questo caso ci troviamo di fronte ad una memoria "abortita" in qualche modo, perché prima ancora di essere stata costruita, è stata demolita dall'avvenimento del genocidio, il che la rende una caratteristica "naif"; l'essere "naif" significa essere permeabile, aperto alle cose e questo è più facile per un bambino rispetto ad un adulto. Voglio dire che, se si trattasse di un adulto, si direbbe : "Allora è un idiota quello che parla!", mentre non lo si direbbe di un bambino, perché non rientra necessariamente nell'ordine logico delle cose. Può così esprimersi in modo naif, passando da un punto all'altro, passando, per così dire, "di palo in frasca". Non è sorprendente in un bambino, mentre in un adulto lo si prenderebbe per un pazzo. Ma l'idiota o il bambino, come ne L'urlo e il furore, anche se la sua narrazione non è coerente, la si può accettare e può mostrarci le cose in un modo molto più diretto ed efficace.

A.C. : Il tema della memoria è al centro della sua produzione letteraria ed essa è quasi sempre legata al tema dell'erranza, dell'esilio e della ricerca. La perdita della memoria, la rimozione dell'avvenimento tragico della morte dei suoi genitori nella chiesa di Nyamata da parte del piccolo Faustin Nsenghimana è al centro del racconto e alla radice del suo atteggiamento nei confronti dell'esistenza. Non è più capace di amare e nemmeno di essere amato. La violenza e l'odio sono penetrati in lui. E' quindi una "perdita collettiva della memoria" che è alle radici della violenza di oggi? La letteratura può davvero aiutare a ritrovare questa memoria o piuttosto a riscriverla? Dopo la violenza del colonialismo, dopo la disillusione delle indipendenze e la violenza delle dittature, qual è il destino dell'Africa?

T. Monenembo : Per me la perdita della memoria o, più esattamente, la confisca della memoria in Africa è al centro delle sue tragedie. Il problema dell'Africa è che le sono state confiscate la sua geografia e la sua storia. La suddivisione territoriale è stata organizzata dalla colonizzazione europea per delle ragioni di conquista e di potere e di conseguenza gli africani vivono in un mondo che non è il loro. In più questo esilio che è fondato su uno spostamento simbolico della geografia corrisponde all'oscuramento brutale della memoria, anche della memoria più recente. La falsificazione totale della memoria storica corrisponde ad una totale negazione della memoria e della cultura dell'Altro da parte del colonizzatore che dice: "Qui non c'è nulla". E' l'argomento del dominatore che dice: "Sono io il fondatore di tutto; sono io che comincio il mondo! Prima c'era soltanto il buio della notte più nera!". E' terribile, le civiltà conquistatrici hanno inventato il "punto zero". E' con noi che il mondo comincia! In secondo luogo, dopo le indipendenze politiche, anche se queste sono nate da movimenti anticoloniali, i governi che si sono formati in seguito hanno utilizzato gli stessi metodi dei colonialisti: dividere le persone per conservare il potere. Quindi non siamo mai usciti davvero dal colonialismo e la memoria è stata del tutto falsificata. Non dico nemmeno la memoria più lontana; parlo degli ultimi quarant'anni. Ho vissuto in Algeria e là, durante gli anni settanta e ottanta era vietato pronunciare il nome di Ben Bella, di Mohammed Kidé ecc., ma sono loro l'indipendenza dell'Algeria! Questo non poteva condurre che alla catastrofe. In Guinea è la stessa cosa. E' Sekou Touré e i suoi compagni che hanno fatto tutto. Dunque, questa confisca della memoria fa in modo che gli africani non sappiano nemmeno chi sono. Le identità sono diventate delle identità radiofoniche, delle identità micidiali e radiofoniche. La radio è una manipolazione ideologica permanente, è evidente, è un luogo di martellamento, non certo un luogo di dialogo. L'"albero della parola"1 era un luogo di dialogo, vi si poteva contestare direttamente il re! Il re parlava e gli si rispondeva. Alla radio e alla televisione nessuno ha la facoltà di rispondere; è dio che parla! In Europa queste devastazioni sono ben conosciute. Immaginate in Africa, dove spesso sono dei contadini analfabeti che non hanno la possibilità di una "seconda lettura" e che interpretano questo media come un oggetto magico ... è la volontà di dio, è dio che lo ha inviato e che parla! Sì, è cominciato tutto così in Guinea. E' attraverso la radio che Sékou Touré ha imposto la sua dittatura. Evidentemente hanno falsificato la memoria, una memoria completamente adulterata in funzione degli interessi dei sistemi politici al potere, che ha portato alle derive identitarie che oggi conosciamo. Tanto che non esiste un solo conflitto etnico spontaneo in Africa! Possono esserci, ma l' "Africa tradizionale" ha i mezzi per regolare molto in fretta queste cose. Questo accade molto spesso. Ma mille morti, duemila morti, un milione di morti è a causa della manipolazione delle coscienze. Giustamente la ricerca della memoria, soprattutto da parte degli scrittori, permette di rimettere al proprio posto la nozione di identità, la penetrazione dei discorsi identitari ecc. Il mio ultimo romanzo, che si intitola Peul, racconta la storia di un popolo, ma la faccio raccontare da qualcuno che appartiene ad un'altra etnia, i Sérère, per mostrare che possiamo parlare di un'etnia Peul perché ci sono i Sérère che la definiscono e viceversa.

A.C. : Lei ha parlato anche del ruolo dello scherno nel rapporto tra queste due etnie. Questo mi sembra molto interessante.

T. Monenembo : Sì, si tratta di identità binarie: la mia identità di Peul prosegue nel Sérère, perché in qualche modo lui mi definisce ed in qualche modo sono io a definirlo. Si definisce in rapporto a me ed io mi definisco in rapporto a lui. Infatti noi siamo accoppiati. Io non sono Peul da solo e lui ha il diritto di scherzare come vuole, proprio perché io non sono Peul se lui non è Sérère. La mia identità Peul comincia da qualcuno e termina nell'altro. E' questo legame identitario che la letteratura sta cercando di indagare e di rifare.

