El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Scrivere la testimonianza, scrivere la speranza: il ruolo della letteratura africana di fronte al genocidio

Alessandro Corio

Si nous ne sommes absolument rien, pourquoi écrire ?
Véronique Tadjo
Aujourd'hui plus qu'hier écrire est une urgence face aux menaces de l'égarement humain. Les auteurs du Sud doivent faire de la résistance.
Ainsi écrire peut être un devoir, par civisme.
Il faut écrire pour témoigner, pour dénoncer.
Il faut écrire pour changer et faire changer le cours des événements.
Il faut écrire pour participer, apporter sa contribution.
Il faut écrire pour être, car il ne s'agit que d'humain. De rien d'autre.
Il faut écrire pour les autres, pour soi et pour faire partie des autres.
[...]
Écrire aujourd'hui n'est pas seulement écrire pour les révoltes, les questionnements métaphysiques, les dénonciations, les menaces, c'est aussi écrire sur la beauté, l'amour et la tolérance. Il faut écrire l'Espoir, si cela est encore permis.
Ken Bugul

Scrivere sul genocidio. Scrivere sul Rwanda. Scrivere perché? Scrivere per chi? Soprattutto, che senso ha scrivere, di fronte ad una realtà così tremenda ed inspiegabile che così tanti vorrebbero dimenticare, cancellando i segni di una memoria dolorosa, scritta nella carne viva del presente con le armi più perverse e atroci della violenza umana? L'incontro della scrittura con la realtà del genocidio e con la sua memoria scatena interrogativi enormi, destinati a restare aperti come ferite che non possono rimarginarsi, e che non riguardano soltanto la letteratura "strictu sensu", ma qualcosa di più ampio ed umano, "troppo umano". Se la "banalità del male" ha trovato nel genocidio rwandese una delle sue più forti espressioni, in quello che è stato definito un "genocidio della prossimità" proprio per l'incontestabile vicinanza sociale, culturale ed umana di vittime e carnefici, quale forza e quale prossimità possono cercare la parola e la rappresentazione? Quale punto di vista può legittimarle? Quale tentativo di un'interpretazione oggettiva può presumersi libero dalla contaminazione dell'emozione, dell'indignazione, del rifiuto? È legittimo utilizzare del materiale umano così impregnato di sofferenza per fare della letteratura, delle opere di invenzione e fantasia, o che comunque, nei codici semantici condivisi, si presumono tali? Quale può essere quindi il rapporto tra letteratura e impegno ed in particolare il senso e la forma dell'interazione tra immaginazione poetica e realtà storica? Il tentativo di attribuire un senso al genocidio ci pone in rapporto con una parola che resta disarmata e che rischia di fallire o di non risultare all'altezza del suo compito; una parola che rischia di arenarsi nella retorica e che, di fronte all'emergere brutale della violenza e della crudeltà, non può certo abbandonarsi ad esercizi di stile o a giochi narrativi e meta-narrativi. Insomma, di fronte al genocidio la letteratura si ritrova a stretto contatto con le tematiche dell'impegno, della testimonianza, della memoria, della dialettica fra bene e male, del potere, che troppo spesso, ultimamente, ha accuratamente evitato non essendone all'altezza o, nel migliore dei casi, percorrendo altri territori meno rischiosi. Proprio dall'indifferenza e dalla reticenza di intellettuali, giornalisti, scrittori, soprattutto in Africa, a riflettere e ad impegnarsi direttamente con la loro opera letteraria e critica nella denuncia e nell'analisi delle tragedie che percorrono ripetutamente questo continente, nasce nel 1996 il progetto Rwanda: écrire par devoir de mémoire.

Il titolo stesso del progetto ci pone di fronte ad alcuni interrogativi e riflessioni essenziali che coinvolgono direttamente il senso e le modalità della parola letteraria e del suo rapporto con l'"impegno". Se la memoria diventa un dovere, un imperativo morale, non rischia forse di perdere la spontaneità e l'intima necessità che la lega al divenire storico, scivolando pericolosamente verso derive ideologiche? Il "dovere della memoria" rivela senz'altro un vuoto ed una tentazione di oblio e quindi la necessità di una "riparazione" attraverso la testimonianza. Il legame tra letteratura ed impegno, come si è manifestato in Europa soprattutto negli anni '60 - '70, ha rivelato tutti i suoi limiti conducendo ad un progressivo distacco dello scrittore "post-moderno" dalla realtà storica e sociale e ad un progressivo ripiegamento nichilistico e metaletterario della parola poetica e della soggettività dello scrittore, tormentato dal dubbio dell'infiltrazione degli "ordini del discorso" dominanti nella sua stessa voce. Se da una parte, nelle sue migliori espressioni, questa letteratura post-moderna ha rivelato la crisi del linguaggio e dell'autorità del soggetto in Occidente, è altrettanto spesso caduta in un abbandono della vitale interazione tra parola letteraria e realtà storica senza riuscire a "rifondare" nuove forme narrative e poetiche di impegno.

Il legame tra letteratura ed impegno risulta a tutti gli effetti "originario e fondante" nella letteratura negro-africana. Il 1959, oltre ad essere l'anno della cosiddetta "rivoluzione sociale" in Rwanda e l'inizio delle ondate di violenza nei confronti dei Tutsi, è anche l'anno del II Congresso degli Scrittori ed Artisti Neri svoltosi a Roma. Come ci ricorda Eloïse Brezault1, in quell'occasione venne promulgato l'impegno come atto necessario delle letterature nere:

L'artiste noir se devait de rechercher "l'expression vraie de la réalité de son peuple, longtemps obscurcie, déformée ou niée au cours de la période de la colonisation. [...] L'écrivain noir ne peut que participer de manière spontanée et totale au mouvement général précédemment esquissé. Le sens du combat lui est donné d'emblée, comment pourrait-il refuser ?".

