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Lasciatela vivere: alcune riflessioni su «Murekatete» di Monique Ilboudo

Nadia Valgimigli

Descrivere la realtà, narrare storie

Il progetto artistico di Fest'Africa, Écrire par devoir de mémoire, ha fatto del genocidio rwandese un'occasione importante di riflessione in campo letterario sul rinnovato ruolo della letteratura nei confronti della società. Che si riparli di engagement della scrittura, o di "testimonianza dall'esterno" rispetto a quella "dell'interno" propria dei testimoni oculari, è vero che dopo il pellegrinaggio della memoria sui siti più rappresentativi dell'orrore rwandese gli scrittori coinvolti, e chi scrive dopo la loro esperienza letteraria, non potranno più affrontare il confronto fra realtà e finzione con superficiale distacco.

Molti critici hanno messo in rilievo le caratteristiche comuni delle opere in questione. Come osserva Fonkoua, "la prima condizione di produzione di questa letteratura che racconta l'indicibile è il viaggio, che diventa un tema in sé". Il secondo elemento viene definito "tentare di ridire le parole inascoltabili", il terzo riguarda il sentimento di "impotenza" che spesso costringe lo scrittore a "rimettere in causa la letteratura stessa, quella che si proponeva, prima del 1994, di denunciare le varie dittature".1

Chi si è posto questo problema con più lucidità è forse lo scrittore Boubacar Boris Diop, che difende il ruolo della finzione letteraria nei confronti del documento storiografico: La violenza delle guerre civili sul continente interpella [lo scrittore] con domande che esigono risposte immediate, il che pone la sua finzione letteraria, spesso vissuta con rimorso come un esercizio delicato e vano, sotto la pressione delle urgenze politiche. Ma è proprio per questo che i romanzi sono essenziali per la preservazione della memoria di un genocidio. Le opere specializzate hanno certo il merito della precisione. [...] Come il giornalista preso dagli impegni e obbligato di saltare da un massacro all'altro, lo storico non ha altra scelta che quella di lasciare i morti seppellire i morti. Invece il romanziere cerca di riportarli in vita. [...] Il delirio di crudeltà dei "genocidari" è difficilmente comprensibile ma non è così privo di senso come si potrebbe credere a prima vista. Se si è voluto umiliare degli innocenti prima di tagliuzzarli col machete, è stato per convincerli e autoconvincersi che essi erano totalmente sprovvisti di umanità, che la loro presenza sulla terra era un errore di natura. [...] In questo senso, la finzione è un eccellente mezzo per contrastare il progetto dei massacratori. Ridà un'anima alle vittime, e se non le resuscita può restituire loro un'umanità nel rito di lutto che fa del romanzo una stele funebre. Dopo l'Olocausto, molti tedeschi hanno potuto dire a quanto sembra in buona fede, che non lo sapevano. Ciò non è possibile in Rwanda. Il genocidio rwandese ha avuto questo di particolare, che lo Stato è riuscito a implicarvi la maggioranza della popolazione. Sempre secondo lo scrittore senegalese il potere di narrare lo scatenarsi delle passioni più folli" appare naturalmente legato alla finzionalità del romanzo: il romanzo, che trova l'assassino sul suo terreno, quello dell'emozione e della falsificazione, mi sembra più adatto a svolgere questo ruolo.2

La complessità del rapporto che intercorre fra costruzione della finzione letteraria e decostruzione della finzionalità delle ideologie che stanno alla base della visione umana del reale risalta dunque particolarmente nei racconti degli scrittori del progetto Écrire par devoir de mémoire, a causa delle modalità di svolgimento del genocidio rwandese, e delle inevitabili considerazioni su ciò che fonda il comportamento umano che ogni genocidio costringe l'uomo a porsi. In questo senso ancora più profondamente della testimonianza di una vittima, la finzione narrativa dovrà prendere in considerazione l'incomprensibilità dell'atteggiamento del carnefice. Come riconosce Catherine Coquio, la testimonianza indiretta di un "terzo", quale è in definitiva l'opera letteraria, infrange il bipolarismo mortale della coppia formata dalla vittima e dal suo carnefice permettendo alla comprensione umana di trovare delle risposte, anche se queste ultime ci indicano una realtà estremamente sgradevole sull'essere umano in quanto tale: Costantemente [l'assassino] ripete che non si può comprendere da fuori ciò che è successo, ma che dentro tutto era facile e normale. Questa coesistenza di un dentro e di un fuori retti da leggi contrarie instaura l'assoluta permissività dello spazio aperto da questa frattura della coscienza. È questo che colpisce il lettore come una cattiva notizia sull'umanità.3

