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L'oasi nel deserto. I meccanismi di traduzione culturale nel film Hotel Rwanda

Chiara Piovan

Introduzione

Affrontare le tematiche postcoloniali è oggi fondamentale e necessario ogniqualvolta ci si rapporta con un testo prodotto in uno dei paesi passati attraverso l'esperienza del colonialismo o che di essi si occupa.

Il testo da cui parte l'analisi successiva è un testo filmico realizzato in Occidente da una produzione italo-inglese, diretto da un regista irlandese, e diffuso attraverso i circuiti di distribuzione occidentali.

Si tratta di "Hotel Rwanda", film del 2004 diretto da Terry George, che racconta la storia vera di Paul Rousesabagina, manager rwandese a capo di un hotel di lusso a Kigali, hutu benestante con moglie tutsi, che, durante i giorni del genocidio nel 1994, offre rifugio e protezione a un migliaio di tutsi in fuga dai massacri e riesce a portarli in salvo insieme alla sua famiglia.

Questo film drammatico è il primo esempio di narrazione occidentale, distribuita e vista su vasta scala da ampie fasce di spettatori, ad aver raggiunto una buona notorietà (grazie soprattutto alla nomination all'Oscar 2005), affrontando un tema di storia postcoloniale recente come il genocidio in Rwanda. Di qui l'esigenza di comprendere che tipo di rappresentazione del Rwanda, degli occidentali, dei rapporti di potere tra paesi dominanti (ex coloniali) e dominati (ex colonie), sia veicolata attraverso i meccanismi discorsivi e narrativi del testo filmico. L'obiettivo dell'analisi è quello di svelare e proporre una "critica" di tali meccanismi, utilizzando di volta in volta gli strumenti teorici forniti dagli studi postcoloniali (in particolare per quella parte in cui intersecano i translation studies) e dall'analisi semiotica dei testi visivi.

Utili per l'analisi sono stati poi i raffronti con altre esperienze di elaborazione testuale connesse con il tema del genocidio, come lo spettacolo teatrale Rwanda 94. Une tentative de réparation symbolique envers les morts, à l'usage des vivants, una produzione internazionale che nell'ottobre 2004 ha fatto il giro dei teatri più importanti d'Italia (per poi proseguire la tournée in Europa e in Africa) o gli esperimenti di scrittura sull'argomento portati avanti da una decina di scrittori africani all'interno del progetto "Écrire par devoir de mémoire".

La postcolonialità è la condizione in cui i popoli colonizzati cercano di trovare un proprio spazio in quanto soggetti storici, spiazzando i modelli cognitivi stranieri con cui il loro stesso mondo è stato formato, con il postcolonialismo quelli che l'Occidente ha sempre considerato "altri" parlano di se stessi e della relazione coloniale che inevitabilmente continua a caratterizzarli: l'analisi di testi postcoloniali o di argomento postcoloniale risulta allora un passo importante per la diffusione e la critica delle rappresentazioni culturali circolanti.

Che cosa si intende con "studi postcoloniali"

La critica postcoloniale mette al centro della propria attenzione le rappresentazioni delle culture colonizzate e dominate, esplorando le interrelazioni tra cultura e potere, tra imperialismo e nazionalismo.

Il termine stesso "postcolonialismo" identifica tramite il suffisso "post" un campo di studi che si spinge ben oltre la determinazione temporale. Se uno dei sensi attribuibili al postcolonialismo è lo studio del periodo successivo all'indipendenza delle colonie, con particolare riferimento a come è stata affrontata l'eredità coloniale in termini di "language, place and self"1, non bisogna dimenticare che tale senso è stato ampliato fino a comprendere lo studio delle relazioni tra le diverse culture. Come spiega D. Robinson in Translation and Empire. Postcolonial Theories Explained uno dei sensi attribuibili al postcolonialismo è

the study of all cultures/societies/countries/nations in terms of their power relations with other cultures/etc.; how conqueror cultures have bent conquered cultures to their will; how conquered cultures have responded to, accommodated, resisted or overcome that coercion2.

È infatti necessario take into account the continuing, far reaching effects of colonialism or the ivert or subtle forms of neo-colonial domination3.

Gli strumenti forniti dalle teorie postcoloniali (che intrecciano gli approcci marxisti a quelli poststrutturalisti) permettono di analizzare la relazione coloniale nelle sue configurazioni discorsive e testuali, nelle rappresentazioni delle culture dominate da parte di quelle dominanti e nelle auto-rappresentazioni da parte delle culture dominate costruite a servizio di quelle dominanti. Si definiscono così da un lato una prospettiva imperialista e dall'altro una serie di prospettive subalterne e resistenti, tra loro strettamente correlate e dipendenti.

Seguendo i dettami poststrutturalisti, che vedono uno spostamento dal concetto di ideologia a quello di discorso, i teorici postcoloniali abbandonano l'illusione di poter raggiungere una coscienza autentica delle relazioni tra culture dominanti e dominate4, e vi sostituiscono la comprensione delle varie forme di esclusione, da considerare come il prodotto di discorsi che classificano, ordinano e producono differenze da cui si costituisce e si diffonde il potere5.

In questo modo è possibile evidenziare l'ambivalenza della produzione e della ricezione dei significati culturali, la loro natura di "senso in continuo divenire", di "senso in traduzione". È possibile altresì interpretare l'iscrizione dei soggetti nella cultura, cioè interpretare le forme attraverso cui i soggetti vengono testualizzati, nell'insieme eterogeneo delle rappresentazioni e dei discorsi, attraverso enciclopedie, prassi enunciative, meccanismi di interpretazione e processi di valorizzazione propri di una cultura.