A.C. : Avete fiducia nel fatto che la letteratura oggi in Africa possa incontrare un pubblico pronto a ricevere quelle idee?

T. Monenembo : Il pubblico è già là. Non è necessariamente un pubblico istruito, non è nemmeno un pubblico abbastanza ricco da poter acquistare dei libri, chiaramente non è un pubblico all'europea, ma è là. Anche quando la gente non sa leggere, vi sono spesso delle letture pubbliche e poi è proprio per coloro che non sanno né leggere né scrivere che si scrivono dei libri! Sapete, c'è quella lettera di uno schiavo affrancato della Martinica, che fa scrivere da un altro e che è indirizzata a Victor Hugo, dove questo schiavo lo ringrazia per aver operato per il bene dell'umanità.

A.C. : In effetti penso che, siccome la tradizione orale è ancora molto forte in Africa, forse la scrittura stessa può passare in seguito attraverso la catena dell'oralità, le sue storie e i valori che essa promana possono venire rimessi in gioco, modificati ecc.

T. Monenembo : Sì, questo avviene soprattutto tra i giovani. C'è un legame molto forte in questo momento coi giovani. Io, ad esempio, quando mi trovo in Guinea, ho l'impressione di sentirmi in sintonia soprattutto coi giovani. Ho l'impressione che vi sia in loro qualcosa di molto forte. La mia generazione è quella che dirige il paese, sono i miei compagni di liceo, ma non ho niente a che vedere con loro, non abbiamo niente da dirci! Al contrario sono i giovani, nelle scuole, nei collegi, nei licei, nelle università il mio vero pubblico; loro sanno che è in quella direzione che bisogna cercare, sanno che dalla politica non possiamo aspettarci nulla, lo sanno molto bene! Non credono più ai discorsi dei politici, per nulla.

A.C. : Il progetto "Écrire par devoir de mémoire" è un progetto di impegno della letteratura. Possiamo parlare oggi, dopo Auschwitz, dopo il Randa, nell'attuale condizione di gran parte dell'Africa e del sud del mondo, di un impegno della letteratura? In Europa questa dimensione è quasi scomparsa; dobbiamo tornare indietro a Sartre e al Surrealismo. E in Africa? Lei come concepisce quest'espressione: "impegno"? Vi sentite uno scrittore impegnato dopo il Rwanda? Avete detto che la letteratura, soprattutto in Africa, deve "uccidere il padre", il potere, ma, al tempo stesso, non deve essere necessariamente politica o intellettuale. Qual è allora la qualità specifica del suo "impegno"? E' questa la sua forza peculiare e il suo destino?

T. Monenembo : Innanzitutto dobbiamo dire che la letteratura non è mai innocente; la letteratura è eminentemente politica. Persino la letteratura mistica, persino la Bibbia è politica. Non vale la pena di discuterne. Penso che, dal momento in cui si prende la parola, ci si impegna. Ma è anche vero che non è la nozione di impegno che rappresenta un problema, bensì l'evoluzione storica delle forme dell'impegno. E' vero che, nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo, l'impegno è stato centrale; consisteva ad impegnarsi in un partito o in un'ideologia. E' così che, soprattutto in Francia, la nozione di impegno è stata politicizzata durante il ventesimo secolo. D'altra parte, quando si parla di uno scrittore impegnato, è quasi un sinonimo di scrittore di sinistra. Questa forma di impegno ha mostrato i suoi limiti: storicamente, perché per sfortuna molti intellettuali hanno coperto e si sono resi complici di mostruosità enormi. Penso che, un giorno o l'altro, la storia li processerà. Non si può tacere in quel modo sullo stalinismo! E tutti quelli che hanno sostenuto lo stalinismo, soprattutto Aragon e gli altri, dovranno, un giorno o l'altro, renderne conto. Questa è una forma di impegno, è una fase precisa della storia dell'impegno. Ora, per ciò che riguarda noialtri africani, è evidente che i problemi sono talmente enormi, le contraddizioni sociali, le questioni storiche sono tali che sarebbe quasi ridicolo che qualcuno dicesse in Africa : "Non posso impegnarmi". Ma quali forme di impegno bisogna avere? Non lo so. Ho provato ad un certo punto a militare in ambienti studenteschi in Africa e in Francia, ma mi sono subito reso conto dei limiti di questa forma di impegno politico. Ho scelto la letteratura, ma il fatto che io mi impegni in letteratura non mi libera da questa responsabilità politica e storica. Anche perché il fatto di impegnarmi in letteratura non mi sottrae direttamente alla coscienza e all'ambiente politici. Al contrario. Ma è vero che farei tutto il possibile per essere libero e indipendente, soprattutto nei confronti dei movimenti politici e letterari. Di una cosa sono certo: è necessario che la mia parola mi appartenga. Ecco, quindi si è costretti ad impegnarsi in una difficile "ginnastica" per riuscire ad essere "impegnati" non tanto come militanti, ma come coscienza. Al tempo stesso bisogna dire che questa forma di impegno non deve condannare, ad esempio, a ciò che è stato definito il "realismo socialista"; questo significa che ho diritto ad una completa libertà di espressione, a concepire i miei romanzi come voglio; ho il diritto di costruire il mio proprio discorso. E se mai ci fosse una coincidenza tra il mio proprio punto di vista e quello dell'opinione pubblica tanto meglio; altrimenti non importa. E' così che vedo le cose e, al tempo stesso, quest'impegno non si realizzerà mai senza un minimo di ricerca estetica. Lei conosce il limite del realismo socialista e come abbia messo in riga la letteratura. Nessuno mi metterà in riga, né come persona, né come scrittore, né la mia parola, né il mio stile, né il mio modo di vivere, né la mia propria coscienza politica. Ciò che mi importa davvero è restare me stesso. Posso sostenere delle lotte politiche, posso scrivere in difesa di qualcuno, ma non mi impegno in un partito politico perché voglio conservare la mia libertà. Personalmente, trovo un modello di questo impegno nella letteratura latino-americana. Questi scrittori sono riusciti ad unificare l'impegno ai bisogni estetici. Hanno saputo dare corpo ad un impegno storico molto più che politico, e mettere al servizio di quest'impegno storico una ricerca letteraria. Parlo di Garcia Marquez, di Jorge Amado ecc. Precisamente, le nostre esperienze storiche sono molto vicine; è evidente che non si tratterà di mimetizzarli, di imitarli, ma penso che la loro esperienza ci interpelli. E' verso di loro che si rivolge l'utopia degli anni sessanta: Sony Labou-Tansi, Williams Sassine ed io, essenzialmente, ci sentiamo molto vicini a loro. Penso che vi siano degli scrittori che hanno saputo riempire con le parole il caos della storia, il vuoto della storia. Alla fine, hanno saputo dominare la violenza della storia, hanno saputo opporre delle parole alla follia della realtà. E' ciò che cerchiamo di fare anche in Africa: riuscire almeno a nominare le nostre realtà.