Tutti i romanzieri che hanno partecipato al progetto di Maimouna Coulibaly e Nocky Djedanoum del Fest'Africa, cioè fra gli altri Waberi, Diop, Véronique Tadjo, Tierno Monénembo, Monique Ilboudo, Koulsy Lamko, hanno tentato di risolvere il problema della rappresentazione del conflitto cercando di rendere meno esclusivo il rapporto fra vittime e carnefici fino ad allargare lo sguardo sui gradi diversi di complicità che hanno caratterizzato il compiersi del genocidio. In risposta all'ideologia che aveva costruito nell'immaginario della popolazione lo stereotipo del pericoloso tutsi, e fustigato come abominevole in primo luogo la propensione degli hutu a sposare donne tutsi, gli scrittori spesso hanno fatto ricorso al personaggio "hutsi", figlio delle suddette coppie miste, personaggio che come ho io stessa rilevato in precedenti articoli, risponde alla mitologia del "meticcio come vittima ideale" elaborata dai mezzi di persuasione pubblica e con la sua stessa esistenza ne infrange le premesse. Non appartenendo a nessuna comunità, ovvero dovendo legarsi a entrambe, il meticcio riesce a elaborare strategie di lettura efficaci che gli permettono di non adeguarsi alle norme dell'ideologia dominante, se queste si basano sulla diffamazione di uno dei gruppi cui appartiene. In particolare è il personaggio hutsi che appare in grado di smascherare la finzione che tutti, nel paese delle mille colline, hanno l'aria di prendere per realtà.4

Riflettendo sulla costruzione dell'impalcatura ideologica alla base dello stato rwandese, e usata da quest'ultimo per istigare alla violenza la popolazione, Josias Semujanga osserva che per essere precisi, nella società in cui ha luogo un genocidio, il popolo è, in larga maggioranza, solidale con il criminale: lo Stato. Questa complicità suppone la formazione preventiva di una soglia di accettabilità che "legittimi" l'esclusione della minoranza vittima, in attesa della sua eventuale eliminazione.5

Questa impressione di legittimità, tale da abbassare fino ad annullarla la "soglia di accettabilità" dell'eliminazione fisica del nemico e di quanti, pur essendo hutu, non intendono aderire a tale costrutto, è ovviamente una costruzione finzionale, ma ciò non toglie che la sua forza di impatto sulla gestione della realtà sia tanto più immensa, quanto a questa si accompagna la creazione della configurazione sociale della "muta", che si crea in ogni luogo in cui, per motivi esplorati in modo estremamente convincente da Elias Canetti, per funzionare il sistema sia disposto a supporre "una seconda muta d'uomini, contro la quale si orienta, che lei considera come tale anche se non esiste ancora ".6Il personaggio del meticcio è esattamente la vittima ideale che la configurazione sociale della muta predilige, in quanto egli è in grado di scardinare l'ideologia che rende possibile la sua formazione. Ora, come ammette Canetti, la realtà è che la vittima non ha alcuna presa sulla massa che la circonda, è senza difesa e "nessuno teme sanzioni per la sua morte". Si tratta di un "assassinio in libertà" che prefigura ogni genocidio posteriore: Questo assassinio in libertà sta per tutti gli omicidi che si è obbligati a rifiutare, la cui esecuzione comporterebbe gravi punizioni. La grande maggioranza degli uomini non saprebbe resistere a un assassinio senza pericolo, permesso, raccomandato e condiviso con molti altri.7

In questo senso l'opera letteraria come costruzione semiotica intende infrangere i presupposti, anch'essi fittizi, che rendono lecite lo scatenarsi di tali configurazioni sociali, abbassando la "soglia di accettabilità" di un assassinio fino a renderlo senza pericolo e condiviso. Come riconosce lo stesso Boubacar Boris Diop, l'immaginario è tanto più autorizzato a render conto di un tale genocidio in quanto la storia recente del Rwanda è in larga misura il risultato di un conflitto fra la finzione e la realtà. Tutto ha preso origine dai fantasmi di una certa etnologia coloniale che ha inventato, con una sconcertante leggerezza scientifica, una storia non africana per un paese africano.8