Hotel Rwanda: un testo tradotto

Su questa base si inserisce l'analisi del testo filmico "Hotel Rwanda" considerato come un testo in traduzione. Ci si distacca in questo tipo di analisi dalle considerazioni strettamente linguistiche e si considera il testo originale (in inglese) come una traduzione culturale da parte di un regista e di un intero sistema di produzione cinematografica occidentale di una certa realtà storico culturale propria di uno dei paesi passati attraverso l'esperienza coloniale e quella della decolonizzazione con l'esito devastante del genocidio. Nel processo di narrazione un'influenza fondamentale è data dal racconto dell'esperienza autobiografica da parte del "vero" Paul Rousesabagina, rwandese sopravvissuto ai massacri ed eroe deciso a raccontare, attraverso la mediazione del regista e del testo filmico la propria esperienza.

In questo contesto il processo di traduzione consiste nell' avvicinare ciò che è diverso assimilandolo, ospitandolo all'interno di un'altra tradizione, lasciando che modifichi la tradizione stessa. La traduzione con questo tipo di operazioni acquisisce una possibilità di evoluzione: laddove in passato essa è stata il canale della colonizzazione, può ora divenire un canale di decolonizzazione, il punto centrale dei meccanismi di comunicazione e di interazione tra Primo e Terzo Mondo.

In "Hotel Rwanda" ciò che viene tradotto è una porzione di realtà; il termine "testo" (di partenza) viene allora utilizzato con uno slittamento semantico comune agli studi etnografici e antropologici. Fin dai tempi di "The Concept of Cultural Translation in British Social Anthropology" Talal Asad evidenziava che l'evoluzione dell'antropologia seguiva la strada della "translation of cultures"6, cosicché le tematiche relative alla traduzione divenivano centrali negli studi antropologici.

It is not, in other words, merely a matter of "understanding" the "native modes of thought" - it is a matter rather of translating them from one language to another, across power differentials marked off by the concepts of "first world" and "third world", "anthropologist" and "native"7.

La traduzione di tipo etnografico è costruita in forme comprensibili alla cultura d'arrivo, di modo che in questo processo risultano coinvolte le relazioni tra le due culture:

"cultural translation" in ethnography is the process, in other words, not of translating specific cultural texts but of consolidating a wide variety of cultural discourses into a target text that in some sense has no "original", no source text - at least no single source text - and the relationship between the source-cultural discourses that ethnographers study and the target texts they produce is far more problematic than that between the traditional source text and the target text in translation studies8.

In generale quindi la traduzione non è solo una trasposizione in termini linguistici:

translation in also the vehicle which "Third World" cultures (are made to) travel - transported or "borne across" to and recuperated by audiences in the West. Thus, even texts written in English or in one of the metropolitan languages, but originating in or about non-Western cultures, can be considered under the rubric of translation9.

È il caso di "Hotel Rwanda".

I rischi del processo traduttivo

Attraverso l'elaborazione di testi si testualizza una porzione di cultura, fornendone una particolare interpretazione; tale interpretazione si inserisce in un contesto in cui si trova a dialogare con altri testi, in primo luogo con la storia.

La traduzione in questo confronto tra testi, intesi in senso culturale, diviene una sorta di metafora opposta a quella dello scontro di civiltà, poiché il contatto e lo scontro tra culture diverse si traduce in pratiche concrete di scrittura e di riscrittura, che comportano un'operazione ermeneutica di confronto e di eventuale riequilibrio tra culture dominanti e dominate. Nei testi sono così iscritte soggettività differenti, dove la differenza riguarda l'universo discorsivo e valoriale sotteso alle singole lingue e universi nazionali.

Attraverso la traduzione è allora possibile stabilire nuove strategie di rappresentazione culturale che diventano forme politiche di interpretazione dei testi e delle culture.

Ma poiché la storia della traduzione è una storia del potere che una cultura ha di modellarne un'altra10, è una forma di manipolazione e di riscrittura11, nessuna traduzione è innocente, poiché se tradurre implica in prima istanza una mossa interpretativa, l'interpretazione è sempre un incontro con l'alterità12. Il rischio principale cui si va incontro con le operazioni di traduzione, in particolare per quanto riguarda le implicazioni culturali, è l'annullamento delle differenze, in primo luogo all'interno di una lingua omologante e dominante e, in secondo luogo, attraverso interpretazioni parziali e uniformanti basate su una strutturazione della conoscenza occidentale e patriarcale.

Attraverso la traduzione si ha la possibilità di parlare al posto di qualcun altro e si rischia di esercitare quella che S. C. Spivak13 ha chiamato "violenza epistemica", tipica delle rappresentazioni dominanti delle culture dominate.

L'identità dei soggetti coinvolti nelle rappresentazioni culturali spesso non è riducibile alle dicotomie e ai parametri racchiusi nelle rappresentazioni occidentali; ogni cultura nazionale è in realtà eteroglossa, composta da una varietà di livelli linguistici e di discorsi, alcuni dominanti e altri marginali. Le culture dominate sono spesso descritte e ridefinite all'interno delle culture dominanti spesso attraverso stereotipi e "paradigmi dell'alterità"14. Anche Lawrence Venuti (pur facendo riferimento al processo traduttivo inteso come processo linguistico) parla di "violenza della traduzione":

the violence of translation resides in its very purpose and activity: the reconstitution of the foreign text in accordance with values, beliefs and representations that pre-exist in the target language, always configured in hierarchies of dominance and marginality, always determining the production, circulation, and reception of texts15.