Queste parole, consone allo spirito e alle sfide politiche e culturali dell'epoca, destano, se rilette oggi, non pochi sospetti. L'"impegno politico" è stato in effetti una delle fonti principali della letteratura africana nel periodo della decolonizzazione, principalmente negli anni '60-'70, ma, come afferma Lilyan Kesteloot2, molta di questa letteratura è stata progressivamente costretta da "norme ideologiche" che vedevano nella Storia e nell'Impegno gli unici strumenti analitici possibili, sacrificando così la "lotta poetica" alla "lotta politica". A partire dagli anni ottanta una nuova generazione di scrittori ha cominciato a modificare sensibilmente questa prospettiva, affrancandosi dalle costrizioni precedenti: militanza, anelito profetico e pedagogico, vox populi ecc, ossia tutti i cliché della letteratura "engagée", individualizzando la propria ricerca letteraria, perseguendo obbiettivi e punti di vista più personali ed indipendenti e soprattutto affinando la ricerca stilistica. A partire dagli anni '80, dunque, il discorso teleologico dell'impegno politico lascia il posto ad un discorso fortemente pessimista e di denuncia, al quale non può più accompagnarsi l'impegno del soggetto dell'enunciazione, dell'autore-soggetto politico, il quale rivela così la sua crisi e la sua impotenza di fronte ai mali di cui soffre il suo continente. La lotta politica lascia così il posto alla disillusione, come già testimoniava il celebre romanzo di Ahmadou Kourouma del 1968 Les Soleils des Indépendances, spingendo al tempo stesso lo scrittore ad una ricerca più profonda sulla parola letteraria e sul suo rapporto con la grottesca, violenta e spesso insensata realtà che cerca di rappresentare.

La letteratura sul genocidio del Rwanda, inserendosi nel quadro più ampio delle letterature africane degli ultimi anni e in una rinnovata attenzione degli scrittori ai drammi che si ripetono nel loro continente3, ripropone la necessità dell'impegno e della testimonianza contro le tentazioni dell'oblio e del negazionismo, proponendo al tempo stesso una "rottura formale" con la letteratura impegnata degli anni settanta alla ricerca di una o più forme narrative nuove capaci di dire l'indicibile. Questa ricerca si accompagna inestricabilmente ad una costante interrogazione sull' "io narrante" e sul ruolo dello scrittore e della letteratura nella società. Come afferma Tierno Monenembo, "il romanzo è un luogo di denuncia, un luogo di ribellione. Il fatto stesso di scrivere è una forma di impegno e la letteratura africana comincia con dei regolamenti di conti".4

Il progetto Rwanda: écrire par devoir de mémoire nasce su iniziativa di Nocky Djedanoum e di Maïmouna Coulibaly, fondatori dell'associazione Arts et Médias d'Afrique e poi, nel 1993, del festival di Lille Fest'Africa. Nel 1996, come ci hanno raccontato Boubacar Boris Diop e Tierno Monenembo, nel corso del festival giunse la notizia della barbara uccisione per impiccagione da parte del governo nigeriano dello scrittore Ken Saro-Wiwa. La notizia scatenò un senso di impotenza ed indignazione e la necessità di una reazione. Nocky Djedanoum ha così deciso di contattare dieci scrittori africani e di proporgli un progetto di viaggio in Rwanda per visitare i siti del genocidio, effettuare studi, incontrare i sopravvissuti ed ascoltare la loro testimonianza, allo scopo di produrre in seguito dei testi in un'assoluta libertà formale. Le parole di Nocky Djedanoum testimoniano lo spirito di indignazione e la necessità di impegno da cui è nato questo progetto, al tempo stesso collettivo ed individuale:

Quand j'ai découvert les images du génocide rwandais au cours duquel un million de personnes ont été massacrées en quatre mois, je me suis dit qu'il fallait réagir. Mais quoi faire ? Au Rwanda, la parole a été totalement manipulée, détournée, le mot haine, qui n'existait pas, a même été créé. Il fallait reprendre la parole et aussi briser le silence des intellectuels africains sur ce génocide et plus largement sur l'Afrique, un continent meurtri par les tragédies : je suis né au Tchad en 1959, depuis vingt ans mon pays est en guerre ! Il fallait aussi faire un travail de mémoire, œuvrer contre l'oubli et le négationnisme.5

I dieci scrittori contattati, in un primo momento perplessi ed un po' reticenti, hanno poi accettato la sfida e sono partiti per un primo soggiorno di ricerca e scrittura a Kigali nel 1998. Durante il viaggio hanno avuto occasione di documentarsi nelle biblioteche e nei centri culturali, di incontrare i sopravvissuti, ma anche i carnefici, gli studenti, le associazioni umanitarie presenti in Rwanda, di visitare i siti del genocidio. Ogni scrittore è stato libero di spostarsi individualmente dove voleva e di seguire un proprio percorso di ricerca e di scrittura.

La maggior parte dei testi sono stati pubblicati nel 2000. Gli scrittori hanno poi partecipato a tre colloqui per confrontarsi direttamente col loro pubblico: il primo nel mese di giugno a Kigali, poi in ottobre a Lille, infine in novembre a Parigi. Tutte queste manifestazioni avevano come scopo quello di parlare innanzitutto del genocidio, di cercare di spiegare ciò che è accaduto in Rwanda, di aiutare la società civile africana ed europea a prendere coscienza dell'ampiezza e della portata della catastrofe.

Possiamo raggruppare i dieci scrittori partecipanti al progetto in tre gruppi: il primo è composto da scrittori provenienti dall'Africa centro-orientale: Nocky Djedanoum (Ciad), Koulsy Lamko (Ciad), Abdourahman Ali Waberi (Djibuti), Meja Mwangi (Kenya); il secondo gruppo è composto da due scrittori rwandesi: Jean-Marie Vianney Rurangwa e Vénuste Kayimahe; il terzo gruppo è invece composto da quattro scrittori provenienti dall'Africa occidentale: Véronique Tadjo (Costa d'Avorio), Boubacar Boris Diop (Senegal), Tierno Monenembo (Guinea) e Monique Ilboudo (Burkina Faso). E' ancora Nocky Djedanoum a descrivere con le sue parole la forte spinta morale che ha coinvolto gli scrittori in questa impresa di testimonianza e, come vedremo, di forte ricerca interiore:

Cette expérience est unique dans la littérature africaine car aucune tragédie n'a mobilisé autant d'écrivains. Ceci nous fait penser que le Rwanda est devenu un lieu déterminant pour penser l'Afrique. Sur cette terre de l'innommable et du recueillement, les écrivains se sont engagés à poser à haute voix la question de leur responsabilité dans la prévention et la gestion des conflits. Devraient-ils continuer à garder le silence quand ici et là sur le continent africain, des guerres civiles ou dites " ethniques " plus meurtrières les unes que les autres se multiplient ? À cette question, ils ont répondu en se rendant sur le terrain.6

I testi prodotti dagli scrittori partecipanti al progetto testimoniano scelte di scrittura fortemente differenziate che rendono conto di attitudini e risposte diverse nei confronti delle questioni sin qui poste. Si è trattato per questi scrittori di oltrepassare lo spesso muro del silenzio e, soprattutto, del non-senso e dell'incredibilità dell'orrore che, come abbiamo detto, mette in crisi le capacità e il senso della parola letteraria. Si tratta, come ci ricorda ancora Eloïse Brezault, di "scrivere l'avvenimento del genocidio", ossia di riscriverlo per renderlo intelligibile, per passare dal disordine e dalla disperazione del non-senso ad un possibile ordine e significato. Quella che Romuald Fonkua7 ha definito "témoignage du dehors", in opposizione alla "témoignage du dedans" propria dei sopravvissuti, rimette pienamente in gioco il ruolo di impegno dello scrittore. La testimonianza, intesa come "scrittura dell'avvenimento", implica perciò una dialettica profonda tra realtà esteriore e fattuale e soggettivazione, portando lo scrittore ad una rimessa in questione delle proprie procedure di affermazione e di rappresentazione e ad una serie di scelte stilistiche che rispondano a quest'esigenza di nominare l'insensato e l'indicibile. Eloïse Brezault conclude il suo articolo affermando:

L'engagement de l'écrivain pourrait bien être dans cette écriture totalement subjective de l'Histoire : devant l'impensable, devant l'incroyable, il ne lui reste que le pouvoir de ses propres mots pour qu'un peu d'espoir renaisse au monde. Au lecteur de savoir en faire bon usage. Le combat n'est plus dans le militantisme exacerbé. Il n'y a plus de modèle à suivre, plus de discours unitaires, seulement des voix éparpillées qui, avec leur questions, bousculent le triste constat d'une Afrique à la dérive. C'est peut-être cela l'écriture de l'après Rwanda : des mots qui questionnent, qui fouillent, qui réécrivent l'Histoire officielle pour trouver du sens. Dessiller les yeux serait alors la première étape vers une nouvelle forme d'engagement enracinée dans le choix des mots de l'écrivain.8

Cercheremo quindi di percorrere queste "voci sparpagliate", presentando alcuni testi e rendendo conto delle differenti scelte letterarie, narrative, stilistiche operate dalle soggettività degli scrittori. Nocky Djedanoum, l'organizzatore del progetto, ha scelto la forma della raccolta di poesie, intitolata Nyamirambo!, dove egli lancia il suo grido di rivolta e di speranza rappresentando il Rwanda come la terra di tutti gli africani; Koulsy Lamko, ne La Phalène des collines, sceglie una forma ibrida tra teatro, poema in prosa e romanzo, con uno stile alto e lussureggiante (al contrario di quasi tutti gli altri scrittori) percorso al tempo stesso dall'ironia e dalla collera; Abdourahman Ali Waberi in Moissons de crânes. Textes pour le Rwanda scrive innanzitutto della difficoltà di narrare il genocidio interrogando la legittimità stessa della sua scrittura. Nella prima frase della prefazione egli annuncia: "Cet ouvrage s'excuse presque d'exister". Jean-Marie Vianney Rurangwa ha scelto invece di non seguire la strada della "fiction" attenendosi il più possibile alla realtà e cercando di spiegarla. Sottoforma di saggio pedagogico, Le génocide des Tutsi expliqué à un étranger vuole rispondere direttamente ai negazionisti e spiegare certi punti politici, sociologici ed ideologici sul Rwanda. L'altro scrittore rwandese, Vénuste Kayimahe, sceglie invece la forma della testimonianza raccontando la propria esperienza di sopravvissuto e il destino della sua famiglia in France-Rwanda: les coulisses du génocide che, come anticipato dal titolo, denuncia al tempo stesso il ruolo della Francia nel genocidio. I quattro scrittori dell'Africa occidentale hanno scelto la via difficile della "finzione narrativa", con risultati peraltro, come vedremo, tra loro estremamente differenti, nonostante la reticenza di molti sopravvissuti che hanno dichiarato di non volere che le loro esperienze dolorose venissero utilizzate come materiale letterario. Boubacar Boris Diop, autore di Murambi, le livre des ossements, spiega così la sua scelta : Je pense que la fiction est quand même un gage de liberté. Si l'on ne choisit pas la fiction, on se retrouve sur un terrain non familier, le terrain des historiens. [...] Lorsque l'on fait revivre l'Histoire, on évacue en quelque sorte l'émotion [...]. Le besoin d'exprimer [notre] colère, je crois que la fiction y arrive mieux que les textes écrits par les historiens ou les autres spécialistes des sciences sociales (philosophes, sociologues, voire journalistes).9 Véronique Tadjo, in L'Ombre d'Imana, voyages jusqu'au bout du Randa, sceglie anch'ella una forma particolare, a metà strada fra il racconto, il diario di viaggio e la raccolta di testimonianze. Monique Ilboudo in Murekatete si sofferma su un unico personaggio centrale, una sopravvissuta che perde ogni speranza di ricominciare a vivere quando vede suo marito, un soldato Tutsi, cadere nella follia. Infine Tierno Monenembo in L'Aîné des orphelins, immagina le vicende di Faustin, un bambino sopravvissuto, al tempo stesso vittima e criminale, condannato a morte per avere ucciso il compagno che aveva abusato della sorella.