A.C. : Hanno saputo, in un certo modo, resuscitare ciò che era stato dimenticato o cancellato, nascosto, corrotto dalla colonizzazione, come la ricchezza della tradizione orale, al tempo stesso arricchendola con la contaminazione e l'ibridazione della modernità.

T. Monenembo : Esattamente. Il movimento latino-americano inizia là, con l'indigenismo. E' cominciato in Brasile, con gli scrittori bianchi e meticci, coloro che avevano i mezzi per scrivere, quando hanno detto: "Noi non siamo europei, noi siamo brasiliani; noi siamo i figli degli avventurieri europei, ma anche e soprattutto degli schiavi neri deportati e degli indiani; bisogna cercare, nelle mitologie indiane e africane, gli elementi che hanno introdotto nella lingua portoghese, nella scrittura occidentale". E' il movimento indigenista che ha cominciato a dare un'identità al loro paese, un'identità nuova: noi siamo dei latino-americani. E' il caso dell'antropofagia letteraria e culturale di Mario De Andrade ecc.

A.C. : Vorrei ritornare sul tema della lingua e sul suo rapporto con la lingua francese. Lei ha detto di essere "abitato", così come l'Africa, dalla lingua francese. Al tempo stesso, non c'è una lingua francese: si parla del francese d'Africa, del Québec, dei carabi, delle Mauritius ecc. ed ogni scrittore ha il potere di re-inventare la lingua che adopera. Difatti, sono rimasto affascinato dall'uso che lei fa della lingua francese, dalla re-invenzione ironica e "rabelaisiana" della lingua, dall'invettiva e dalla contaminazione che caratterizzano, oltre a lei, gran parte della letteratura francofona africana, da Sony Labou-Tansi ad Ahmadou Kourouma a Williams Sassine. Cosa ne pensa? Qual è il suo particolare rapporto con la lingua francese? Che rapporto c'è tra la scelta della lingua e i temi dell'identità e dell'alienazione culturale legati alla colonizzazione? Qual è la differenza che sentite quando scrivete in francese o in peul?

T. Monenembo : Come ho già accennato, la lingua francese non è del tutto straniera; è un fatto ed è una questione d'onestà ammetterlo. Ho imparato questa lingua quand'ero un bambino ed ha quindi contribuito a strutturarmi mentalmente, ma non è la mia sola lingua. Non è nemmeno la mia prima lingua, che è la lingua peul. La lingua francese è evidentemente obbligata, voglio dire, non ha senso per me se non ammette ed accetta la preminenza della lingua peul; deve quindi rispettarla, ma deve anche stabilire una connessione con la lingua peul. Alla fine ho due lingue così come ho due mani. Non faccio differenza; non c'è la lingua francese da una parte e la lingua peul dall'altra, la lingua francese seduta in un angolo del cervello e la lingua peul nell'altro. Non è vero, sono due lingue compenetrate. Passo da una lingua all'altra facilmente. Mi ritrovo a parlare peul mentre sto parlando in francese e viceversa. Sono due lingue entrambe iscritte nel mio subconscio : sogno sia in francese che in peul. Sono un "bilingue strutturale" se vogliamo. Dunque non sento così tanto questa questione "improduttiva" della scelta della lingua che molti scrittori si pongono. La scelta della lingua non mi riguarda; non ho scelta, perché ho due lingue. E' la mia condizione culturale. La lingua peul veicola essenzialmente la mia cultura orale, mentre la lingua francese veicola essenzialmente la mia cultura scritta. Questo non mi disturba e anche quando scrivo, credo che questo si percepisca nei miei libri, passo da una lingua all'altra facilmente, o meglio, da un linguaggio all'altro. Ahmadou Kourouma diceva che voleva scrivere il malinké in francese, e per farlo ha dovuto imparare a tradurre le immagini. Ed è traducendo le immagini che si riescono a riconciliare le due lingue. Questo fatto di tradurre le immagini, non avviene solo in un senso; non si tratta semplicemente di tradurre le immagini peul in francese, bisogna anche tradurre le immagini francesi in peul, per così dire. Ad esempio, mi sono reso conto, scrivendo un romanzo che si svolgeva a Lione, che c'erano molte complicità nel linguaggio popolare di Lione e nella lingua peul. Utilizzo molto il linguaggio popolare di Lione nel romanzo Un rêve utile e molti credono che si tratti di proverbi africani. A volte ho smentito, comunque si tratta di proverbi di Lione. Questo serve a mostrare che le lingue sono creature bastarde, ma anche imparentate.

A.C. Anche quando lei scrive dei poemi in peul, non è una lingua che sente come lontana, non è vero?

T. Monenembo : Sì, è così, è una lingua intima. In peul posso esprimere meglio le cose più intime. E' la lingua più vicina alla mia dimensione intima, ma non è esclusiva. Quindi, mi sento più a mio agio a scrivere dei romanzi in francese e delle poesie in peul; in ogni caso, sono due lingue che non oppongo. Trovo una questione sterile il fatto di scegliere tra una lingua ed un'altra.