Il processo estetico non è scevro di implicazioni politiche ed etiche: essendo un processo di valorizzazione, cioè di ricollocazione discorsiva di determinati valori nel sistema culturale, è necessariamente intrecciato a valorizzazioni politiche ed etiche. E se da un lato il letterario (l'artistico) non è riducibile al politico, è impossibile trascurare, e anzi non bisogna eludere, il rapporto tra etico ed estetico. Il testo è certamente una rappresentazione artistica con cui interagiscono altre rappresentazioni e contesti di produzione e di ricezione. Ma una visione deterministica e riflessiva delle relazioni tra testo e luogo di produzione, tra autore e cultura di riferimento è riduttiva.

Il problema è rappresentato dal fantasma dell'autenticità delle rappresentazioni, e dal conseguente imbarazzo per la difficoltà di stabilire i criteri e i principi in base ai quali considerare una rappresentazione 'più vera', 'troppo occidentale', o 'patriarcale'16. Il valore di un testo non deve essere ridotto al grado di autenticità rispetto all'immagine che la cultura dominante ha della cultura di cui lo si considera rappresentativo.

I rischi del genere etnico

Il rischio di una produzione come quella di "Hotel Rwanda" è quello di rientrare in una sorta di "genere etnico alla moda". L'industria culturale occidentale (rappresentata in questo caso dalla pluriproduzione europea, con l'aggiunta del Sudafrica e dai canali distributivi di una major occidentale) ritraduce incessantemente anche ciò che avrebbe dovuto restare intraducibile o almeno marchiato come intraducibile, alimentando stereotipi, autori e contenuti alle tendenze contemporanee.

Emerge cioè un gusto estetico esotico-politico che addomestica le tendenze dissidenti e disloca le culture non occidentali in un continuum globale e plurale. Come avverte A. Dingwaney:

"Ethnicity", "difference", and "the other" have been so commodified, and are so easily appropriated to the reigning critical fashions of postmodernism, or under the sign of the "familiar", that in order to "respect" the culturally specific contexts from which these litteratures arise it is necessary to develop a countermethodology17.

Questa contro-metodologia prevede l'attuazione di strategie di vigilanza contro i meccanismi di etichettamento propri dell'industria culturale, in modo da seguire un'etica della traduzione e della collocazione culturale, senza tralasciare, come sottolinea Venuti, la difficoltà sottesa alla definizione delle soglie che continuamente riscrivono i confini tra un linguaggio e un altro, tra una cultura e un'altra18.

Le aspettative dell'audience rappresentano una costrizione19, che spinge a forme di assimilazione per cui forme culturali aliene e concetti o pratiche indigene sono recuperate con un processo di familiarizzazione, spogliate della loro "foreignness" o anche della loro radicale inaccessibilità.

La traduzione rivela dunque l'autorità dei valori e delle istituzioni dominanti, cosicché sono proposti all' audience occidentale una serie di stereotipi che escludono quei valori, dibattiti e conflitti che non appoggiano la "domestic agenda". Su tali stereotipi il consenso è diffuso e generalizzato, poiché viene definita una "posizione di intelligibilità":

As translation constructs a domestic representation for a foreign text and culture, it simultaneously constructs a domestic subject, a position of intelligibility that is also an ideological position, informed by the codes and the canons, interests and agendas of certain domestic social groups20.

In questo modo per adattare i soggetti a delle immagini precostituite se ne riduce la complessità, presentando identità complesse come semplici e naturali, attraverso processi di manipolazione e semplificazione. Si tratta di quello che Lawrence Venuti chiama "domesticating method"21 nella traduzione, che consiste nella riduzione etnocentrica del testo di partenza ai valori di arrivo (come se si riportasse l'autore "back home"). A un livello di maggiore astrazione, questo procedimento

construct notions of the Other and formulate an identity of the source culture that is recognizable by the target culture as representative of the former - as authentic specimens of a world that is remote as well as inaccessible in terms of the target cultures self22.

Come si vedrà nell'analisi testuale successiva la questione dell'identità è stata affrontata in "Hotel Rwanda" attraverso un focus sulle differenze culturali e in particolare sul dilemma che vede opposta l'identità rwandese a quella occidentale. Ma anche in questo caso è necessario essere vigilanti. Carol Mayer23, rifacendosi agli studi di Madhava Prasad24, mette in guardia sul fatto che "differenza" non è sinonimo di "disuguaglianza"; inequality is far more resistant to reification, and preserves its rationality25, e conseguenza ancora peggiore, concentrarsi sulla differenza potrebbe sopprimere l'importante questione della disuguaglianza, assumendo che the achievement of difference will automatically erase inequality26. E invece la traduzione nell'ambito degli studi postcoloniali può essere una pratica che rende maggiormente visibili le relazioni di potere transculturali, promuovendo scambi più equi. L'attenzione posta sulla differenza non deve essere esclusiva:

"Post colonial theory's celebration of hybridity" can, and does, serve to 'blur' difference rather than define it and the inequalities implicit within it [...] Mere difference [...] leads [...] to a sentimental charity, for there is nothing in its logic that necessitates our attention to the other27.

L'analisi del testo filmico

Per analizzare "Hotel Rwanda" si utilizzeranno gli strumenti forniti dalla semiotica del linguaggio visivo, intrecciandola con le considerazioni fin qui svolte a partire dalle teorie postcoloniali, così da far emergere le modalità attraverso cui le immagini cinematografiche contribuiscono alla costruzione delle identità e i modi di azione del potere a partire da queste immagini.

In generale i meccanismi di identificazione propri delle immagini cinematografiche sono state studiate dai teorici del cinema a partire dagli anni Settanta, sotto la spinta delle prime teoriche femministe28, e degli studi di psicoanalisi lacaniana applicata al cinema. Emergono da queste teorizzazioni due aspetti propri del rapporto che il testo filmico instaura con il proprio spettatore: la necessità di separare l'identità del soggetto spettatore da quella dell'oggetto sullo schermo (la scopofilia propria dello sguardo voyeuristico) e il bisogno di identificarsi con questo stesso oggetto attraverso un processo di riconoscimento.