Leggere la tragedia rwandese da un punto di vista femminile

Questo lavoro di riflessione e scardinamento delle basi assiologiche del genocidio, l'opera letteraria la svolge in tutte le direzioni. Ora è lecito interrogarsi sul motivo che conduce i critici a porre al centro della loro riflessione letteraria i romanzi di Monénembo, Diop, Waberi o Lamko, mentre quella che potremmo considerare una scrittura tipicamente "femminile" del conflitto nella letteratura dell'Africa occidentale francofona, viene lasciata ai margini. Non si tratta di definirne qui le caratteristiche rispetto ad una scrittura per così dire "maschile" più fortunata, anche perché probabilmente sarebbe arduo ritrovare espressa in forme tanto esplicite una simile opposizione. Tuttavia sembra che nelle autrici che hanno condiviso coi colleghi scrittori la preoccupazione di esprimere il genocidio il tentativo di comprendere "come ciò sia potuto accadere" spinge soprattutto le scrittrici ad indagare le forme della cancellazione dell'umano, anche quando investono la sfera dei rapporti fra uomo e donna. Di colpo, la finzione narrativa si ritrova a significare qualcos'altro, una violenza ulteriore rispetto al genocidio. Di qui forse l'imbarazzo a parlare di L'ombre d'Imana di Véronique Tadjo, se ciò va di pari passo col timore molto forte da sempre nell'autrice e che a posteriori potremmo definire profetico, che quanto è successo in Rwanda possa verificarsi in Costa d'Avorio:

Sì, sono andata in Rwanda ma il Rwanda è anche a casa mia. I rifugiati sono scappati nel mondo intero, portando in loro il sangue e la collera dei morti abbandonati. E ho paura quando sento parlare a casa mia di appartenenza, di non-appartenenza. Dividere. Confezionare degli stranieri. Inventare l'idea del rigetto. Come si impara l'identità etnica? Da dove sorge questa paura dell'Altro che trascina verso la violenza? Un giorno, la vita quotidiana si cancella per far posto al caos. Dove erano sepolti i semi dell'odio? Nella notte della cecità assoluta, che avrei fatto io se fossi rimasta intrappolata nell'ingranaggio del massacro? Avrei resistito al tradimento? Sarei stata vigliacca o coraggiosa? Avrei ucciso o mi sarei lasciata uccidere? Il Rwanda è in me, in te, in noi.9

Il suo diario di viaggio intende essere letto coma la ricerca di una comprensione: Era da molto che sognavo di andare in Rwanda. No, "sognare" non è la parola giusta. Era da molto che volevo esorcizzare il Rwanda. Andare nel punto preciso in cui quelle immagini televisive erano state girate. Quelle immagini che avevano attraversato il mondo in un lampo e lasciato un marchio d'orrore in ogni spirito. Non volevo che il Rwanda restasse un incubo eterno, una paura primaria. Partivo con una ipotesi: ciò che era successo ci riguardava tutti. Non era solo una questione che riguardava un popolo perso nel cuore nero dell'Africa. Dimenticare il Rwanda dopo il rumore e il furore significava diventare orbo, afono, handicappato. Era camminare nell'oscurità, alzando le braccia per non entrare in collisione col futuro.10

Questo desiderio di comprensione non può che soffermarsi sull'origine del personaggio dell'Altro. Quando è stato degradato a essere non-umano? La narratrice osserva che i rwandesi hanno la stessa fede in un dio supremo, Imana. Un re unico, il mwami, quasi un semidio. Condividono gli stessi costumi, parlano la stessa lingua, il kinyarwanda. Per la tradizione orale gli elementi cardinali sono Dio, il re, la donna, la mucca.