Romuald Fonkua distingue tre condizioni alla base della produzione di questi testi: la prima è il viaggio, che diventa un tema in sé di quasi tutte queste opere; è un elemento fondamentale e necessario innanzitutto per poter rendere conto di un avvenimento storico e poterlo testimoniare. Il viaggio permette quindi di entrare in una relazione più profonda con la realtà del genocidio e con le tracce lasciate innanzitutto nelle vittime, ma anche nei carnefici. Il viaggio diventa poi un'esperienza interiore e sconvolgente che porta ad un'incessante interrogazione interiore testimoniata dalla scrittura. Il secondo elemento identificato da Fonkua è quello di "tenter de redire les mots inaudibles", di ricostituire cioè, attraverso la scrittura, una parola che è stata negata, deformata e manipolata dal genocidio. È quello che cerca di fare, come vedremo, Boubacar Boris Diop nel suo romanzo. Il terzo elemento è invece un drammatico sentimento di impotenza della parola nel rendere conto dell'insensatezza di ciò che è accaduto. Di fronte a questa impotenza della parola, gli scrittori sono costretti a rimettere in questione il ruolo stesso della letteratura.

Ci soffermeremo qui su tre testi in particolare che sono anche altrettante risposte, o tentativi di risposta, agli interrogativi sin qui proposti. Come vedremo, le scelte narrative e stilistiche dei tre autori (Boubacar Boris Diop, Tierno Monenembo, Véronique Tadjo) sono estremamente differenziate e percorrono territori differenti della letteratura, contaminando i generi e le forme alla ricerca di un possibile modo di raccontare l'indicibile e di riattivare il ruolo della coscienza umana di fronte e dentro la Storia.

* * *

Murambi, le livre des ossements dello scrittore senegalese Boubacar Boris Diop si presenta a prima vista come un racconto " realista " sul genocidio in Rwanda. Una definizione di questo tipo risulta però semplicista e riduttiva e rischia di evitare una serie di problematiche poste con vigore dalla scrittura di Boris Diop. Innanzitutto il testo in questione si presenta, se considerato nel continuum della produzione anteriore e posteriore dello scrittore, come una radicale rottura che rimette in questione il senso profondo della sua opera letteraria. Lo stesso scrittore ha definito la propria esperienza in Rwanda come una drammatica presa di coscienza dei propri limiti di intellettuale, scatenando un vero e proprio "bouleversement de l'écriture" che lo ha spinto a riconsiderare radicalmente il rapporto politico della scrittura con la realtà. Egli ha confessato in un'intervista che all'epoca del genocidio non aveva compreso nulla di ciò che stava accadendo in Rwanda, cedendo all'interpretazione diffusa della guerra etnico-tribale che opponeva due popoli tra loro nemici dalla notte dei tempi. Nel suo peraltro bellissimo romanzo Le Cavalier et son ombre, pubblicato nel 1997, egli si abbandona al gioco letterario, moltiplicando ed intrecciando le storie e i punti di vista e dedicando parte del romanzo, attraverso il mito e l'allegoria, ad una rappresentazione del genocidio. Si racconta di Khadidja, una ragazza che decide di dedicare la sua vita al racconto per un uomo che non vedrà mai e diventa pazza; una delle storie da lei inventate è proprio "Le Cavalier et son ombre", che narra di una guerra mitica ed immemorabile tra due etnie. Boubacar Boris Diop ha espresso a più riprese un giudizio molto severo sul modo in cui ha affrontato il genocidio in quest'opera che precede il suo viaggio in Rwanda:

Que Khadidja prétende, dans Le Cavalier et son ombre, avoir mal au Rwanda n'a en vérité aucun sens. Les vraies souffrances ont été pour les autres. L'auteur, très éloigné des événements, simplement désireux de faire vrai au prix de mille et une acrobaties de style, n'a en définitive connu que des dérisoires tourments esthétiques. [...] Je crois donc être bien placé pour savoir ce qui sépare un roman sur le génocide écrit de loin, dans le confort des habitudes quotidiennes et un autre écrit celui-là dans l'odeur de la mort. Dans le premier cas, la tentation de jouer avec les mots est très forte parce qu'en Afrique, la réalité, délirante et cruelle, semble faire une concurrence déloyale à la fiction. [...] Avant d'aller au Rwanda, je ne me sentais tenu à aucun respect pour les faits. [...] Ce désir d'écrire non avec des idées, mais avec des souvenirs voire avec les échos des paroles intérieures, lointaines et obscures, peut faire penser à de l'arrogance. D'être allé au Rwanda m'a fait comprendre qu'il fallait surtout y voir du désespoir et un sentiment d'impuissance.10