Sull'ambivalenza di questi due atteggiamento giocano i rapporti tra gli spettatori e il testo presentato; su di essi si concentrerà maggiormente l'analisi semiotica successiva, in modo da evidenziare il modo in cui il regista, attraverso una serie di consapevoli scelte linguistico-narrative, abbia deciso di plasmare la visione cinematografica. Infatti

attraverso il controllo della temporalità (con la specifica messa a punto di strutture narrative e il montaggio), e della spazialità (con l'uso della prospettiva e del montaggio), la struttura filmica crea in sostanza uno sguardo, un mondo e un oggetto, un tipo di illusione29.

Le strutture discorsive e la costruzione dello sguardo

Al centro di "Hotel Rwanda" c'è un personaggio maschile, la cui vita è travolta nei giorni del genocidio. Paul Rousesabagina, padre di famiglia, uomo di successo, affermato e benvoluto direttore dell'hotel Sabena di Kigali, è il centro e il motore dell'azione narrativa. L'evoluzione che coinvolge il personaggio è dall'idillio familiare iniziale (figurativizzato in una casa borghese in mezzo al verde, in una grigliata all'aperto con la famiglia allargata, nei giochi innocenti dei bambini felici per una manciata di caramelle regalate) al caos dell'esplosione della violenza incontrollata.

Fondamentale per questo sviluppo narrativo è l'organizzazione testuale degli spazi che risulta strettamente connessa con l'articolazione dello sguardo. Lo sguardo offerto allo spettatore lo spinge all' identificazione con le vicende vissute dai personaggi, in particolare attraverso meccanismi intradiegetici come le ripetute soggettive della visione di Paul (a volte anche solamente suggerite con un montaggio alternato del primo piano del personaggio e dell'oggetto della sua visione). In questo modo lo sguardo dell'uomo viene porto al pubblico, che, attraverso i suoi occhi, ha un punto di accesso alla scoperta dell'orrore che circonda ogni rwandese. E il verbo "circondare" riveste in questo caso una grossa importanza, poiché lungo tutto lo svolgimento narrativo si definiscono in sequenza delle oasi protette e riparate dalla violenza del genocidio, in cui Paul e la sua famiglia trovano rifugio. Inizialmente è la casa di Paul, dove vengono accolti, oltre ai parenti, i vicini in fuga dai massacri degli hutu; segue poi l'hotel, definito esplicitamente come un' "oasi di pace in mezzo al deserto", in cui trovano rifugio migliaia di tutsi, e infine il camion, che porta la salvezza oltre la linea del fronte della guerriglia tra Fronte Patriottico Rwandese e guerriglieri interhamwe.

La definizione di questi spazi chiusi e protetti porta come conseguenza la creazione di un confine tra "dentro" e "fuori", un limite che deve essere oltrepassato per poter accedere alla visione. Per vedere e conoscere il dramma del genocidio Paul deve uscire dagli spazi protetti, attraversare i confini e diventare un soggetto attivo, creatore di differenze.

Solo attraverso lo sguardo di Paul, e la sua fuoriuscita dagli spazi chiusi in cui cerca di proteggere i suoi familiari e un migliaio di innocenti, lo spettatore ha accesso alla visione di ciò che accade nel paese sconvolto dal genocidio. Quando Paul schiude il cancello di casa per vedere cosa accade in strada, quando esce dall'hotel per fare rifornimenti e attraversa la città, quando scende dagli spazi chiusi (di nuovo) della sua auto immersa nella nebbia (che nasconde allo sguardo), quando spia attraverso la copertura del camion che lo sta portando in salvo, allora lo spettatore può vedere immagini strappate al genocidio.

Ma non sono molte. La scelta coerente, portata fino in fondo è quella di non mostrare mai immagini di violenza, a cui la mente dello spettatore immediatamente tenderebbe: corpi squarciati dai machete, donne violentate, bambini uccisi senza pietà. Niente di tutto questo è mostrato in "Hotel Rwanda": l'unico passo in questa direzione è rappresentato dalle immagini di corpi senza vita distesi ai bordi delle strade, ma anche in questo caso l'orrore non è affatto accentuato, anzi vi è la tendenza a non figurativizzarlo. Il senso di questa strategia discorsiva è quello di sfuggire alla fin troppo facile rimessa in scena dell'orrore, evitando il bombardamento di immagini choccanti che ha caratterizzato le uniche rappresentazioni del genocidio circolate in Occidente: quelle dei telegiornali. Nei notiziari delle sere d'estate del 1994 venivano continuamente riproposte, con la tipica invadenza e violenza mediatica, le immagini choc della tragedia, le masse di corpi senza vita, i fiumi rossi di sangue, contribuendo così a un'ulteriore disumanizzazione dei corpi e delle persone, di cui non veniva restituita nessuna realtà, nessuna umanità.

In "Hotel Rwanda" i massacri e la violenza non sono rappresentati proprio per sfuggire a quei meccanismi di rappresentazione e di traduzione della realtà culturale rwandese da parte dei media occidentali. La scelta opposta, quella di non mostrare nulla, permette di evitare l'instaurarsi nello spettatore di quell'aspetto voyeuristico che come si è visto in precedenza è tipico della visione (non solo cinematografica). Ciò su cui punta invece il film è invece un "racconto della paura e della sofferenza" che fornisce ampiamente allo spettatore gli elementi per partecipare al dramma e per immedesimarsi negli stati d'animo del "perseguitato", dell' "inseguito", del profugo (seguendo la tendenza con cui molta della stampa internazionale occidentale aveva deciso di raccontare al proprio pubblico il genocidio).