La narratrice osserva che di tutto ciò, non resta quasi più nulla. La monarchia è stata abolita e la repubblica proclamata. Le traccia della nobiltà sono state cancellate durante i conflitti successivi fra i "feudali" tutsi e le "masse popolari" hutu. Grandi strade in terra battuta che sembrano non condurre da nessuna parte. I tamburi reali erano venerati come dei. "Il tamburo è più grande del grido", dice un proverbio. Essi avevano un "cuore", un oggetto sacro nascosto all'interno e di cui solo i re e i preti conoscevano l'origine. Li si ornava di trofei di guerra: le parti genitali dei nemici, la testa di un capo o di un re vinto. Gli oggetti rituali erano cosparsi del sangue dei giovani Tori della divinazione.[...] I ladri di bestiame erano crocefissi. I semi della violenza sono sempre esistiti, sepolti nella terra ancestrale. Con le stagioni sono nati e si sono propagati, erba-veleno che invade il paese. Monarchie guerriere, violenza eroica, il coraggio si contava secondo il numero dei nemici uccisi in battaglia. Vincere un uomo per strappargli il potere e impadronirsi della sua forza vitale. Chi può dire di cosa è fatta la memoria di tutto un popolo? Quali immagini tappezzano il suo inconscio? Chi può sapere quali carneficine nascoste sotto i secoli antichi scolpiscono oggi il divenire di una nazione?11.

Se il virgolettato cita le parole della tradizione, è ovvio che queste parole sono anche quelle dell'ideologia che ha reso concepibile il genocidio. In questo senso la narratrice si interroga sulla forza della parola tradizionale, la stessa ideologia che come si è visto, struttura la parola epica nell'esaltazione delle virtù guerriere tipica della visione che potremmo definire "maschile" cui la tradizione orale inneggia. L'esibizione dei trofei macabri che poi danno forma ad un concetto del potere, quello eroico e animista di chi vince la guerra perché strappa e si incorpora la forza vitale del vinto è forse stata ripresa, si interroga l'autrice, nella costruzione dell'ideologia nazionale totalitaria.

Se l'ipotesi di una continuità narrativa della memoria corrisponde al vero, allora la finzione letteraria nella scrittura femminile si propone anche di realizzare un antidoto al fine di destrutturare l'inconscio aprendolo ad un altro modello interpretativo, che includa le categorie dell'umano. La narratrice vuole comprendere. Sezionare i meccanismi dell'odio. Le parole che dividono. Gli atti che sanciscono i tradimenti. I gesti che scatenano il terrore. Comprendere. La nostra umanità in pericolo.12

La burkinabé Monique Ilboudo nel racconto lungo Murekatete, si spinge oltre sulla strada di una lettura al femminile dell'ideologia alla base del genocidio rwandese. Per far ciò adotta come Boubacar Boris Diop uno sguardo lucido, di intensa riflessione dall'interno. Sia narrativamente, trattandosi di una finzione omodiegetica, sia perché la narratrice racconta la sua storia di pura rwandese "hutsi", cioè metà hutu e metà tutsi, l'operazione appare quindi in grado di esprimere un ulteriore passo nella descrizione del punto di vista femminile.13