A.C. : Lei è uno scrittore dell'erranza e dell'esilio. I vostri romanzi si svolgono tra l'Europa, differenti regioni dell'Africa, il Brasile ecc. Personalmente condivido la convinzione glissantiana della ricchezza creativa dell'erranza e della creolizzazione del Tout-Monde. Un proverbio africano dice che il mondo è una maschera che danza e non si può conoscerlo se si resta sempre fermi nello stesso posto. Che cosa ne pensate? Qual è il ruolo dell'erranza nella vostra letteratura?

T.Monenembo : L'erranza è l'avventura, il rischio di andare verso l'ignoto. Credo in questo e credo nella "frizione"; credo fosse Rabelais che parlava della "frizione del mondo". Credo in questo, credo nell'attrito tra le culture, nell'attrito tra i popoli, ben inteso non per provocare degli incendi, ma per produrre della luce. Mi sono reso conto che, giustamente, l'erranza re-identifica, e penso che ogni incontro con l'altro contribuisca a re-identificarmi. Non sono più esattamente lo stesso, pur continuando ad essere lo stesso. La ricerca ultima dell'uomo sulla terra non è necessariamente la ricerca del benessere, la ricerca delle cose materiali, ma la ricerca della conoscenza; l'uomo si trova sulla terra per conoscere. E conoscere è innanzitutto conoscere l'altro, conoscere ciò che è differente, ciò che è più lontano, è così che accade. Tutti i popoli del mondo, in fin dei conti, hanno tentato questa ricerca. Alcuni si sono fermati nel villaggio a fianco, alcuni hanno percorso centinaia di chilometri, alcuni sono arrivati dall'altra parte del mondo. Sicuramente la ricerca della conoscenza è il fine ultimo, ma la conoscenza stessa evidentemente passa attraverso una serie di prove. Conoscere è confrontarsi alla realtà. Ed è questa l'erranza. Se prendo il mio proprio esempio, in trentacinque anni di esilio mi sono reso conto di essermi molto allontanato da ciò che ero, ma, al tempo stesso, pur essendo sempre meno peul, posseggo sempre di più la consapevolezza di essere peul. Posso chiamare ciò la condivisione delle identità: la ricerca dell'identità corrisponde alla ricerca della conoscenza; la condivisione dell'identità corrisponde alla condivisione della conoscenza. Come diceva Hampaté Bâ, "la conoscenza è l'unica cosa che si può dare, arricchendosi al tempo stesso". La ricerca dell'identità è qualcosa di simile: posso diventare francese, restando al tempo stesso eminentemente peul; questo non mi fa scomparire in quanto peul. Ed è per questo che mi fa molta paura quello che la cultura e la società francese di oggi chiama "integrazione". Quest'erranza quasi involontaria, che si fa senza programma, senza progetto, perché è l'avventura dell'esilio che la fa, senza ideologia, è qualcosa di assai ricco che si oppone completamente all'idea di integrazione, a questa parola orribile generata dalla cultura francese di oggi. E' una parola che non comprendo affatto. Detesto questa parola, perché io voglio essere voluminoso, ricco di tutte le mie identità. E' una porta che è troppo stretta per me. Non credo alla rinuncia di se stessi, alla rinuncia delle identità; io credo alle identità. Ma le identità non sono dei bastioni, non sono delle cose chiuse, ermetiche. L'identità è fluida, flessibile, anche reversibile, ma servono delle identità che vanno naturalmente le une nelle altre. Sfortunatamente, ci sono sempre questi ideologi che immobilizzano le cose; le ideologie del XIX - XX secolo hanno immobilizzato il mondo, le definizioni, le frontiere, le categorie. Questo movimento perpetuo dell'anima, delle razze, delle identità, bisognerebbe lasciarlo libero, senza rinchiuderlo negli slogan dei politici e della televisione. L'"integrazione" pone molti più problemi che soluzioni; non può essere un progetto, né un recinto ideologico, ma si fa in modo pragmatico.

A.C. : Può raccontarci, ad esempio, la sua esperienza in Brasile che ha condotto al romanzo Pelourinho? E la dimensione dell'erranza che è propria del vostro popolo, il popolo Peul?

T.Monenembo : Ho proseguito la mia "erranza letteraria" in Brasile. Da quando mi sono esiliato, a partire dagli anni settanta, mi sono messo ad errare nel mondo letterario, sono uscito dal "califfato" pedagogico che mi avevano imposto, mi sono messo a "dire" per conto mio, mi sono messo, dunque, ad errare anche nella letteratura, da quella russa all'italiana, dalla poesia araba alle saghe islandesi, dalla letteratura spagnola a quella latino-americana. Ho letto molto Jorge Amado, uno scrittore di Salvador de Bahia, che mi ha molto appassionato ed ho voluto andarci, perché è un po' anche casa mia; la cultura di Bahia è stata fortemente influenzata dalla cultura negro-africana. Ero in Brasile e là ho avuto la fortuna di conoscere Pierre Verget, un antropologo che ha lavorato per sessant'anni sui legami tra la civiltà africana e il Brasile. Lo ho incontrato per quattro mesi e mi ha raccontato la città di Bahia e i suoi segreti; ho avuto l'impressione di camminare nella città di Bahia, nella sua storia e nella sua mitologia. Lui conosce tutta la storia della città, la storia del più piccolo pezzo di selciato dall'arrivo dei neri, come abitavano in passato, come sono venuti ecc. E' là che mi sono reso conto che l'ultimo vero Peul di Salvador de Bahia è morto nel 1902 e parlava ancora peul. Era un barbone. Dunque, sono andato a Salvador de Bahia per scrivere un libro, sono rimasto là per sei mesi, sono rientrato in Francia e, come per il Randa, ho preso il massimo di distanza per non plagiare Jorge Amado. Mi ha talmente influenzato che mi sono detto che se avessi scritto subito lo avrei plagiato. Ho atteso due anni per prendere le distanze. L'argomento era quello della ricerca delle fila tese e sempre più difficili da percepire che esistono tra l'Africa nera e le Americhe nere. Dunque, ho costruito questa storia di uno scrittore che va alla ricerca dei suoi cugini e che cerca di ritrovarli ed alla fine viene ucciso proprio dai suoi cugini in un gesto di malinteso. Dunque, ancora una volta si tratta della "deriva della memoria", se si considera che la memoria africana è esplosa, che non si trova solo in Africa oggi, ma anche nelle Americhe. Édouard Glissant ha parlato a più riprese di un'identità rizoma2; non abbiamo più delle radici, ma dei rizomi. Tanto più che ora abbiamo anche un'identità europea; gli africani sono sempre più numerosi in Europa e i nostri figli sono comunque degli europei; è una svolta dell'identità che si sta affermando. E' ancora una volta l'erranza della memoria che è, mi sono detto, la continuazione dell'erranza dei nostri antenati. Allora è del tutto normale che io continui ad errare, non sono che un Peul che cerca di esorcizzare il proprio esilio. E' la stessa erranza; l'identità Peul è un'identità moderna che prosegue nella mia erranza personale; sono un Peul moderno, sono un Peul di oggi, la mia erranza è fatta per mezzo dei boeings.