Dal punto di vista della rappresentazione di un momento tragico della storia di un paese come il Rwanda (un paese dell'Africa, grande come una regione italiana, uscito tragicamente dall'esperienza coloniale belga) anche questo testo filmico, pur in modo diverso dai telegiornali dell'epoca del genocidio, si serve di schemi occidentali per descrivere la tragedia. La dialettica tra mostrare le immagini dell'orrore e non mostrarle resta infatti del tutto interna alle dinamiche di rappresentazione di soggetti occidentali rispetto a un oggetto "altro", nuovamente bersaglio passivo della visione.

Le strutture narrative e la costruzione dell' "eroe"

Anche a livello di strutture narrative emerge la medesima questione rilevata per le strutture discorsive. Il soggetto dell'azione narrativa, da uomo qualunque, legato indissolubilmente al proprio lavoro e alla propria famiglia trova in sé il coraggio di salvare delle vite umane a rischio della propria. All'inizio dello sviluppo narrativo, Paul è presentato come un ambizioso direttore di un hotel occidentale, frequentato da uomini politici influenti, generali, affaristi e stranieri benestanti. Paul è amato da tutti, perché sa come gestire i rapporti con il potere, usa il denaro per ottenere appoggi e amicizie, fa dello "stile" (occidentale) la sua arma vincente. Allo scoppio delle prime violenze, all'indomani dell'omicidio del presidente Habyarimana, Paul ha due obiettivi: salvare la propria famiglia e l'albergo di cui è responsabile (soprattutto agli occhi della compagnia Sabena). Di fronte al susseguirsi dei soprusi e delle violenze che coinvolgono le persone che gli stanno accanto Paul subisce in quanto soggetto dell'azione un cambiamento di modalità, per cui si trova a passare dall'attesa (la scelta di nascondersi e di stare al riparo dentro l'hotel fino a quando le acque non si saranno calmate) all'azione. La sua è un'acquisizione di competenza, per cui trova il coraggio necessario e diviene un soggetto del fare. Ed è proprio in questa acquisizione che egli diviene inevitabilmente un eroe. Se nella prima parte del film Paul è interessato a servirsi dei suoi vantaggi di uomo influente solo per salvarsi (e salvare ovviamente la sua famiglia, che, a livello narrativo, possiamo considerare come un unico attante insieme a lui), da metà in poi diviene l'eroe capace di salvare migliaia di persone e di restituire loro la speranza.

Utilizzare figure eroiche per raccontare i drammi peggiori della storia del secolo scorso non è un'operazione nuova; "Schlinder List" in questo senso è il rimando intertestuale più immediato. La differenza con l'Olocausto è però nella quantità di discorsi (storici, letterari, artistici e cinematografici) circolanti sull'argomento. L'audience occidentale, e in particolare gli spettatori di film (hollywoodiani o meno), non hanno mai avuto modo di confrontarsi con rappresentazioni differenti del genocidio rwandese. La narrazione attraverso una figura eroica è una scelta quantomeno riduttiva rispetto alla complessità del tema rappresentato (che coinvolge la definizione di identità culturali oltre che di processi storici, direttamente implicati nel campo delle relazioni di potere tra Primo e Terzo Mondo).

Come ha scritto Boubacar Boris Diop, in Rwanda. Murambi, il libro delle ossa, uno dei primi romanzi sul genocidio:

Cornelius (uno dei personaggi, nda.) sapeva bene che il genocidio non era come uno di quei film d'azione in cui i deboli possono sempre contare sull'arrivo, all'ultimo momento, di un giovane eroe pieno di forza e di coraggio. [...] Almeno Siméon (il saggio di Murambi, nda.) gli aveva fatto intuire questo: il genocidio non è una storia come un'altra, con un inizio e una fine, tra i quali si svolgono avvenimenti più o meno ordinari. Senza aver mai scritto una riga in vita sua, Siméon Habineza era a modo suo un vero romanziere, un narratore di eternità30.

È rilevante il fatto che uno scrittore africano, in un romanzo (quindi un'opera di fiction), si trovi di fronte all'impossibilità di seguire linearmente uno sviluppo narrativo e trovi la soluzione del romanzo a più voci, in cui il punto di vista viene continuamente ribaltato, gli slittamenti temporali e spaziali si susseguono e il tempo lineare e consequenziale viene sostituito in una circolarità ripetitiva.

La questione dell'identità e il disinteresse dell'Occidente

Si è parlato in precedenza della questione della definizione delle identità all'interno dei meccanismi testuali. Tema centrale soprattutto nella rappresentazione di una storia avvenuta durante il genocidio, in cui le definizioni identitarie risultano fondamentali nell'ambito del conflitto in corso. E le identità chiamate in causa in "Hotel Rwanda" non sono solamente quelle di "hutu" e "tutsi", ma soprattutto quelle "africana" e "occidentale", di modo che la loro relazione viene costantemente problematizzata, quantomeno a livello di conflitto interiore dell'attante principale.

