Un morto è una tragedia,
un milione di morti
una semplice statistica
Wole Soyinka

Salutato agli esordi come un giovane scrittore (ha 30 anni quando nel 1994 appaiono i racconti di Pays sans ombre), appartenente a una giovane letteratura (è stato definito "il Dante di Gibuti"(2)), prodotta da una giovane nazione (Gibuti è stata l'ultima colonia francese d'Africa a raggiungere l'indipendenza nel 1977), Abdourahman A. Waberi si è espresso a varie riprese sul genocidio ruandese. Numerosi suoi testi, articoli e testimonianze sono apparsi sui media in lingua francese e inglese e, anche in Italia, dove il volume Mietitura di teste. Pagine per il Ruanda è stato il primo testo del Progetto "Scrivere per dovere di memoria" a essere tradotto(3). Definite da Giuliana Sgrena, "testimonianze incisive"(4), le pagine di Waberi riflettono perfettamente lo spirito di quella singolare operazione: innanzitutto sfatare l'immagine di ennesima guerra civile e di immemoriali conflitti etnici nell'area dei Grandi Laghi africani e, nel contempo, promuovere confronto e riflessione collettiva tra gli stessi africani iniziando, come ribadiscono Waberi e Monénembo, a comunicare tra loro senza passare attraverso il filtro europeo. Fin dall'inizio tutta l'opera di Waberi - poeta, narratore e saggista - è attraversata da fondamentali interrogativi storici, sui rapporti del suo paese con la Francia, sui suoi due grandi vicini del Corno d'Africa: Etiopia e Somalia (Waberi stesso, di origine somali, appartiene a una famiglia ancora poco tempo fa nomade e, pur vivendo in Francia ormai da anni, non si ritiene né esiliato né immigrato ma scrittore della "migrance"(5)) e, più in generale, sui problemi della colonizzazione e della decolonizzazione.
Per trattare del "paradigma dei genocidi", come è stato definito da Kapunscinski, Waberi che da sempre predilige un genere ibrido, difficilmente collocabile, tra racconto lirico, fiction, testimonianza e riflessione, ha scelto di puntare su una sobria giustapposizione di punti di vista che ben restituiscono la complessità della situazione ruandese.
Perfettamente consapevole dei limiti e dei rischi dell'impresa - ossia scrivere di un eccidio alcuni anni dopo i fatti e dopo soltanto qualche mese di permanenza nel paese - ma anche del pericolo di legittimare il nuovo regime e di essere recuperati dal mercato data l'eterna ambiguità della committenza nelle manifestazioni culturali riguardanti l'Africa francofona - egli si propone semplicemente di consegnare una sua personale visione nella speranza di "ridare la sua parte di umanità perduta al paese" e di scuotere l'animo e la mente di qualche lettore.
Scrivere, dopo l'impatto con l'orrore assoluto non fu certo cosa facile anche se - ricordando oggi(6), a otto anni di distanza, le premesse di quel viaggio - egli rievoca il suo consenso immediato alla proposta degli organizzatori ("Volevo vedere da vicino il genocidio senza tuttavia sospettare l'estrema gravità della situazione ruandese. Ero andato a Kigali senza pormi troppi problemi. Oggi non rimpiango minimamente di esserci andato, anzi!"). Alquanto problematico, addirittura per un tempo insormontabile, fu quindi il passaggio alla scrittura per lui che si era posto preliminarmente il problema della possibilità e delle modalità della rappresentazione del genocidio ("Fui tentato di rifugiarmi nel silenzio. Di fare il morto a mia volta.") e prima ancora se era lecito prendere la penna, come rivela la prima pagina della premessa al volume: "Quest'opera si scusa quasi di esistere. La sua stesura è stata ardua, il suo avvio differito per settimane e per mesi. Se non fosse stato per il dovere morale assunto nei confronti di vari amici ruandesi e africani, non sarebbe riaffiorata così velocemente dopo due soggiorni nel paese delle Mille Colline"(p. 7).
Evitando accuratamente l'uso della parola "etnia" - se non quelle rare volte in cui viene messa in bocca agli ideologi locali - egli intende così situarsi al di qua del dibattito storico e ideologico che vede varie teorie affrontarsi, proprio per quanto concerne la situazione del Ruanda e del Burundi, casi estremi ma non unici del complesso intreccio fra la cosiddetta questione etnica e la questione di classe in Africa. Non elude tuttavia completamente il problema etnico che affonda le radici nel periodo coloniale, ed evoca in modo allusivo il perdurare di stereotipi derivati dalla falsificazione storica e di comportamenti indotti dalla manipolazione del sentimento etnico. Non può neppure esimersi dall'accennare alle responsabilità dell'autorità coloniale belga e della chiesa cattolica ad essa strettamente collegata che, fino al periodo immediatamente precedente l'indipendenza, avevano mantenuto viva la tradizione seconda la quale le popolazioni tutsi, di presunta origine nilotica, sarebbero state degne, come avvenne di fatto, di costituire l'élite autoctona del Ruanda, mentre gli hutu dovevano rimanere emarginati.