A.C. : Secondo lei l'Occidente degli stati-nazione chiusi nelle loro frontiere, può imparare qualcosa dal nomadismo degli spiriti e dei popoli? Possiamo dire, secondo lei, che la letteratura è nomade per definizione?

T. Monenembo : Sì, certamente la letteratura è nomade; non c'è luogo che sia più nomade del luogo della scrittura. I grandi scrittori sono stati tutti dei grandi viaggiatori, è sorprendente. E' una caratteristica della letteratura europea: dall'inizio gli scrittori europei si sono messi a viaggiare da una parte all'altra del vecchio continente ed altrove. Non c'è un solo grande scrittore francese, inglese o tedesco che non sia venuto in Italia, ad esempio. Il viaggio è assolutamente indissociabile dalla letteratura. Anche quando si sta seduti su una poltrone si viaggia. In più penso che il mondo moderno è obbligatoriamente un mondo nomade. Precisamente è un mondo di velocità, ciò che fa sì che anche i più pigri viaggeranno; oggi i più sedentari viaggiano, anche se portano con loro il loro mondo sedentario. Ho visto dei tedeschi in Tunisia che avevano portato con loro la loro birra tedesca e le loro televisioni; questo mi fa ridere. Quindi il mondo moderno e la sua velocità ci condannano in qualche modo a viaggiare, dal momento che le connessioni sono stabilite. Sono le devastazioni e le meraviglie della macchina: è Marx che diceva che la macchina è già ovunque, anche nel più piccolo atollo del pacifico ed è il mezzo di connessione delle umanità. Tutto il mondo è diventato moderno; anche i Pigmei sono entrati nel mondo moderno. Due settimane fa mi trovavo negli Stati Uniti e là vivono in una società che è già nomade. Gli americani si spostano in continuazione ed in Europa è quasi la stessa cosa: ci si sposta per studiare, per lavorare ecc. Per sfortuna i codici sono molto più restrittivi nel mondo moderno che nel mondo antico. Nel mondo antico c'era ancora la nozione di libertà individuale che è sempre più difficile da acquisire nel mondo moderno, perché è un mondo di interdipendenze nel minimo gesto, per così dire.

A.C. : Uno dei paradossi del mondo post-moderno, se vogliamo chiamarlo così, è che è sempre più caratterizzato dalla dimensione dello spostamento, ma, al tempo stesso, non permette una vera deterritorializzazione, perché le frontiere sono sempre più chiuse, soprattutto tra il nord e il sud del mondo.

T. Monenembo : Sì, le frontiere mentali, le frontiere amministrative, le disuguaglianze economiche sono costruite su questo, ma saranno sempre più difficili da mantenere, perché le economie devono viaggiare e così gli uomini, è chiaro. Come diceva un economista pakistano: "Se voi non capitolate di fronte a noi, ci vedrete da voi e tutte le barriere del mondo non potranno impedirlo!". Gli imperi economici sono situati in Europa e negli Stati Uniti, ora anche in Asia; in Africa non c'è nulla. Questo significa che le persone verranno qui. Se non avverrà questo "viaggio" delle economie, ci sarà lo spostamento delle persone.

A.C. : Qual è il ruolo della cultura tradizionale dei griot nell'Africa di oggi e nella sua letteratura?In che modo la cultura orale ha influenzato la sua scrittura?

T. Monenembo : La cultura orale ha influenzato in modo naturale la mia scrittura perché sono nato in un ambiente orale ed ho ricevuto una forte influenza da parte dei racconti di mia zia e di mia madre, le canzoni dei griot che ascoltavo alle feste e ai battesimi, tutto ciò è nella mia piccola testa di fanciullo. Qual è oggi il ruolo di questa cultura tradizionale dei griot? Bisogna comunque sapere che quella che chiamiamo "cultura tradizionale" in Africa è fortemente perturbata, anzi, possiamo dire che è davvero pervertita all'eccesso. Potrei quasi dire che non ne resta granché, contrariamente alle demagogie che molti africani fanno. Vi sono molti di loro che si reputano "tradizionali", ma non lo sono per nulla: c'è molto folklore e anche molto imbroglio. Hampaté Bâ, che era un grande tradizionalista, diceva comunque che la letteratura africana è poco più che uno scheletro. Ora si produce comunque una vasta riflessione su questo, perché voi sapete che i griot prima erano al servizio delle grandi famiglie, di cui cantavano i re, le storie ecc., ma queste famiglie sono scomparse. E quello del griot non è un mestiere, ma è nel sangue, esistono famiglie di griot da centinaia di anni e quello è il loro ruolo nella società. Dunque continuano ad essere dei griot, ma sono al servizio di persone che non meritano affatto di avere dei griot. Entrano nei bar con una chitarra per comporre al primo venuto delle storie che non esistono, in cambio di una birra o di un caffè. E' tutto completamente pervertito e sfortunatamente è ancora peggio di così; vi sono dei sistemi di potere che cercano di recuperare il fenomeno dei griot, degli uomini politici, ricchi e corrotti, che si circondano di griot, come faceva Sékou Touré. Anche la musica africana è insopportabile, perché i musicisti sono completamente venduti al sistema che sta al potere, come la musica zairese ad esempio. L'Africa ha passato il tempo a danzare, continuando a morire, attorno ai suoi capi: Mobutu, Sékou Touré ecc. Dunque, non mi pongo affatto all'interno della tradizione dei griot; posso imparare il loro stile, che è effettivamente esaltante, molto inventivo e di un lirismo straordinario, ma non sono un griot, non abbiamo gli stessi metodi. Il griot si esprime attraverso l'ossequio e l'elogio; io mi esprimo attraverso l'impertinenza e la provocazione; è ben diverso.