La questione e la divisione etnica è alla base del genocidio; in "Hotel Rwanda" viene fin da subito portata alla luce (dai primi secondi del film, quando, su schermo nero, si sente una voce radiofonica che spiega le ragioni dell'odio degli Hutu contro i Tutsi31). Ogni attore del testo filmico è chiamato a definirsi in base alla dicotomia Hutu-Tutsi, soprattutto nella contingenza dell'evento genocidiario. La spiegazione di tale dicotomia è fornita allo spettatore occidentale attraverso un brevissimo dialogo in cui si spiegano le basi somatiche ( a cui ovviamente erano collegate ben precise qualità morali) della differenza razziale, stabilita per la prima volta dal governo coloniale belga, che, nel 1931, stabilì l'obbligo dell'indicazione dell'appartenenza razziale sulle carte di identità. La responsabilità di questa divisione, la cui ingiustizia costituisce un sostrato valoriale costante, è attribuita esplicitamente nel film all'amministrazione belga. Emerge così chiaramente che una categoria come la razza è una costruzione storica, politica e culturale, che porta avanti una differenza non naturale, ma posizionale, congiunturale e contestuale. Lo dimostrano del resto in modo molto chiaro le operazioni dei colonizzatori belgi nel piegare la lingua stessa dei rwandesi alla rappresentazione occidentale del mondo:

parler des Hutus e des Tutsi, c'est donc s'interroger sur ce qu'il est convenu d'appeler les ethnies au Rwanda. On est distingue trois: les Tutsi [...], les Hutu [...], les Twa [...]. Nous employons pour parler d'eux un mot prélevé du vocabulaire des sciences, et utilisé couramment aujourd'hui dans les médias: ethnie, un mot occidental. Existait-il dans leur langue, le kinyarwanda, un mot correspondant à cette notion? Le kinyarwanda est une langue très riche, presque sophistiquée, abondamment pourvue de concepts abstraits mais il n'existait aucun mot correspondant à "ethnie". Le mot n'existait pas, parce que la différence entre les catégories identitaires au Rwanda n'était absolument pas perçue en ces termes. Quand donc en 1931, l'administration belge voulut obliger chaque individu à porter en livret d'identité avec mention ethnique en trois langues - français, néerlandais, kinyarwanda - on ne trouvat pas de mot pour traduire "ethnie". On a alors détourné un autre mot de son sens premier, le mot-clé de cette partie du spectacle où nous sommes, Ubwoko. Ubwoko signifiait: clan. Une toute autre réalité. Il y a au Rwanda un peu moins d'une vingtaine de clans et ceux-ci n'ont aucun rapport avec la question ethnique, puisque tous les clans comportent, dans des proportions variables, des Hutus, des Tutsi et des Twa. [...] Dans cet écart sémantique se dévoile peut-être le premier indice, essentiel, de la différence entre la réalité vécue par les rwandais avant notre arrivée et le regard que nous avons posé sur elle.32

Ma l'identità rwandese non è rimasta ferma a questa dicotomia; la liberazione dal colonialismo ha rappresentato per questo paese, come per molti altri usciti dalla medesima esperienza di amministrazione coloniale, la costruzione di una nuova identità, a partire non da forme occidentali, ma dalla diversità delle forme culturali e spirituali sopravvissute al colonialismo, attraverso percorsi di emancipazione culturale prima e politica poi. Questo ha comportato la circolazione in Occidente di una serie di rappresentazioni "anticoloniali" dell'Africa33, che ponevano l'enfasi sul confronto tra culture e sui nazionalismi, mettendo in questione l'impatto delle moderne culture metropolitane occidentali sulle tradizioni locali.

Nella definizione identitaria dei rwandesi non può però non sopravvivere l'eredità coloniale, non solo per le categorizzazioni che hanno plasmato la società, ma anche per la continua relazione con le identità occidentali e con il loro esempio.

Il personaggio di Paul, in "Hotel Rwanda" vive in prima persona questo conflitto, nella sua ambizione a essere riconosciuto dagli occidentali come un pari e non come un africano, un nero. Il grido che sembra alzarsi inizialmente dal suo desiderio di compiacere gli occidentali e poi nelle sue richieste d'aiuto (che, generalizzate, sono le richieste di aiuto e di attenzione di un paese del Terzo Mondo sconvolto dal genocidio all'intera comunità occidentale e alle forze dell'Onu) è quello del "Riconoscetemi!".

Di fronte alla sconfitta personale (e a quella delle ragioni del Rwanda nei confronti della comunità internazionale) rappresentata dalle parole del generale dell'Onu Olivier (la trasposizione cinematografica del generale Dallaire) "Per noi occidentali, per le superpotenze, per noi, siete immondizia", a Paul non resta che interrogarsi, frustrato, sulla propria identità: "Io non ho storia, io non ho memoria, io sono un idiota".

La contrapposizione tra la tragedia del popolo rwandese e il disinteresse della comunità internazionale che non solo non interviene militarmente per fermare il genocidio, ma anzi fa evacuare dal paese solamente i propri cittadini e osserva svogliatamente le immagini dei massacri al riparo di uno schermo televisivo, è uno dei nuclei forti del film. Il ruolo degli occidentali (con le significative eccezioni dei volontari della Croce Rossa e delle suore missionarie) è quello di spettatori passivi della tragedia; le strategie discorsive del film, spesso attraverso l'uso di mezzi apertamente retorici, puntano a mostrare il conflitto tra azione (disperata) dei rwandesi e passività (privilegiata) degli occidentali, la prima connotata in maniera euforica, la seconda ripetutamente condannata. Lo spettatore viene chiamato attraverso i meccanismi di immedesimazione cinematografica a condividere la disperazione e la speranza dei rwandesi non tanto nell'affrontare i massacri, quanto nel sopportare e superare il disinteresse di un Occidente che si rifiuta di riconoscerli. E allo stesso tempo, proprio in quanto occidentale, lo spettatore si trova diviso, poiché il disinteresse e l'abbandono rappresentati lo chiamano direttamente in causa, si riferiscono a lui e alla sua comunità di appartenenza. La reazione inevitabile è quella del senso di colpa, che viene superato proprio con l'immedesimazione nei meccanismi narrativi, di modo che il film arriva a configurarsi esso stesso come un tentativo di riparazione attuale nei confronti dei Rwandesi per il totale disinteresse del passato.