Waberi non fa riferimento esplicito a nessuna tesi, non propone spiegazioni, ricostruzioni storiche o notazioni cronachistiche né tanto meno formula giudizi, ma si mette sotto la doppia egida di Primo Levi e di Aimé Césaire, ai quali rende esplicito tributo, e decide di affidarsi alle sole forme letterarie. Riaffermando la propria fiducia nel potere delle "armi miracolose", secondo le parole stesse del poeta martinicano, egli fa un'implicita dichiarazione di poetica. Il discorso, rafforzato dalla presenza eloquente di numerose citazioni tratte dal corpus cesairiano più volte menzionato (Cahier d'un retour au pays natal, 1939; Les Armes miraculeuses e Et les chiens se taisaient, 1946; Soleil cou coupé, 1948(7) ), e la ricchezza dei riferimenti che sfiora a volte l'erudizione sono un modo per il narratore, che gioca sottilmente con allusioni ed epigrafi, di situarsi consapevolmente rispetto a una tradizione, quella, ma non solo, letteraria africana e antillana delle generazioni precedenti. La pratica costante dell'intertestualità, meno evidente ma forse ancor più significativa, gli consente inoltre di relazionarsi con altre opere di Césaire mettendo in rapporto "i cento giorni di sangue" che vanno dal 7 aprile al 14 luglio 1994, con un'altra "stagione all'inferno" (poiché proprio di stagione si tratta e le allusioni alla periodicità rurale di semina, mietitura e raccolto lo confermano), quella rievocata dal padre della negritudine nel suo testo teatrale più noto, Une saison au Congo(8).
Con i ricorrenti accenni a Primo Levi, ma anche con quelli più velati a Paul Celan e a Nelly Sachs, Waberi sottolinea il parallelismo tra l'olocausto degli ebrei e il genocidio dei tutsi ruandesi. Parallelismo inevitabile per molti, soprattutto da quando è stato anch'esso dichiarato crimine contro l'umanità dalle Nazioni Unite, il primo dopo lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti.
Così facendo, Waberi mette in atto un tipo particolare di denuncia, sotto un'apparente neutralità, tra struggimento temperato dall'ira e volontà di capire, che ci invita a inoltrarci nella complessità di una situazione resa ancor più complessa dal ritorno dei tutsi dall'esilio e dalla conseguente fuga degli hutu per paura delle rappresaglie.
Grazie alla sua capacità di dar voce alternativamente, nella prima parte del volume, a individui comuni di un gruppo e dell'altro, il punto di vista non viene stabilito una volta per tutte, e il discorso, mai unilaterale, si avvale di sottili meccanismi che permettono di costruire testualmente una focalizzazione dinamica e distanziata che rende conto tanto delle intrecciarsi delle relazioni che intrattengono tra di loro gli individui dei due gruppi, che del loro rapporto con il narratore.
Il carattere evocativo della scrittura - già sperimentato nelle precedenti produzioni - consente a Waberi di far lievitare in poesia delle esperienze estreme. Per scoprire alcuni arcani propri di questo narrare sarebbe utile analizzare il significato del "noi" collettivo che in Terminus (primo titolo scelto per il volume che, per quanto significativo, risulta certamente meno dirompente di quello definitivo), tramutandosi improvvisamente in prima persona, provoca un'incursione violenta nel pensiero del protagonista. La rappresentazione delle percezioni, dei sentimenti (frustrazione degli hutu, senso di colpa e di sfiducia dei tutsi sopravissuti) e dei sogni di un mondo arcaico armonioso forse mai esistito e di una "pace secolare" bruscamente interrotta, insieme alla "traccia orale" restituita dalla scrittura moderna di Waberi, ci fa toccare con un dito gli effetti devastanti dell'odio.
Nella seconda parte, le prose poetiche dal taglio inconsueto fanno posto senza eccessiva morbosità alle esperienze testimoniate in prima persona dal visitatore che, recatosi a due riprese in Ruanda poi in Burundi, scopre lo scenario funereo delle stragi e i siti ormai adibiti a musei e nel contempo si imbatte inaspettatamente in un mondo già in parte ricostruito e in piena attività.
La bellezza della natura e dei paesaggi, inabituali per un uomo del deserto, e la condizione dell'élite burundese in villeggiatura sulle rive del lago contrapposte all'orrore dei siti del genocidio non nascondono una certa preoccupazione dell'autore per le sorti del Burundi, paese quasi gemello del Ruanda la cui situazione tuttora instabile può degenerare da un momento all'altro. In filigrana è anche piuttosto chiaro il richiamo alla situazione della repubblica di Gibuti di cui è originario l'autore, piccolo paese francofono (Rwanda e Burundi sono, se si esclude lo Swahiland, i più piccoli stati dell'Africa dopo Gibuti), incuneato, come gli altri due, tra paesi più estesi e potenti e per la maggior parte anglofoni. I numerosi conflitti armati del Corno d'Africa e la recente guerra fra Etiopia e Eritrea che ha addirittura minacciato la stessa esistenza di Gibuti.