Ed è proprio da questa disperazione, da questo sentimento di impotenza innanzitutto della parola e della ragione che dobbiamo partire per leggere questo romanzo. Al contrario del precedente, qui sono proprio i fatti storici e politici a far sentire la loro presenza fondamentale nel racconto, il quale cerca di evitare il più possibile la sfera dell'immaginario semplificando la trama ad un unico nucleo fondamentale ed il più possibile aderente alla cruda realtà dei fatti. Non a caso il personaggio principale, Cornelius, proviene dall'esterno del paese, così come l'autore. Egli ritorna in Rwanda dall'esilio nel 1998, e lì incontra i suoi amici e l'unico sopravvissuto della sua famiglia. Il tema centrale dell'opera risulta quindi la ricerca della verità, da parte di Cornelius, su ciò che è accaduto nel 1994, ricerca che lo condurrà ad una terribile scoperta, caricandolo così del peso di una colpevolezza che credeva non lo riguardasse. La storia centrale è accompagnata da brevi capitoli che raccontano storie parallele di vittime e carnefici, tutte ricavate da testimonianze dirette e, a detta dello scrittore, modificate il meno possibile. Il drammatico sforzo della parola per aderire ad una realtà pressoché indicibile nella sua atrocità si avverte per tutta la durata del racconto, sfociando a tratti in drammatiche dichiarazioni di resa: Tout cela est absolument incroyable. Même les mots n'en peuvent plus. Même les mots ne savent plus quoi dire.11 Lo stile della scrittura di Boubacar risulta asciutto e semplice, caratterizzato da periodi brevi e da una sintassi prevalentemente paratattica; la trama è limpida e l'attenzione del lettore viene catturata dalla drammatica narrazione degli avvenimenti e dall'altrettanto drammatica presa di coscienza del protagonista. Lo scopo della narrazione, come confermatoci dall'autore, risulta principalmente pedagogico. Il tema principale risulta dunque quello della testimonianza di ciò che egli ha visto e ascoltato, ma la finalità della sua narrazione non è semplicemente quella di fornire una documentazione storica. Lo scopo principale, come dimostrano le parole conclusive del romanzo, è quello di costruire un ponte tra i morti e i viventi, di prestare la propria voce a chi non può, non vuole o non riesce a parlare, ponendo così le basi di una memoria che possa condurre alla speranza di una "rinascita dei viventi": Après une histoire pareille, tout le monde était, de toute façon, un peu mort. Il restait peut-être moins de vie dans les veines de l'inconnue que parmi les ossements de Murambi. [...] Il lui fallait voir son visage, écouter sa voix. Elle n'avait aucune raison de se cacher et lui avait le devoir de se tenir au plus près de toutes les douleurs. Il voulait dire à la jeune femme en noir [...] que les morts de Murambi faisaient des rêves, eux aussi, et que leur plus ardent désir était la résurrection des vivants.12 Il punto focale della tragedia e della presa di coscienza di Cornelius (personaggio che presenta evidenti elementi autobiografici, essendo la sua posizione equiparabile in parte a quella dell'autore) consiste nella sua scoperta della colpevolezza del padre, il Dottor Joseph Karekezi, l'organizzatore di uno dei massacri più spaventosi, quello avvenuto nella scuola tecnica di Murambi (un sito del genocidio visitato dall'autore), dove ha fatto uccidere con fredda determinazione migliaia di persone tra cui anche la moglie e i figli:

Demain, je serais là. Des ombres dans la brume de l'aube, face aux arbres immobiles. Des cris monteront vers le ciel. Je n'éprouverai ni tristesse ni remords. Ce seront des souffrances atroces, certes, mais seules les âmes faibles confondent le crime et le châtiment. Dans ces cris vulgaires, battra le cœur pur de la vérité. Je ne suis pas de ceux qui redoutent les ombres de leur âme. Mon unique foi est la vérité. Je n'ai pas d'autre Dieu. La plainte du supplicié n'est que ruse du diable. Elle veut obstruer le souffle du juste et empêcher sa volonté de se réaliser.13

Il personaggio chiave del romanzo risulta però il vecchio e saggio Siméon Habineza, l'unico ad aver compreso le ragioni profonde di ciò che è accaduto, il quale spinge Cornelius ad interrogare un livello di realtà più profondo, il mondo dei simboli che può legare la sua ricerca interiore al mistero profondo che si cela dietro le tragedie del presente. Ma le cause di ciò che è accaduto non si nascondono in qualche segno arcano e magico, bensì nel cuore stesso dell'uomo, nella sua avidità, nel suo desiderio di potere e di ricchezza, soprattutto nella paura. E' solo interrogandosi sui limiti dell'umano che si possono trovare le cause di questa follia:

Il émanait de lui une force indicible. Peu importait le nombres d'années que vivrait encore Siméon. Cornelius le verrait pour toujours irradiant de sa présence la rue déserte. Ainsi, dans le pays même où la mort s'était tant acharnée à vaincre toute énergie, la force de vie restait intacte. [...]
- Chacun doit chercher seul sa vérité. Personne ne pourra t'aider.
- Pas même toi ?
- Tu dois être comme le voyageur solitaire, Cornelius. S'il s'égare, il lève la tête vers le ciel et les arbres, il regarde dans toutes les directions. Pourtant, le voyageur aurait pu se dire en se baissant vers le sol : je vais interroger le sentier, lui qui est à cet endroit depuis longtemps doit pouvoir m'aider. Or il ne lui montrera jamais la voie à suivre. Le chemin ne connaît pas le chemin.14

Di fronte all'abisso dell'insensato e dell'atrocità più spietata che si rivelano al protagonista e con lui al lettore, la parola e la ragione umana possono ben poco. Nonostante l'impossibilità di comprendere a fondo l'enigma di ciò che è accaduto, il genocidio ha la potenzialità di rivelare alla società umana la sua intrinseca fragilità, spingendoci ad un atto di denuncia che deve essere continuo ed instancabile: Il dirait inlassablement l'horreur. Avec des mots-machettes, des mots-gourdins, des mots hérissés de clous, des mots nus et [...] des mots couverts de sang et de merde.15

Tierno Monenembo in L'Aîné des orphelins sceglie invece la forma della narrazione intradiegetica a "focalizzazione interna", assumendo cioè il punto di vista e la voce di un bambino sopravvissuto al genocidio ed ora racchiuso in una prigione e condannato a morte per aver ucciso un proprio compagno:

Je m'appelle Faustin, Faustin Nsenghimana. J'ai quinze ans. Je suis dans une cellule de la prison centrale de Kigali. J'attends d'être exécuté. Je vivais avec mes parents au village de Nyamata quand les avènements ont commencé. Quand je pense à cette époque là, c'est toujours malgré moi. Mais, chaque fois que cela m'arrive, je me dis que je venais d'avoir dix ans pour rien.16

A differenza di Boris Diop, Monenembo sceglie di raccontare quindi una sola storia, ma la struttura del romanzo non risulta più semplice, bensì più intricata, in un susseguirsi di ellissi e di analessi che frammentano il tempo lineare (compreso in un arco di tempo che va dal 1992 al 1998) e la successione degli avvenimenti, così come è frammentata la memoria stessa del protagonista a causa di un evento traumatico rimosso. La gioventù e l'esilio sono dei temi ricorrenti nella narrativa di Monenembo; in questo caso, però, il bambino protagonista è rappresentato come un anti-eroe, vittima e colpevole al tempo stesso avendo assorbito suo malgrado l'atrocità della violenza cui ha assistito e che, a sua volta, manifesta con un atteggiamento cinico e disincantato di fronte alla sua stessa morte. Ed è proprio nella particolare relazione che si elabora nel corso del romanzo tra il punto di vista del bambino-narratore e quello dell'autore che è racchiuso il senso profondo del racconto.