Un esempio concreto dei processi appena descritti è rappresentato dal trailer di presentazione del film utilizzato per il sito e per il DVD. Qui di seguito sono riportate le nove inquadrature che lo compongono e che costruiscono una mini sequenza rappresentativa dei processi di rappresentazione culturale messe in atto nel film. Tutti gli elementi discorsivi retorici di cui si è parlato in precedenza sono presenti: l'enfasi sul distacco causato dagli scontri (a cui seguono la paura e i ricongiungimenti finali), il disinteresse dell'Onu, la forza di un eroe in grado di restituire la speranza al suo popolo. La strategia discorsiva della ripetizione successiva di un'immagine e di un suo particolare (mentre il testo rimane invariato), la presenza costante di Paul e dei bambini, così come le immagini finali delle suore missionarie (con il crocifisso) aumentano l'enfasi e la forza dell'uomo che riesce rimanere in piedi, stremato, in mezzo alla tragedia.

Particolare attenzione merita poi l'ultima diapositiva, in cui il film viene presentato come una "true story". Paul Rusesabagina è anche una persona reale, che ha veramente salvato migliaia di vite durante il genocidio e che vive ora in Belgio. L'enfasi sulla verità della storia diviene però in questo caso un meccanismo testuale; il rimando alla "Storia" è evidente così come la pretesa di realtà.

Conclusioni

Analisi come quella che si è fin qui condotta permettono di sottolineare le molteplici variabili che intervengono nei processi di testualizzazione (traduzione) della realtà storica, variabili proprie sia dei mezzi adottati nella narrazione (cinematografica in questo caso) sia delle culture che li producono per un particolare pubblico di riferimento che li riceve.

I meccanismi attraverso cui un film come "Hotel Rwanda" agisce sui propri spettatori sono stati evidenziati e si è mostrato come una testo-traduzione culturale possa avere dei grossi limiti nella rappresentazione di culture "altre".

Tenendo presente il fatto che traducendo una cultura la si rappresenta, la si predica e la si designa continuamente in modo nuovo è giusto interrogarsi sulle possibilità di "resistenza" che pratiche narrative e traduttive lasciano aperte.

La traduzione diviene così un progetto non solo linguistico e critico, ma anche etico e politico, vale a dire essa stessa una pratica culturale e sociale. È possibile cioè organizzare attraverso la narrazione-traduzione uno spiazzamento del discorso dominante, di modo che le forme di subordinazione siano convertite in atti di affermazione e sfida degli ordini dominanti.

Attraverso l'elaborazione di un'idea originale di stile di enunciazione, creando una confusione tra linguaggio e metalinguaggio propri del processo traduttivo, puntando l'attenzione sulle strategie stesse di testualizzazione, rappresentando il meccanismo testuale, si spiazzano il discorso dell'Occidente e i meccanismi testuali di cui esso si serve (molti dei quali sono propri anche del film analizzato). Si può così arrivare a una traduzione estraniante come forma di resistenza contro l'etnocentrismo e il razzismo, il narcisismo culturale e l'imperialismo, nell'interesse di relazioni geopolitiche democratiche34.

Il narratore-traduttore consapevole deve quindi essere cosciente del fatto che i termini universali di identificazione non hanno definizioni universali, ma che in ogni caso gli individui partono da essi nella costruzione delle proprie identità individuali e collettive: in questo modo sarà obbligato a cercare nuovi "frame" concettuali per presentare una cultura a un'altra, senza dare per scontato di trovarne di già pronti nella cultura di arrivo. Così l'obiettivo del traduttore dev'essere quello di realizzare un'inchiesta:

thus an increase in subjectivity is linked to the problematizing of identity [...] and to further investigation of how apparently inexplicable things might be comprehended without making them explicable in familiar terms (and without allowing them to appear simply different)35.

Tenendo presente il fatto che i "frame" di riferimento non sono direttamente interscambiabili tra due culture, il traduttore non può che crearne di nuovi, adoperandosi così per una critica del concetto stesso di "frame" come "starting point" di una discussione sulle pratiche traduttive.

Del resto, come ha di recente sottolineato Homi Bhabha36, la categoria stessa di identità (fondamentale per l'intera antropologia) andrebbe rimessa in discussione a causa della sua mobilità e instabilità. L'obbligo di definizione dell'identità che l'Occidente impone alle culture dominate ha un forte potere di limitazione, essendo il frutto di una reiterata oppressione che costringe un popolo alla categorizzazione entro schemi fissi. Attraverso l'analisi dei significati testuali e metaforici lo studioso indiano propone invece di concentrare l'attenzione sui confini culturali delle nazioni che diventano soglie di significato da attraversare e tradurre nei processi di produzione e di scambio culturale.

È allora possibile con la pratica traduttiva inseguire e spiazzare le tracce dell'altro nel sé oltre che del sé nell'altro:

teatralizzando il linguaggio, mettendo in scena la lingua in quanto macchina retorica della rappresentazione, si produce una pratica critica che intende essere una forma di azione sociale, e perciò "politica".
Tradurre diviene soprattutto un modo per superare i confini dell'identità, una pratica in cui il linguaggio è lo spazio dove il sé può aprirsi alle tracce e alle figure dell'altro37.