In effetti la narrazione, malgrado l'apparente semplicità, è molto complessa, e tre tipi di racconto si alternano. C'è innanzitutto il racconto onirico che tormenta sotto forma di incubo le notti insonni della narratrice, si tratta dell'immagine della muta di cui la protagonista è stata effettivamente vittima, e che ossessivamente rivede nell'incubo nel momento in cui sta per staccarle la testa. Rappresentazione interpretativa della realtà, il racconto onirico pur essendo ricorrente è destinato a mutare in funzione del cammino sul sentiero della comprensione del genocidio intrapreso dalla narratrice stessa. In secondo piano appaiono le narrazioni della Genesi: se quella biblica che narra del primo fratricidio, rimasto impunito per volere di Dio, nel conflitto che oppose Caino e Abele, si rifà alla comune competenza di ogni buon rwandese profondamente cattolico, la narrazione della genesi secondo la Storia ufficiale del Rwanda, quella stigmatizzata da Diop perché inventata dal nulla sulla base di esigenze coloniali, rilegge il conflitto secolare come inevitabile susseguirsi di omicidi impuniti, e getta una luce inquietante sui due episodi in qualche modo messi in rapporto. Con il primogenito Hutu che chiede al secondogenito tutsi di accettarlo al suo servizio, perché le mucche di quest'ultimo invadono i campi e cominciano a ingrassare mentre i campi diventano più spogli, inizia un capitolo della storia rwandese che non va più in là dell'occupazione coloniale, ma prendendo il posto della tradizione orale effettiva, in qualche modo ne devia le sorti. Il cadetto è orgoglioso delle sue splendide mucche, e accetta di prendere al suo servizio il fratello maggiore, ma lo giudica indegno di mungere. Alla festa organizzata dal fortunato secondogenito tutti apprezzarono il latte e desiderarono averlo per sempre, e così corruppero il primogenito per rubare le mucche al secondogenito. Pieno di risentimento, il primogenito si servì dell'occasione per vendicarsi. Come osserva la narratrice, "non sarebbe stato il primo fratricidio".14 Alla domanda se questa storia mutuata dalla Bibbia e in parte dalla storia orale, poi coloniale del Rwanda abbia una qualche efficacia interpretativa, potrebbe rispondere la stessa narratrice che in visita al palazzo reale ricostruito del Mwami a Nyanza si chiede se sarà possibile preservare le radici senza risvegliare le cicatrici della divisione. La narrazione della catena di morti successive che la protagonista deve attraversare si incarica di rispondere letterariamente a questa domanda. La narratrice infatti, come lei stessa afferma, non era nata per vivere. In effetti era nata dopo qualche anno dal matrimonio, e alla nascita sembrava morta. Solo la caparbietà della madre, tutsi, che contro le esortazioni della famiglia hutu del marito insistette per non seppellirla, le permisero di essere riconosciuta come ancora in vita. In questo senso il nomignolo datole dal padre, Murekatete, in kinyarwanda "lasciala vivere" deve essere interpretato come un messaggio ai componenti della famiglia paterna (" Il messaggio era chiaro"15). A dire il vero in ambiente tradizionale africano il ritardo nel concepimento e/o la morte del primogenito sono interpretati come la predazione della forza vitale da parte di membri insoddisfatti della famiglia. Al primo bambino che riesce a sopravvivere viene dunque dato un nome che ne allontani il destino di morte. Ma qui è la divisione fra hutu e tutsi che pone un problema e non può che lacerare il prodotto di un'unione mista: le morti successive della narratrice sono da interpretarsi in questo quadro. Una seconda morte simbolica avviene quando la ragazza prende i voti, e ancora di più quando, riconoscendo nel padre confessore il grande amore, accetta di sposarlo. Questa unione mai benedetta da dio lacera la narratrice che, da sopravvissuta, si lascia schiacciare dai sensi di colpa: due volte peccatrice, si vergogna di essere ancora viva. Altrettante morti possono essere rappresentate dalla morte dell'amatissimo padre, poi del marito. Dovute ai giochi della politica, queste morti sono da imputare alla parola: Nel paese delle mille colline, non saper trattenere i propri pensieri più profondi è un grave difetto. Mio padre non l'ignorava. Ma rifiutava di tacere.16 Il giorno 7 aprile 1994, quando alle sei del mattino sente alla radio la notizia della caduta dell'aereo del presidente Habyarimana che ne provoca la morte, capisce che sta per oltrepassare un'ulteriore tappa nella discesa agli inferi: quel giorno il sole non sorse. Come avrebbe potuto? Tutto un paese era appena stato inghiottito dalle tenebre. [...] Eravamo nel regno opaco dell'odio e della violenza. L'eclissi sarebbe durata tre lunghi mesi". La morte è ovunque, una morte inabituale: "la morte non è normale quando colpisce collettivamente degli esseri che non aspirano che a vivere.17 La scena del posto di blocco in cui vede assassinare in una "danza macabra" una vittima innocente con i machete che proseguono il lavoro oltre la messa a morte sono il segno di questa frontiera che ulteriormente la separa dalla vita. Riusciti a nascondersi nella casa di un parente, lei e i figli devono occultare ogni presenza di vita. Vivere una non-vita è allora il segno di un'ulteriore morte: La futilità della mia esistenza mi tormentava. [...] Non sono più occupata che a non esistere, e la terra, indifferente, continua a girare, il sole, a sorgere ogni mattina. Sarei potuta essere morta.18 Finalmente in fuga oltre i confini del Rwanda, sembra che tutto debba finire per il meglio e invece sono scoperti ad un posto di blocco. I figli, in quanto tutsi, sono massacrati, la donna invece è risparmiata. Sviene. Anche questo tentativo di sfuggire al proprio essere ancora in vita è una morte, per la maternità e per la vita che essa rappresenta. Ma non è ancora tutto. Vagando senza coscienza, Murekatete si ritrova in mezzo a un gruppo armato: la mia vita si è fermata un giorno di giugno 1994. [...] io mi trovavo sulla loro strada, un insetto di più da schiacciare, sotto il calcagno. Dovevano essere stanchi perché non subii alcuna aggressione sessuale. Si contentarono di tagliuzzarmi finemente e ritornarono a casa a riposarsi di una pesante giornata di lavoro.19 Invece Venant, il futuro marito, opera il secondo miracolo, come sua madre la salva, trasportandola sulle spalle all'ospedale, assicurandosi che sia curata. La voglia di conoscere il misterioso salvatore la tiene poi in vita finché non le tolgono le bende. Tuttavia, quando si specchia per la prima volta e vede le cicatrici capisce di avere incorporato un ulteriore tipo di morte, una specie di morte sociale. Quel giorno decide di "rinunciare alla vita".20 Da quel momento la narratrice afferma di essere "l'ombra di se stessa", tuttavia pensa che visto che dopotutto non è morta, è suo dovere vivere. Sono risoluzioni che non riesce a mettere in pratica, perché continua a fluttuare nella non-vita. Pur amando il suo salvatore, pur sapendo che lui la ama, non riesce a far l'amore con lui, e anche di questo prova vergogna. Questo perché, afferma, "sono morta. Da tanto tempo".21