Come ci ha raccontato in un'intervista lo stesso scrittore, questa scelta narrativa nasce dall'esigenza di una presa di distanza da ciò che aveva visto ed ascoltato in Rwanda e quindi da un desiderio di oltrepassare i semplici fatti per cogliere il senso più profondo, oppure il non-senso, degli avvenimenti. Il risultato è quindi un romanzo che, piuttosto che presentarsi come un'opera sul genocidio, vi ruota attorno indagandone le profonde e tragiche conseguenze sull'animo e la coscienza umani e l'impossibilità di produrne una memoria lineare che ne sveli le cause e i significati. Il paradosso sembra così dominare in una scrittura dove prevale un'ironia caustica che si esprime in uno stile crudo, sgrammaticato e grottesco. Ecco ciò che ha affermato a questo proposito lo stesso Monenembo, nel corso dell'intervista concessaci:

Allora mi sono detto effettivamente che raccontare il genocidio, la fisiologia stessa del genocidio non aveva interesse in quanto tale perché penso che la violenza del genocidio sia molto meno, come dire ... nella forza di chi impugna i machete piuttosto che nelle conseguenze stesse del genocidio; è nella coscienza della rottura della coscienza umana, nel crollo della memoria che ho visto veramente la violenza del genocidio. Dunque, il romanzo ruota attorno a questo bambino, il personaggio principale, del quale ho descritto la vita dopo il genocidio. [...]Ciò che mi interessa veramente è il cedimento della memoria collettiva dopo il genocidio. Tanto nel caso degli ebrei, nel Rwanda, nel genocidio degli indiani d'America o dei neri durante la schiavitù, questo corrisponde per me ad un abisso nella coscienza umana. Parlando del genocidio del Rwanda, piuttosto attorno che sul genocidio, come avete detto, la questione che pongo è la questione della coscienza umana, la questione della responsabilità umana, la questione della morale umana. E' la morale umana e la coscienza umana che metto sotto accusa. Questo bambino ha ucciso un uomo ed è condannato a morte per questo. Gli altri hanno ucciso un milione di persone, ma in fin dei conti non sono degli assassini. L'assassino è colui che ha ucciso un uomo. E' per questo che ho citato quella terribile frase di Edmond Rostand: "Se uccidi un uomo, sei un assassino. Se ne uccidi migliaia, sei un conquistatore. Se li uccidi tutti, sei un dio!".

La realtà e le sue tracce sono peraltro ben presenti nella narrazione, nel corso della quale l'autore si sofferma su vari aspetti sociali e culturali di questo paese: le tradizioni orali e la superstizione, le religioni e il loro ruolo ambiguo durante il genocidio, le organizzazioni umanitarie, i giornalisti della stampa internazionale a caccia di notizie sensazionali, il fallimento della macchina della giustizia rwandese dopo il genocidio ecc. L'autore si sofferma anche su eventi realmente accaduti, come la morte della suora italiana Atonia Locatelli, che aveva cercato di denunciare i preparativi del genocidio, la morte del padre Manolo di fronte al Papa, giunto in visita nel paese poco prima degli avvenimenti, l'orribile uccisione di Théreza Mukandori, il cui corpo mummificato è esposto nella chiesa di Nyamata, infine l'orribile eccidio avvenuto in quella stessa chiesa, dove Faustin ha bevuto il sangue dei propri genitori uccisi di fronte ai suoi occhi e sotto i cui cadaveri si è nascosto ed è stato ritrovato. Quest'orribile verità risorgerà soltanto nelle ultime pagine del romanzo che mettono a nudo l'assurda e terribile insensatezza di una nuova nascita nel sangue che non può fondare che nuovo delirio e follia:

Mes souvenirs du génocide s'arrêtent là. Le reste, on me l'a raconté par la suite ou alors cela a rejailli tout seul dans ma mémoire en lambeaux, par à-coups, comme des jets d'eau boueuse jaillissent d'une pompe obstruée. Je ne sais pas qui, de mon père ou de ma mère, succomba le premier.
[...]
- Tu étais accroché à ta mère comme un nouveau-né et tu lui tétais les seins. Tu n'es pas un homme comme les autres. Tu es né deux fois pour ainsi dire : la première fois, tu as tété son lait et la seconde fois son sang ...17

Faustin non può comprendere nulla del mondo che lo circonda perché è completamente accecato dalla propria sofferenza; egli può soltanto raccontare, con l'energia e la violenza della sua rabbia, quello che ha vissuto. Nonostante questo, l'autore lascia permeare la voce narrante dall'ironia, dalla derisione, persino dalla fantasia verbale e dalla deformazione delle parole in uno stile quasi carnevalesco e "rabelaisiano" ("avènements", "pédrophiles", "taumatrismes", "busenessman"), con inserzioni di calchi dal kinyarwanda oppure di forme vicine all'oralità. A questo aspetto dello stile si intersecano una serie di scene di genere comico-grottesco e dei personaggi caricaturali che mettono in evidenza il ridicolo di certe figure come quella del cameraman-giornalista inglese, di cui Faustin diventa una guida che deforma costantemente i contorni di una realtà già di per sé incredibile per renderla vendibile alle televisioni occidentali. A questo si aggiungano i due personaggi di Funga e di Théoneste, il primo, uno stregone, simboleggia una visione del mondo ed un sistema di decodificazione della realtà che non hanno più senso oggi, dove la parola e la saggezza degli antenati non hanno più alcun referente; il secondo, padre di Faustin, rappresenta la figura del pazzo, che ritorna più volte nei romanzi di Monenembo, simbolo di una verità più profonda e di una chiaroveggenza oracolare che nessuno, però, è più in grado di decifrare e che per questo viene interpretata soltanto come follia.

Il romanzo di Monenembo rappresenta quindi una differente visione dell'impegno della letteratura, che si vuole il più lontano possibile dall'ideologia dei discorsi lineari e delle spiegazioni sempliciste. Resta pertanto centrale la finzione narrativa per indagare l'abisso dell'anima umana e del suo dolore, così che, mentre l'intento di Boris Diop era quello di cercare di "dire" la verità denunciando la menzogna, Monenembo confonde le tracce di ogni possibile verità unitaria cercando di avvicinarsi alle profondità dell'anima umana e della violenza storica che essa produce e subisce.