Nasce ad esempio da una pratica discorsiva di questo tipo Rwanda 94. Une tentative de réparation symbolique envers les morts, à l'usage des vivants, spettacolo teatrale di sei ore, in francese e rwandese, che si propone come esempio contemporaneo di teatro politico. L'esempio è il teatro politico brechtiano e il teatro documento di Peter Weiss la cui "Istruttoria" è una delle testimonianze più alte sulle atrocità dei campi di sterminio nazisti. Si tratta di uno spettacolo costruito su più livelli, con più lingue, utilizzando più voci che si alternano nell'intento di restituire alla rappresentazione teatrale quella funzione di arena di confronto e di ricerca/espiazione della responsabilità collettiva che aveva nell'antichità greca (il teatro della polis). Uno spettacolo di questo tipo, grazie all'uso esasperato e nuovo dei mezzi espressivi, alla loro contaminazione sempre nuova, alla difficoltà della fruizione, costituisce un ottimo esempio di pratica discorsiva "resistente".

1 D. Robinson, Translation and Empire. Postcolonial Theories Explained, Manchester, St Jerome Publishing, 1997, p.15.

2 D. Robinson, op. cit., p. 14.

3 www.cyberartsweb.org/post/poldiscourse/holla4.html

4 Lo stesso discorso vale per il concetto di genere.

5 C. Demaria, Teorie di genere. Femminismo, critica postcoloniale e semiotica, Milano, Bompiani, 2003, p. 15.

6 T. Asad, "The Concept of Cultural Translation in British Social Anthropology", in J. Clifford, G. E .Marcus Writing Culture: The Poetics and Politics of Ethnography, Berkeley and Los Angeles, university of California Press, 1986, p. 141.

7D. Robinson, op. cit., p.3.

8 D. Robinson, op. cit., p. 43.

9 A. Dingwaney, C. Maier (a cura di), Between Languages and Cultures. Translation and Cross-Cultural Texts, Pittsburgh and London, University of Pittsburgh Press, 1995, p. 4.

10 S. Nergaard, La teoria della traduzione nella storia, Milano, Bompiani, 1993.

11 A. Lefevere, Translation, Rewriting & the Manipulation of Literary Fame, London and New York, Routledge, 1992 (tr. it. Traduzione e riscrittura. La manipolazione della fama letteraria, Torino, Utet, 1998).

12C. Demaria, op. cit., p. 129, con esplicito riferimento a C. Steiner, After Babel, Oxford, Oxford University Press, 1975 (tr. it., Dopo Babele. Il linguaggio e la traduzione, Firenze, Sansoni, 1984).

13 G. C. Spivak, In Others worlds. Essays in Cultural Politics, New York and London, Methuen, 1988.

14 Si pensi al paradigma orientalista definito da E. Said in Orientalism, New York, Pantheon Books, 1978 (tr. it. Orientalismo, Milano, Feltrinelli, 1999).

15 L.Venuti, "Translation as Cultural Politics: Regimes of Domestication in English", Textual Practice, 7.2, 1993, p. 209.

16 C. Demaria, op. cit., p. 123.

17 A. Dingwanei, "Preface" in A. Dingwaney, C. Maier, op. cit., p. xi.

18 L. Venuti, "Translation and Minority", num. monografico di The Translator, 4, 2, 1998, come riportato in Demaria, op. cit., p. 164.

19 Si veda in proposito T. Asad, e P. Dixon, "Translating Europe's Others.", in Europe and Its Others, Ed. Francis Barker et al. Colchester : U of Sussex P, 1985, pp. 170-193.

20 L. Venuti, The Scandal of Translation: Toward an Ethics of Difference, London & New York, Routledge, 1998, p. 68.

21 L. Venuti, "Translation as Cultural Politics", op. cit., p. 210.

22 M. Sengupta, "Translation as Manipulation: The Power of Images and Images of Power", in A. Dingwaney, C. Maier (a cura di), op. cit., p. 159.

23 C. Maier, "Toward a Theoretical Practice for Cross-Cultural Translation" in A. Dingwaney, C. Maier (a cura di ), op. cit., p. 25.

24 M. Prasad, "On the Question of Theory of (Third World) Literature", Social Text 31/32, 1992, pp. 57-83.

25 M. Prasad, op. cit., p. 68.

26 M. Prasad, op. cit., p. 68.

27 C. Maier, op. cit., p. 25. In questo passo, a proposito della distinzione tra differenza e disuguaglianza, C. Maier cita direttamente gi studi di Ella Shohat e S. P. Mohanty.

28 Da ricordare in proposito il rivoluzionario saggio di L. Mulvey, "Visual Pleasure and Narrative Cinema", Screen, 16, 3, 1975 (tr. it. "Piacere visivo e piacere narrativo", Nuova DWF, 8, 1978).

29 C. Demaria, op. cit., p. 170.

30 B. B. Diop, Rwanda. Murambi, il libro delle ossa, Roma, Edizioni e/o, 2004, pp. 175-176, 178.

31 Voce fuoricampo: "When people ask me, good listeners, why do I hate all the Tutsi, I say, "Read our history." The Tutsi were collaborators for the Belgian colonists, they stole our Hutu land, they whipped us. Now they have come back, these Tutsi rebels. They are cockroaches.."

32 Dal testo dello spettacolo Rwanda 94. Une tentative de réparation symbolique envers les morts, à l'usage des vivants, riportato in A. Cambi (a cura di) Italy for Rwanda 1994-2004, Teatri 90 Edizioni, 2004 (corsivo finale mio).

33 Si pensi ad esempio all'antologia di Heinemann sulla letteratura africana, su cui si sofferma L. Venuti in The scandal of translation, op. cit., p. 167-168.

34 L. Venuti, The Translator Invisibility: A History of Translation, London and New York, Routledge, 1995, p. 45 (tr. it. L'invisibilità del traduttore. Una storia della traduzione, Roma, Armando Editore 1999).

35 C. Maier, op. cit., p. 31.

36 Durante la conferenza al Salone del Libro di Torino del 9 maggio 2005 intitolata "Lingua Madre. Dall'India Homi K. Bhabha".

37 C. Demaria, op. cit., p. 157.

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