A.C. : E per quanto riguarda il cinema, ha in qualche modo preso il posto dell'oralità nelle città dell'Africa?

T. Monenembo : Da molto tempo credo, almeno da mezzo secolo. Sfortunatamente i cinema veri e propri sono sempre meno; prima almeno c'erano delle vere e proprie sale cinematografiche con dei film validi, ma adesso non si trovano che videoteche con film di bassa qualità. La distribuzione cinematografica in Africa è scadente, mentre la produzione necessita di denaro. A noi scrittori basta un pezzo di carta e una penna per scrivere un libro, ma, per fare un film, servono i soldi.

A.C. : Qual è invece il suo rapporto personale col cinema? So che lei è un cinefilo, non è vero? Ha influenzato parecchio il vostro modo di scrivere?

T. Monenembo : Sì, ero un cinefilo, ma non lo sono più, perché sfortunatamente amo meno il cinema di oggi, lo trovo molto meno inventivo e molto più commerciale. Durante gli anni sessanta-settanta adoravo il cinema italiano, che al contrario oggi è quasi scomparso. Probabilmente questo genere di cinema ha influenzato il mio modo di scrivere, con l'immagine. Penso che il cinema abbia influenzato tutti gli scrittori moderni ed in molti romanzi si nota quasi un tentativo di messa in scena. Penso che l'immagine entri sempre di più nei romanzi e quasi tutti i romanzi oggi tendono ad avvicinarsi alla forma di una sceneggiatura. So che un romanzo come Un attiéké pour Elgass è molto scenico; non l'ho fatto apposta, ma è molto scenico, è quasi una forma di teatro o di cinema. Ho anche un amico algerino che mi ha detto che vorrebbe utilizzarlo come sceneggiatura per un film.

A.C. : Può chiarirci meglio il senso del termine "avènements3" che lei utilizza nel romanzo L'Aîné des orphelins per riferirsi al genocidio? E' qualcosa di innominabile e che, al tempo stesso, era prevedibile ed inevitabile? C'è un fondo di ironia?

T. Monenembo : Sì, è qualcosa di innominabile, ma, al tempo stesso, dobbiamo considerare ancora una volta il fatto che è un bambino che parla, che pronuncia male le parole, perché si suppone che si esprima in kinyarwanda nel romanzo; ma c'è anche un doppio senso, perché l'"avènement" è qualcosa di terribile, di inimmaginabile e di indicibile; non ci sono parole per esprimerlo. E' l'inizio del genocidio, la caduta dell'aereo, quello che pubblicamente viene definito "gli avvenimenti". Ma l'"avvento" è anche, in un certo senso, l'arrivo di qualcosa di miracoloso. Dunque, c'è una sorta di ironia, perché il termine non è pronunciato nel suo senso biblico, "l'avvento di Cristo"; ciò che succede è talmente orribile che non si sa nemmeno di cosa si tratta, non se ne capiscono le cause, dunque è come qualcosa che cade dal cielo.

A.C. : Qual è il ruolo, nel racconto, dello stregone Funga, il quale aveva previsto da lungo tempo gli "avventi", ma che non è stato ascoltato? Che cosa rappresenta? E' forse una figura dell'interpretazione tradizionale del mondo che ha perso, anch'essa, la sua credibilità e la sua efficacia?

T. Monenembo : Infatti, ho introdotto questo personaggio nel romanzo proprio per raffigurare una parte importante della nostra cultura: la superstizione. Il griot, lo stregone, sono degli elementi della tradizione che hanno perso gran parte del loro significato e del loro potere. Lo stregone Funga spiega le cose in questo modo: se accadono tutte queste sventure, è perché non si seguono più correttamente le tradizioni. Tutti i vecchi del mondo dicono questo. Non volevo parlare veramente della cultura tradizionale. Semplicemente questo è un elemento culturale evidente della cultura africana. Il riflesso degli antichi africani è la superstizione, il fatto di rinviare tutto a qualcosa di magico e a dei segni naturali. E' qualcosa che aveva un senso nel passato, ma che lo ha perso completamente oggi. La sua posizione nel romanzo è quasi pietosa, non ha nulla a che vedere perché gli avvenimenti sono così lontani dalla sua comprensione. Lo stregone Funga è un uomo del passato. Non ha compreso proprio nulla di ciò che succede; è il lato pietoso degli anziani oggi in Africa; credono ancora in cose che non hanno più corso.

A.C. : Ieri lei ha detto che la letteratura deve "rompere" la Storia con la S maiuscola, la narrazione dominante imposta dalla colonizzazione ed assunta dalla maggior parte dei nuovi poteri neo-coloniali. La deve ridurre ad una "barzelletta". Può spiegarci meglio questa sua visione della storia?

T. Monenembo : Voglio dire che bisogna umanizzare la storia. La storia ufficiale è inumana nel senso che è violenta e che esige un "diritto alla violenza" ed è anche inumana nel senso che è stata praticamente sottratta all'esistenza per essere messa su un piedistallo, appartenendo così solo agli eroi o al potere e mai alla gente comune che la fa. La storia ufficiale non parla mai dei soldati anonimi che muoiono nelle battaglie; loro non sono che dei numeri. Ma la storia non è così lineare e così trionfale. Gli atti più eroici hanno il loro lato ridicolo e pietoso.