Abbiamo visto come, nel caso di Boubacar Boris Diop e di Tierno Monenembo, l'incontro tra la parola poetica e la dimensione dell'impegno abbia originato due modalità narrative e due forme di rappresentazione dell'"avvenimento" del genocidio tra loro molto differenti, anche se ugualmente efficaci. Il terzo testo che prenderemo in esame si differenzia ulteriormente dai precedenti per una scelta narrativa che resta a metà strada tra la testimonianza personale, raccolta in una sorta di "diario di viaggio", il racconto giornalistico e la finzione narrativa. Il testo di Véronique Tadjo, L'Ombre d'Imana, voyages jusqu'au bout du Randa, rappresenta dunque una sorta di ibrido narrativo, il che non significa affatto che i differenti registri stilistici non riescano a trovare un equilibrio ed una consonanza tra loro, pur nella "necessaria" frammentazione narrativa. Essi rivelano la specifica qualità dell'approccio intimo della scrittrice e i profondi riflessi che quest'esperienza ha generato in lei e nella sua scrittura.

Come nelle due opere precedenti risulta centrale il tema del viaggio, del tentativo di comprendere e rappresentare ciò che è accaduto in Rwanda pur non avendolo vissuto in prima persona, ossia quella che Romuald Fonkua ha definito "témoignage du dehors". Véronique Tadjo sceglie di raccontarci i suoi due viaggi in Rwanda ai quali intercala, nella parte centrale, una serie di testi prevalentemente di invenzione nei quali prevale la narrazione alla terza persona ed un notevole innalzamento del tono narrativo. Cominciamo innanzi tutto dal titolo, fortemente significativo. Facendo riferimento a Céline e al lato oscuro della natura umano-divina (l'ombra di Imana che, ricordiamolo, è il nome di dio per i banyarwanda), la scrittrice evoca subito un doppio viaggio. Accanto al viaggio geografico Véronique Tadjo ha infatti affrontato un viaggio interiore fino alle radici del male e della morte, due viaggi entrambi necessari per cercare di comprendere il genocidio e le forze che lo hanno generato. Questo viaggio fino al limite della morte raggiunge il suo culmine espressivo proprio nella parte centrale, il cui primo paragrafo è intitolato appunto "La colère des morts". La prima parte del libro, che descrive il suo primo viaggio, è caratterizzata da uno stile basso e dimesso e la scelta di una struttura flessibile come il "racconto di viaggio" le permette di alternare una serie di testi brevi e indipendenti, con frequenti e brusche rotture di stile e un'alternanza di passaggi più riflessivi con altri più narrativi. Comunque nella prima parte il racconto resta molto sintetico e procede per salti, senza una linearità narrativa; l'incontro con le differenti realtà del Rwanda e la loro spiegazione funge da pretesto alla riflessione intima dell'io narrante, la quale tende a prendere il sopravvento e nella quale alla frammentazione del racconto si accompagna la frammentazione della sintassi che tende al ritmo dell'oralità:

Le génocide est le Mal absolu. Sa réalité dépasse la fiction. Comment écrire sans parler du génocide ? L'émotion peut aider à faire comprendre ce qu'a été le génocide. Le silence est pire que tout. Détruire l'indifférence. Comprendre le sens réel du génocide, l'accumulation de la violence au fil des années. [...]
La réconciliation ?
Il faut reconnaître le Mal. L'exorciser par la justice, par une tentative de réelle justice.
Tant qu'il n'y aura pas cela, la peur restera. Elle est là. Elle n'est pas partie. Tout crime non puni engendra d'autres crimes. Les Hutus ont peur des Tutsis parce qu'ils sont au pouvoir. Les Tutsis ont peur des Hutus parce qu'ils peuvent s'emparer du pouvoir. La peur est demeurée sur les collines.18

Non mancano però, nella prima come nell'ultima parte del romanzo, una serie di ritratti e di storie tratti direttamente dalle testimonianze dei sopravvissuti e dei carnefici: la famiglia Kubwimana, l'avvocato di Kigali, "l'homme renversé", lo scrittore, il giornalista, la storia di Consolate, il capo del progetto ecc., ai quali si accompagnano, nella terza parte, il racconto delle visite alle prigioni sovraffollate dove sono ammucchiati i/le carnefici o presunti tali, il racconto delle "sette meraviglie" e della zairese che assomigliava ad una Tutsi. Ad essi si affiancano una serie di citazioni tratte da documenti che testimoniano in maniera diretta anche la brutale ideologia che ha spinto al genocidio, come "I dieci comandamenti dei Bahutus", tratti dalla rivista Kangura del 10 dicembre 1990.19 Insomma, l'esteriorità della realtà si affolla nel racconto di viaggio che non può prescindere dalla sua pesante presenza. La narrazione di Véronique Tadjo trasgredisce i generi costituiti e sceglie una scrittura dalle forme ibride che traduca l'ambiguità della sua posizione di scrittrice, chiamata a dire l'insensato, a narrare un "Male Assoluto" che non ha vissuto direttamente. Così, se il racconto di viaggio non può prescindere dall'esteriorità di cui non può fare astrazione, essa si alterna, nella parte centrale, con frammenti narrativi che permettono alla scrittrice di esprimere il proprio "sentimento personale e profondo" nell'orrore del genocidio. A tratti però la realtà più cruda sembra impadronirsi delle parole, congelandole in uno stile preciso, quasi "clinico", dove i fatti nella loro nuda brutalità assorbono completamente la narrazione. E' il caso della descrizione della chiesa di Nyamata, uno dei siti più sconvolgenti del genocidio, e della salma mummificata di Mukandori, una donna brutalmente violentata ed uccisa, che ritroviamo in quasi tutti i testi sul genocidio:

ÉGLISE DE NYAMATA

Site de génocide.
+ ou - 35 000 morts

La femme ligotée.
Mukandori. Vingt-cinq ans. Exhumée en 1997.
Lieu d'habitation : Nyamata centre.
Mariée.
Enfant ?
[...]