L'incontro col "carnefice arrogante" costituisce un ulteriore passo in avanti su questo percorso tanatologico. Da questo scontro con l'Altro che non ha smesso di sentirsi perfettamente nel giusto rispetto a ciò che ha fatto, nasce l'idea di andare in pellegrinaggio ai siti del genocidio: Mwulire, Murambi, Nyamata. Murekatete sente che non si tratta di una decisione saggia, ma vuole intraprendere questo viaggio, e come la narratrice autobiografica Tadjo vuole capire: Volevo capire attraverso quale meccanismo si era riusciti a rendere determinati uomini, donne, bambini, a massacrare altri uomini, donne, bambini, vicini, amici del giorno prima, congiunti, figli, figlie, sconosciuti. Come era stato possibile convincerli che uccidere non era sufficiente, che bisognava farli a pezzi con le asce e il machete?.22

Si interroga su ciò che vede. Capisce il punto di vista di chi realizza e conserva questi siti, perché nessuno possa dimenticare, per dovere di memoria, ma si chiede se individualmente non si debba cercare invece di dimenticare, e se sia possibile farlo avendo sotto gli occhi i corpi mummificati delle vittime. In realtà Murambi è il passaggio ad un'altra morte per la narratrice: Murambi ha profondamente sconvolto la mia fede nell'essere umano. È capace di fare ciò? In quanto essere umano, anch'io ospito forse a mia insaputa questa bestia immonda? La mia umanità ne è tutta vilipesa.23

Murambi marca la discesa agli inferi: Venant, il marito, l'angelo custode, il suo salvatore, "il saggio" si mette a bere e cade nell'abisso.

Si arriva quindi a quella che è la scena finale, in cui legittimamente il lettore si aspetta l'avvenimento che raggiunge dunque il climax, come se la narrazione fosse da intendersi come una moltiplicazione alla più elevata potenza della morte, che culmina con ciò che si qualifica come il grado zero della mostruosità. La scena inizia con una terribile domanda di Venant: egli le chiede se riesce a immaginare il rumore che fa un cranio di neonato che scoppia sotto i colpi di una mazza. È dunque la domanda di Vernant che prende il posto del suo incubo ricorrente rappresentante la muta che le trucidò i figli, e quella che assalì tagliuzzandola. Ora è lui che la sveglia con le sue storie macabre, e l'ultima morte della protagonista si verifica nella scena dello stupro finale da parte di Venant. Lei lo vede accanirsi sul suo corpo con la sensazione che quello non sia più il suo corpo. Bisogna notare che è il marito, che intende del resto comportarsi come è nel diritto di "qualsiasi marito", che compie proprio l'aggressione sessuale che anche i carnefici le avevano risparmiato. In questo punto si concretizza la denuncia della scrittura femminile in quanto tale, e forse si spiega l'imbarazzo causato da questo breve racconto, che non ha raggiunto la popolarità delle altre opere frutto dell'esperienza del progetto rwandese.