A.C. : Dunque questo "discorso storico ufficiale" è anch'esso un discorso ideologico, anche se fondato sull'"oggettività"?

T. Monenembo : Assolutamente, perché è un discorso che sottrae alla storia tutta la sua componente di esitazione, tutta la sua componente di brivido, di dubbio, di tremore che è parte dell'umano. E' per questo che parlo di ri-umanizzazione. Era Balzac, credo, che diceva che il romanzo è la storia privata delle società, nel senso di quando si esce dall'uniforme. Quando si resta in intimità, nel privato, non ci si veste con l'uniforme, ma col pigiama, si è ancora accessibili. Dunque si tratta, per umanizzare la storia, di renderla un po' più sensibile, accessibile ed ordinaria in fin dei conti.

A.C. : Ad esempio, il personaggio del pazzo, che è presente nei vostri romanzi come in gran parte della letteratura africana, può giocare questo ruolo di "capovolgere" il discorso dominante imposto dal potere della Storia?

T. Monenembo : Sì, perché precisamente il pazzo perturba le regole prestabilite. La follia è questo, una perturbazione dell'anima, dunque il pazzo, posto in mezzo alla società, la perturba. Il pazzo non obbedisce alle regole prestabilite, non obbedisce al buoncostume, non obbedisce al rispetto, alle istituzioni, è per questo che è pazzo, perché esce dai codici. Solo i pazzi possono permettersi, in società chiuse come le nostre dove ci sono dittature implacabili, di uscire dall'ordinario senza finire dritto in una prigione.

A.C. : Paradossalmente si tratta di una condizione privilegiata ...

T. Monenembo : Esattamente. E' un uomo libero, così libero da non essere cosciente del pericolo, non è cosciente dei limiti imposti dal potere. Si permette tutto. Dunque è attraverso la bocca di un pazzo che si possono dire delle cose folli, che ci si può permettere di contestare il potere.

A.C. : Al proposito del rapporto tra memoria, storia e identità, può parlarci del suo ultimo romanzo: Peul ?Ci avete lavorato per anni e credo sia un'opera molto importante per lei e per il suo popolo. Qual è stato il suo percorso di elaborazione di questo romanzo così complesso che lascia pensare ad un racconto epico? Quale scopo ha perseguito scrivendolo? Qual è il ruolo dell'ironia nel suo racconto storico?

T. Monenembo : Mi sono detto che volevo scrivere un romanzo sui Peul; I Peul sono comunque un popolo conosciuto che ha sempre posto molti interrogativi e problemi agli storici, agli antropologi, agli etnologi ecc. Mi sono detto, essendo un Peul, che la storia del mio popolo assomiglia molto di più ad un romanzo, perché si tratta di più storie che si incastrano le une nelle altre e che questo è il mio romanzo, tocca a me scriverlo. Ma in quel momento non mi rendevo conto della difficoltà dell'impresa, ed alla fine mi sono accorto che non conoscevo un granché sui Peul. Ho dovuto innanzitutto studiare un po' il peul e poi, affinché fosse verosimile, serviva un po' di documentazione, anche se naturalmente era necessario digerire questa documentazione, alleggerirla al massimo, per dar corpo praticamente solo al gioco letterario. Mi sono fermato a lungo per fare delle ricerche in Africa ed in Europa, ho avuto accesso a dei documenti originali molto interessanti, che mi hanno permesso effettivamente di scrivere questo libro che è una sorta di romanzo storico dei Peul. Ho cercato di ricomporre la storia dei Peul, dunque, ancora una volta, di ampliare la mia memoria personale, la ricostruzione della memoria che mi persegue. Parlando dei Peul, questo mi permette, come ho già detto prima, di dare un senso al mio proprio esilio e, in questo modo, di dare un senso alla complessità della mia identità, identità di Peul, innanzitutto, identità di guineano, in seguito alla colonizzazione francese, di francese ecc. Tutti i pezzi della mia identità finalmente possono rincollarsi e trovare un senso nello spazio dell'esilio. Il fatto che io sia Peul e che ricostruisca la storia dei Peul, dà finalmente stabilità a questa "mostruosità identitaria", perché ho visto le cose. Dunque, ho scritto questo romanzo che si intitola Peul e questo al tempo stesso mi permette di ricostruire certe pieghe storiche attorno alle quali il romanzo è costruito, dando vita così alla cultura di un popolo. Dunque, non si tratta soltanto di uno scheletro storico; è molto di più. Ho voluto che il lettore uscisse dalla lettura del libro con un'impressione di ciò che è un popolo: sul piano della mentalità, del sentimento e della cultura. Non mi sono fermato alle battaglie; la storia non è solo questo. La storia è anche la lingua che si parla, la mentalità, come si comportano in rapporto agli altri e al loro popolo, le mitologie, la loro attenzione per le stelle (sono dei pastori e tutti i pastori del mondo sono anche degli astronomi; sapete, il loro sentiero è nel cielo, non sulla terra; le cosmogonie provengono in fin dei conti dai pastori; così le religioni monoteiste: hanno guardato il cielo per secoli; la terra è un campo per i loro piedi, ma gli spiriti guardano al cielo per orientarsi. Il Cristianesimo, l'Islam, l'Ebraismo, le religioni monoteiste hanno origine tra i popoli pastori). Al tempo stesso ciò mi permette di regolare due questioni che sono molto importanti oggi: innanzitutto la nozione di identità, in un momento in cui, in Africa, le identità sono "micidiali". Innanzitutto voglio mostrare che queste identità non sono necessariamente antagoniste e che non sono chiuse le une nei confronti delle altre. Esiste una continuità identitaria in Africa, in ogni caso in Africa occidentale, e le identità costituiscono un continuum. Non è perché sono Peul che sono necessariamente nemico di tutti quelli che mi circondano. In secondo luogo, questo mi ha permesso di regolare un conto con la storia, con la Grande Storia, perché racconto la storia dei Peul sotto lo sguardo ironico di un Sérère, che prende in giro i Peul fin dall'inizio. Racconta la storia di un Peul prendendosi gioco di lui, chiamandolo "ladro di reami e di polli". Dunque questo mi permette di regolare i conti con questa nozione di "identità micidiale" in Africa ed anche con questa nozione di Storia come è stata concepita fino ad oggi, ad ogni modo la storia ufficiale.Ho scelto l'ironia par raccontare una storia che è molto tragica, perché credo che la vita stessa sia necessariamente ironica. Quindi, voglio semplicemente mostrare che le nozioni di identità e di storia non sono così serie come ci fanno credere.