Se è erroneo considerare il ricorso alla violenza come una fatalità - il che è purtroppo uno dei luoghi comuni più diffusi nelle rappresentazioni europe dell'Africa - nondimeno occorre interrogarsi sul valore simbolico attribuito da alcuni all'eliminazione totale dei tutsi per mano degli hutu. Molti massacri, nel racconto dei sopravvissuti, sembrano essere stati spesso perpetrati quali atti rituali e il fare leva sulla loro valenza sacrificale risulta essere stata una costante nelle parole d'ordine dei pianificatori del genocidio che raccomandavano ai civili di sterminare, non con le armi adoperate soltanto da esercito e milizia, ma insieme e con gli arnesi da lavoro per rafforzare simbolicamente la coesione della comunità hutu.
Così, il finale sospeso ("Ho scelto anziché di chiudere di aprire sulla situazione del Burundi, un modo di suggerire che il genocidio dei Tutsi può riprodursi altrove, nel paese più vicino"), che sta a significare che nessuno ha ancora detto "l'ultima parola" suona come un ammonimento e un appello alla vigilanza.
Come gli altri Waberi si interroga sul ruolo degli intellettuali africani e cerca di capire perché l'Africa è stata e rimane tuttora indifferente davanti a un conflitto che riguarda non solo Ruanda, Burundi e Repubblica democratica congolese la cui invasione in vaste zone da parte delle truppe ruandesi ha causato la fine del regime di Mobutu - ma riguarda non meno di quattordici stati intorno al Ruanda. Proprio per questo, accanto all'ondata degli scritti occidentali, era necessario stimolare e raccogliere il più possibile la voce degli africani.
Waberi dimostra in un certo senso di credere nella possibilità di una "parola salvifica"(9), da contrapporre al silenzio e all'oblio, ma anche alla retorica dell'odio diffusa per cento giorni sulle onde di Radio Mille Colline al fine di raggiungere il più vasto pubblico possibile. In un articolo, apparso in Italia intitolato "Un genocidio senza volto"(10), Waberi stigmatizza le responsabilità di chi "senz'arma da fuoco né machete" ha causato con la parola la morte di migliaia di civili innocenti.
Alla nostra richiesta di fare il bilancio di quella traumatica esperienza, Waberi confessa: "Dirvi che questi due mesi in Ruanda sono stati i più difficili della mia vita sarebbe una banalità. Dire che hanno cambiato il mio sguardo sulla natura umana, su tutto e per sempre non sarebbe esagerato. Ho conosciuto tutti gli stati d'animo dal terrore all'abbattimento, dalla fredda collera alla disperazione più profonda... Con il tempo, tuttavia ho dimenticato i momenti più duri. Restano gli incontri umani, con i ruandesi e con gli altri scrittori e artisti presenti... Uno degli insegnamenti da trarre da quel genocidio è che si deve ritenere finita la politica dello struzzo, occorre guardare dritto e lontano... Mi rimane comunque molto vivo il ricordo della vita che sfida la morte a ogni passo, a ogni angolo di strada. L'energia dei ruandesi... Domani ritornerei a Kigali, a Butare o a Byumba se me ne fosse data l'occasione".
(1) In riferimento al volume di Hans-Christoph Buch, Voyage dans l'Afrique extrême (Paris, Grasset, 2001), in cui l'autore rievoca l'inferno ruandese in questi termini: "L'ingresso degli inferi non si trova nel cratere dell'Etna o del Vesuvio, come pretendono gli specialisti di storia antica o gli archeologi notoriamente mal informati, ma presso l'hôtel Mille Colline di Kigali, sull'orlo della grande faglia dell'Africa orientale". Questo testo riprende in parte osservazioni espresse nella nostra "Introduzione" (pp. VII- XXVI) all'edizione italiana di Moisson de crânes. Textes pour le Rwanda, Paris, Le Serpent à Plumes, 2000.
(2) Cfr. Geraldina Colotti, "Il Dante di Gibuti", in Alias, n. 1-Il Manifesto, 3 gennaio 2004.
(3) A. A. Waberi, Mietitura di teste. Pagine per il Ruanda (a cura di M.-J. Hoyet), Roma, Edizioni Lavoro, 2001. Successivamente sono stati tradotti due suoi romanzi: Balbala (a cura di M.-J. Hoyet), Roma, Edizioni Lavoro, 2003 e Transit, Milano, Morellini, 2005.
(4) Giuliana Sgrena, "Sette anni dopo, il dovere della memoria", recensione al volume di A. Waberi, Mietitura di teste. Pagine per il Ruanda, in , 14 aprile 2001.
(5) Cfr. il nostro saggio: "Abdourahman Waberi: un immaginario nomade", , n. 31 (2001), pp. 8-11.
(6) Intervista inedita all'autore (agosto 2005).
(7) Aimé Césaire, Et les chiens se taisaient, Paris, Présence Africaine, 1956; le altre opere sono state riprese in La Poésie, Paris, Seuil, 1994.
(8) Aimé Césaire, Une saison au Congo, Paris, Seuil, 1965-1974.
(9) Cfr. Landry Wilfrid-Miampika, in Africultures, febbraio 1998, p. 24.
(10) Cfr. Abdourahman Waberi, "Un genocidio senza volto", Il Manifesto, 20 aprile 2004.