Elle a été violée. Un pic fut enfoncé dans son vagin. Elle est morte d'un coup de machette à la nuque. On peut voir l'entaille que l'impact a laissée. Elle porte encore une couverture sur les épaules mais le tissu en maintenant incrusté dans la peau.20

Non c'è biografia reale né immaginata. Solo la descrizione del cadavere e i dettagli più crudi e brutali. Nonostante questo, Mukandori diventa un simbolo di una popolazione intera sterminata da una violenza senza significato. Gli uomini sono ridotti a dei numeri anonimi e quest'utilizzo di un linguaggio statistico, che a volte tende a mimare l'informazione giornalistica standardizzata dei media occidentali e non, nasconde un'ironia disperata e feroce: l'uomo è ridotto ad una molteplicità di cifre e ad un macabro accumulo di ossa e di crani, di cui si nutrono i media per costruire il loro spettacolo sensazionalista.

La definizione proposta da Boniface Mongo-Mboussa di "docu-roman" non si adatta però ad altre parti di quest'opera e soprattutto ai quattro capitoli centrali, dove dei racconti in terza persona prendono il sopravvento, rompendo la linearità del racconto di viaggio ed innalzando lo stile ad un livello più alto. L'osservazione oggettiva e la riflessione da sole non bastano ad accedere alla verità. In questa parte si trovano, a nostro parere, alcuni tra i passaggi più belli del libro che, pur nella loro tragicità senza redenzione, si innalzano ad una dimensione etica e riescono ad abbozzare un filo sottile di speranza. L'autrice, passando ad una focalizzazione esterna, ci permette di condividere una serie di frammenti di esistenza, caratterizzati dall'incontro tra vittime e carnefici che, grazie ad una narrazione vibrante e partecipata, sebbene priva di intrusioni, rivelano di colpo la tragica assurdità dell'esistenza. Il racconto di Isaro, intitolato "Sa voix", è forse il più emozionante e significativo, nonché il meglio costruito, di tutta l'opera. Comincia con un colpo di telefono, dove lei crede di riconoscere la voce del marito morto suicida, in seguito alle accuse che lo coinvolgevano nell'omicidio di un'intera famiglia. Isaro dovrà però rendersi conto che la persona che ha incontrato non è suo marito, che i morti non ritornano e che è compito dei viventi di rinascere e costruire una società migliore che deve passare attraverso il perdono e l'assunzione delle proprie colpe:

- Ils reviendront un jour, j'en suis sûre ! S'écria Isaro.
- Non, ils ne reviendront plus, fit-il fermement. Ils ne reviendront jamais plus.
Alors, Isaro baissa la tête.
- Le temps nous observe, reprit-il. Il regarde ce que nous faisons de la mort des autres. Si nous échouons, il n'y aura plus d'espoir. Ceux qui sont partis nous ont laissé la terre dans laquelle leurs os se sont enfoncés. C'est à nous de reconstruire la vie. Notre longue attente doit cesser.21

Nell'ultima riga del racconto, lo sconosciuto con la voce del marito rivelerà la sua identità. E' il padre della famiglia che forse è stata trucidata proprio da suo marito. La tragica ed incredibile verità porta con sé un messaggio: liberarsi dal peso della colpa, punire i colpevoli, ma soprattutto non tradire i morti, ricostruendo una società dove la paura ed il rancore, semi di odi futuri, vengano cancellati per lasciare spazio alla speranza e scrivere un'altra storia.

1 Eloïse Brezault, " Engagement et témoignage autour de deux textes africains ", in Lendemains n° 112/2003, p. 92-104.

2 Lilyan Kesteloot, Les écrivains noirs de langue française : naissance d'une littérature, Bruxelles, Ed. de l'institut de sociologie, 1971.

3 Citiamo almeno i testi di Ahmadou Kourouma, Allah n'est pas obligé, e di Ken Saro-Wiwa, Sozaboy, che raccontano entrambi le avventure di due bambini soldato nelle guerre civili della Sierra Leone e della Nigeria.

4 Vedi la nostra intervista con Tierno Monenembo, dove ci siamo lungamente soffermati sulla nozione e le forme dell'impegno nella scrittura.

5 Nocky Djedanoum, " Nocky : le passeur d'Afrique ", entretien de François Lecocq, in Libr'aires : l'association des libraires de Lille, France, automne 2000.

6 Nocky Djedanoum, " Rwanda : écrire par devoir de mémoire " in Notre librairie, n° 138-139, Sept. 99- Mars 2000.

7 Romuald Fonkua, " À propos de l'initiative du Fest'Africa : témoignage du dedans, témoignage du dehors ", in Lendemains, n° 112/2003.

8 Eloïse Brezault, op. cit., p. 103.

9 Boubacar Boris Diop : Entretien avec Noémie Bérnard, le 5 mars 2001, Dakar, Sénégal (riprodotta sul sito www.aircrige.org ).

10 Boubacar Boris Diop, " Écrire dans l'odeur de la mort ", in Lendemains, n° 112/2003.

11 B. B. Diop, Murambi, le livre des ossements, Paris, Stock, 2000, p. 124.

12 B.B.Diop, op. cit., p. 229.

13 Ibid., p. 140.

14 Ibid., pp. 210-211.

15 Ibid., p. 226.

16 Tierno Monenembo, L'Aîné des orphelins, Paris, Seuil, 2000, pp. 14-15.

17 T. Monenembo, op. cit., pp. 156-157.

18 Véronique Tadjo, L'Ombre d'Imana, voyages jusqu'au bout du Rwanda, Paris, Actes Sud, 2000, p. 38.

19 Ibid., pp. 128-129.

20 Ibid., pp. 21-22.

21 Ibid., p. 69-70.

Home | Archivio | Cerca

Archivio

Supplemento

(ISSN 1824-6648)

rwanda - scrivere per dovere di memoria

A cura di Alessanrdo Corio

 

Archivio

Anno 2, Numero 9
September 2005

 

 

©2003-2014 El-Ghibli.org
Chi siamo | Contatti | Archivio | Notizie | Links