A.C. : Lei ha scelto di interrompere la narrazione al 1896: perché vi siete fermato a questa data e non avete parlato del XX secolo?

T. Monenembo : Perché a quella data la storia dei Peul finisce, come la storia dei mandinghi, dei wolof ecc.

A.C. : Che cosa resta oggi di questa storia e di questa identità?

T. Monenembo : E' sempre là, ma è un'identità frammentata. Io non sono tradizionalista, vado verso il passato perché sono ossessionato dalla memoria e dalla ricerca, vado verso il passato per cercare dei punti di riferimento. Sono un Peul di oggi, un Peul moderno, sono per la modernità e per una ricostruzione delle identità, innanzitutto in Africa, ma un'identità che vada verso il futuro, assumendo il suo passato. Ma l'identità non è più la stessa di prima della colonizzazione, è finita. Come in Europa e nel resto del mondo; la storia francese, la storia italiana, sono terminate e si va verso una storia europea e mondiale. In Africa è lo stesso: l'Europa è arrivata in Africa e vi è rimasta e non se ne andrà; anche se non sono là fisicamente lo sono culturalmente, con le istituzioni, le filosofie politiche, le lingue, le economie; dobbiamo tenerne conto.

A.C. : D'altronde, l'Africa è arrivata in Europa ...

T. Monenembo : Certamente, non si può più mantenere un'identità moderna, un sistema politico moderno, un'economia moderna, senza tenere conto dell'esperienza europea. L'esperienza moderna è stata essenzialmente realizzata dal mondo europeo, questo è un dato di fatto. Bisogna partire da questo, da questo aspetto della globalizzazione e della modernizzazione, che passa forzatamente per un certo livello di occidentalizzazione. Qualcuno diceva che non ci si potrà liberare dall'occidente senza occidentalizzarsi un minimo, è una realtà globale. Anche linguisticamente, l'esperienza moderna è stata espressa nelle lingue europee. La lingua dei Peul non può esprimere da sola la termodinamica o l'elettronica, deve servirsi dell'inglese o del francese. Di fronte a tutto ciò, i popoli africani devono recuperare la loro storia. E' per questo che sono ossessionato dalla memoria; a partire dal momento in cui so chi sono, posso andare verso l'altro senza subirlo forzatamente. A quel punto posso davvero approfittare dell'esperienza dell'altro.

A.C. : Lei condivide, a questo proposito, la posizione assunta più volte da Édouard Glissant, quando parla, ad esempio, di Tout-Monde?

T. Monenembo : Quando parla di Tout-Monde c'è il rischio, credo, di fare della creolizzazione del mondo una specie di nuova ideologia e questo un po' mi turba. All'inizio ho parlato di "sfregamento dei mondi" perché credo all'esperienza delle cose, non credo alle teorie preconcette. Le cose si fanno naturalmente nella storia, e così anche la creolizzazione. Ho un po' paura di questi concetti. Oggi, in Francia, si continua a parlare di meticciato, ma io dico: "Se continuate così, presto rifiuterete tutti quelli che non sono meticci!". C'è sempre il rischio di trasformare le parole in una nuova ideologia.

A.C. : Per concludere, come definireste, in poche parole, il senso della letteratura come lei la concepisce?

T. Monenembo : Ciò che amo nella letteratura è proprio il fatto che è impossibile definirla. E' come la vita, non si sa mai che cos'è! E' il lato dell'avventura, della continua ricerca; non è il sapere quello che faccio che mi interessa nella letteratura, ma giustamente il suo lato inconscio o subconscio. E' l'atto di scrivere che mi interessa, perché non si sa mai prima ciò che si scriverà. Flaubert diceva: "Dai miei lettori mi aspetto che mi spieghino i miei libri". Questo è successo col mio romanzo Pelourinho: qualcuno che non conosco personalmente ha scritto un libro su di me e sul mio romanzo e ha spiegato delle cose che sentivo, ma che non avevo spiegato; mi ha spiegato definitivamente il mio romanzo e questo è formidabile. Sapevo che c'era un mito alla base del mio romanzo, ma era soltanto nel mio subconscio. Si tratta del mito di Edipo. La vecchia e il giovane del romanzo sono la madre e il figlio e, come nella tragedia di Edipo, è il malinteso che conduce alla tragedia. Mi sono reso conto che la falsa nonna aveva un piede zoppo e l'uomo che zoppica si ritrova sin dall'inizio nel mito di Edipo. Ha ricostruito tutta la mitologia di Edipo attorno al mio romanzo ed io non mi ero per nulla reso conto di ciò scrivendo il libro. E' stupefacente ed è questo che costituisce l'imprevedibile della letteratura.

1 L'arbre à palabre era il luogo dove si riuniva la comunità per discutere questioni e argomenti riguardanti la collettività e prendere decisioni.

2 Cfr. Édouard Glissant, Poetica del diverso, Roma, Meltemi, 2004.

3 Il termine è una storpiatura del francese événements, che significa "avvenimenti" e, al tempo stesso, ha il significato di "avvento", inteso in senso religioso cristiano; da qui il sarcastico doppio senso che rivela.

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(ISSN 1824-6648)

rwanda - scrivere per dovere di memoria

A cura di Alessanrdo Corio

 

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Anno 2, Numero 9
September 2005

 

 

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