La bestialità dell'atto del marito non sarebbe leggibile come tale, se la narrazione non ne avesse fatto l'ultima tappa di una messa a morte ripetuta. "Così macchiata fino in fondo all'anima", la narratrice in realtà intuisce quello che è successo nell'inconscio di Venant. La sua netta impressione che mi rimprovera non so che cosa, che mi spinge impercettibilmente nel campo dei carnefici.24 Come se da Murambi in poi il marito si fosse messo a guardarla con occhi diversi, come se diffidasse di una parte di me, come se mi assimilasse a metà alla barbarie di Murambi. Lui, l'artefice della mia risurrezione. Risentii crudelmente di questo colpo fatale. Non mi rimetterò mai di questa morte.25 Assimilata dal marito per metà al campo nemico degli hutu, perché "hutsi", quindi hutu per metà, la narratrice capisce che il desiderio anch'esso umano di vendetta, di trovare una spiegazione a tutti i costi, l'ha fatto cadere nella spirale della vendetta e dell'odio, fino a farlo aderire all'ideologia dell'odio che entrambi combattevano. Solo nel quadro di questa ideologia egli può arrivare a reinterpretare la moglie non più come vittima, soltanto umana, della barbarie, ma come parzialmente appartenente all'etnia nemica. Lo stesso Venant chiede perdono e fugge, comprendendo la pericolosità di una ideologia che è "una bestia immonda", che lo rosicchia dall'interno. Ma ciò che non può essere negato, è che la discesa dell'ultimo gradino verso la morte coincide nel testo con un atto di violenza sul corpo femminile che in realtà sembra così banale che in alcuni paesi, la maggioranza, non è neanche riconosciuto come un reato, anzi.

La narratrice tuttavia intende respingere queste erronee interpretazioni, proprio insistendo sulle caratteristiche del suo personaggio femminile. Non a caso è "Murekatete", "lasciala vivere", il messaggio di vita che la protagonista incarna, nonostante ripetutamente abbia sperimentato la morte: Nei momenti di disfatta della vita, tutti hanno, un giorno, considerato la propria morte come la soluzione ultima. Io, ho avuto questa scelta fin dalla partenza. E ho scelto di restare. Ho scelto la vita e la morte, gelosa, mi segue ovunque";"Io non mi sentivo né di un campo, né dell'altro. Il mio campo era quello della vita.26

L'ultima visione del Rwanda è la storia della coppia di sopravvissuti che la narratrice vede dal balcone in cui lui è grande e hutu, e lei e piccola e tutsi. Come Murekatete, hutu e tutsi, la coppia scardina l'ideologia nella sua struttura semiotica. Gli assassini nell'uno hanno ucciso il maschio, nell'altra la femmina, ma non sono riusciti a uccidere l'umano che è in loro. Invece in Murekatete l'umano è stato ucciso dall'atto di stupro del marito, che pure era il migliore degli uomini... Come rileva Catherine Coquio, questi libri delle ossa raccontano tutti delle storie di fantasmi. Poiché i vivi che visitano tali morti sono a loro volta visitati da loro. La presenza della morte nella vita, e quella dei morti in mezzo ai vivi, si esprimono attraverso due sequenze ricorrenti: quella del sopravvissuto divenuto anima errante che viene a visitare gli ossari (Murekatete, Murami); quella degli spettri che gridano vendetta o perturbano i giochi dei vivi con dei segnali confusi (La phalène des collines di Koulsy Lamko; la collera dei morti in L'ombre d'Imana di Véronique Tadjo). Questo mondo posseduto deve essere decifrato. Questo tema, vicino al tempo stesso alla tradizione africana e alla tragedia greca, prende qui un senso specifico.[...]. Il motivo degli spettri [...] non è africano in modo specifico, in quanto nasce da un tratto che appartiene alla potenza di negazione del genocidio, che non ha come obiettivo solo la vita, ma persino la morte.27

Tuttavia occorre ammettere che nel testo di Monique Ilboudo una costruzione narrativa in apparenza semplice pone in particolare ulteriori interrogativi su ciò che costituisce l'umano al di là delle ideologie. Come le opere letterarie, queste ultime sono finzioni costruite dalla parola: le connotazioni delle une e le certezze delle altre sono destinate a scontrarsi e ciò che rende così sconvolgente il senso finale del piccolo e apparentemente innocuo racconto della scrittrice burkinabé è che non esistono tabù e interdizioni possibili in letteratura.

Forse il nuovo modello interpretativo che scaturirà da queste riflessioni sposa meglio una certa percezione femminile della vita. Certo non bisogna fermarsi alle apparenze e il panorama non appare consolatorio né univoco: con rincrescimento, Véronique Tadjo aveva pure ammesso che fra i carnefici ci sono state anche le donne: istruite, organizzatrici, responsabili, accusatrici, anche se le si sarebbe volute innocenti", perché "queste donne hanno ucciso il loro stesso destino di donne.28

Resta il fatto che Murekatete e Vernant compongono una coppia emblematica di un conflitto che va oltre la configurazione sociale della muta e la messa a morte di una vittima designata, e nei confronti del genocidio rwandese interpella le basi stesse delle relazioni fra esseri umani.

1 Romuald Fonkoua, A propos de l'initiative du Fest'Africa: "témoignage du dedans", "témoignage du dehors" in Catherine Coquio, Aurélia Kalisky, Rwanda 2004: Témoignages et littérature. "Lendemains", (28) 2003, p. 71

2 Boubacar Boris Diop. Écrire dans l'odeur de la mort. Des auteurs africains au Rwanda in Catherine Coquio, Aurélia Kalisky, Rwanda 2004: Témoignages et littérature. "Lendemains", (28) 2003, p. 79

3 Catherine Coquio, Aux lendemains, là-bas et ici: l'écriture, la mémoire et le deuil in Catherine Coquio, Aurélia Kalisky, Rwanda 2004: Témoignages et littérature. "Lendemains", (28) 2003, p. 28.

4 Cfr. Nadia Valgimigli, Mostri, vittime, complici o amnesiaci. Raccontare il conflitto in Africa subsahariana. In Scritture dei conflitti, "Afriche e Orienti", 4/2004-1/2005; Nadia Valgimigli, Sur les traces de la meute, comunicazione al Convegno Internazionale APELA su Guerres et Littératures en Afrique. Sotto la dir. di Janos Riesz, Universität Bayreuth. 25-28/09/03.

5 Josias Semujanga, Récits fondateurs du drame rwandais. Discours social, idéologies et stéréotypes. L'Harmattan, Paris 1998, p. 29

6 Canetti, Canetti, Elias, Masse et puissance. Paris, éditions Gallimard, 1966, p. 99. Masse und Macht. Hamburg, Claassen Verlag, 1960.

7 Canetti, cit. p. 49

8 B. B. Diop, cit. p. 80

9 Véronique Tadjo. L'ombre d'Imana. Voyages jusqu'au bout du Rwanda. Arles, Actes sud 2000, pp. 49-50

101 Tadjo, cit. p. 13.

11 Tadjo, cit. p. 30

12 Tadjo, p. 135

13 Monique Ilboudo, Murekatete, Le Figuier- Fest'Africa, Bamako - Lille 2000.

14 Ilboudo, p. 28

15 Ilboudo, p. 12

16 Ilboudo, p. 24

17 Ilboudo, p. 34

18 Ilboudo, p. 44

19 Ilboudo, p. 45

20 Ilboudo, p. 48

21 Ilboudo, p. 10

22 Ilboudo, p. 52

23 Ilboudo, p. 60

24 Ilboudo, p. 68

25 Ilboudo, p. 72

26 Ilboudou, p. 22; Ilboudo, p. 34

27 Coquio, cit. p. 23

28 Tadjo, p. 117

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(ISSN 1824-6648)

rwanda - scrivere per dovere di memoria

A cura di Alessanrdo Corio

 

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Anno 2, Numero 9
September 2005

 

 

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