Et quand ils étaient en colère, les morts se rassemblaient au milieu des terrains vagues et des débris, dans ces lieux qui avaient bu leur sang et leurs souffrances et ils lançaient, une fois encore, les derniers cris de leur enveloppe charnelle. Le vent transportait leur rage et venait percer les tympans des survivants. L'angoisse assombrissait les consciences et rendait intolérables les jours et les nuits.
Comprendre. Disséquer les mécanismes de la haine. Les paroles qui divisent. Les actes qui scellent les trahisons. Les gestes qui enclenchent la terreur.
Comprendre. Notre humanité en danger.
Véronique Tadjo, L'Ombre d'Imana. Voyage jusqu'au bout du Rwanda.
Il Rwanda è un piccolo paese montuoso incastrato nell'artificiale geometria di stati-nazione disegnata dai colonizzatori europei nell'Africa Subsahariana, accanto al suo "gemello" Burundi, al "gigante" Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire), all'anglofono Uganda e alla Tanzania. La sua superficie è di poco inferiore a quella della Lombardia ed è privo di risorse naturali e del sottosuolo, che hanno fatto dei suoi vicini delle ambite prede per le potenze coloniali, in passato e tutt'ora. L'unica cosa che può vantare è perciò la sua bellezza naturale. Il Rwanda è detto anche "il paese delle mille colline", per le splendide montagne verdeggianti che rivestono la sua intera superficie, alte anche due tremila metri, per cui viene spesso definito il Tibet dell'Africa. Ma il Rwanda non è un paese atipico solamente per la sua conformazione geografica, infatti anche l'assetto sociale e culturale che lo ha caratterizzato per secoli lo distingue nettamente dalle altre regioni e stati dell'Africa, solitamente pluritribali, ossia abitati da differenti comunità e gruppi etnici. Ciò che contraddistingue il Rwanda, sotto questo aspetto, è la sua unità: è abitato da un'unica comunità (o etnia, se vogliamo utilizzare un termine quantomeno sospetto, creato dalla "ragione etnologica" occidentale e che molto spesso non si adatta ad una realtà sociale e culturale ben più fluida e complessa) quella dei banyarwanda. La struttura "tradizionale" (pre-coloniale) della loro società era caratterizzata da una suddivisione in "caste" o "classi", quella dei tutsi, i possessori delle mandrie di bestiame (14% circa della popolazione); quella degli hutu, gli agricoltori (85%circa della popolazione); infine la casta dei twa, composta da braccianti e servitori, che rasentava appena l'uno per cento della popolazione. Questo sistema sociale, che è stato paragonato al sistema delle caste in India ed alla società feudale del Medioevo europeo (nonostante questi paragoni siano oltremodo semplificatori) risale a secoli addietro, tra il XII e il XV sec., anche se non esistono documenti scritti che possano confermare né smentire questa periodizzazione. Si trattava perciò di un regno, governato da un sovrano, detto Mwami, che proveniva generalmente, ma ciò non accadde sempre, dalla casta dei tutsi. Si trattava di uno stato chiuso che manteneva pochi contatti con l'esterno (non conobbero nemmeno il commercio degli schiavi). Il primo europeo a giungere in Rwanda fu un tedesco, tale conte G.A. von Götzen, nel 1894, ma la storia coloniale di questo paese era già cominciata, ovviamente all'insaputa del popolo e del suo sovrano, ben otto anni prima, alla Conferenza di Berlino, dove le potenze coloniali europee giocarono un Risiko globale spartendosi l'intero continente africano. Il Rwanda toccò in sorte ai tedeschi. In effetti questa colonia non rivestiva una grande importanza né strategica né tanto meno economica, così i tedeschi se ne disinteressarono e dopo la prima guerra mondiale persero la loro supremazia a favore del Belgio. Proprio a causa del disinteresse delle potenze coloniali, l'assetto sociale dei banyarwanda sopravvisse alla colonizzazione e, attraverso il governo indiretto del Belgio ("indirect rule") basato sul modello coloniale anglosassone, questa struttura venne addirittura rafforzata, dato che il potere venne affidato ai tutsi per via della loro "naturale" nobiltà e tale rimase fino alla metà del XX secolo. Fu durante la colonizzazione belga, verso la fine del XIX secolo, quando raggiunsero la massima diffusione le teorie razziste diffuse dall'antropologia fisica dell'ottocento, che nacque l'ipotesi della provenienza straniera dei pastori "watussis". Secondo questa teoria, essendo questi ultimi caratterizzati da un'elevata statura fisica, da un colore della pelle più chiaro, da un naso meno schiacciato ecc., dovevano per forza provenire da una regione differente rispetto agli agricoltori hutu, le cui caratteristiche somatiche li condannavano ad essere una "razza inferiore e primitiva". Per alcuni quindi i Tutsi non erano originari dell'Africa centrale, ma provenivano da Nord, addirittura dal Tibet o dall'Egitto o, più probabilmente, dall'Etiopia. Non esiste alcuna prova storica a conferma di questa teoria, la quale, ulteriormente rafforzata dall'introduzione da parte dei Belgi, negli anni Trenta, delle carte d'identità etniche, ebbe delle terribili conseguenze. Durante il genocidio del 1994, migliaia di Tutsi furono gettati nelle acque del fiume Kagera, affinché "ritornassero in Etiopia".
Il genocidio del Rwanda deve essere letto innanzitutto come la conseguenza storica del colonialismo europeo, di quell'ideologia e politica delle identità etniche che l'antropologo francese Jean-Loup Amselle ha definito ragione etnologica. Egli afferma che "l'invenzione delle etnie è l'opera congiunta degli amministratori coloniali, degli etnologi di professione e di coloro che riuniscono le due qualifiche"1. Sempre secondo Amselle, questa ragione dualistica basata su presupposti razzisti, avrebbe irrigidito la naturale "fluidità" che contraddistingue le formazioni culturali e identitarie, normalmente fondate su rapporti di forza complessi e fluttuanti nel divenire storico, per metterle al servizio del dominio coloniale, secondo la logica machiavellica del divide ut imperas e della formazione dei moderni stati-nazione burocratici e centralizzati:
Tale processo di monoidentificazione va evidentemente messo in relazione con la crescita dello Stato Burocratico alfabetizzato che registra con sempre maggiore precisione tutte le identità. Ma l'ossessione dell'identità produce inevitabilmente un effetto contrario, cioè l'esclusione di chi non può declinare l'identità maggioritaria. Ed è proprio nel quadro dello slancio del nazionalismo nel secolo XIX [...] che si costituisce la ragione etnologica, con la squalifica delle società altre e degli altri in seno alle società europee. Tutti i gruppi, esterni o minoritari, che non fanno pienamente parte dello Stato-nazione a carattere territoriale, vengono ormai confinati nelle razze o etnie esotiche e nelle minoranze domestiche. [...] La "coscienza collettiva" o la comunità culturale sono in realtà una illusione ottica retrospettiva che risulta dall'appiattimento operato dallo sguardo esterno.2Per comprendere davvero le radici di questo genocidio dobbiamo quindi ripercorrere a ritroso un cammino nelle storie, nei percorsi antropologici delle identità, rivedendo criticamente innanzitutto i concetti di etnia e di "conflitto etnico" impiegati indiscriminatamente quali categorie di interpretazione di quella realtà.3 La storia di queste terre, nonostante non esistano per confermarlo quei "documenti scritti" su cui si basa la nostra "storia ufficiale", ha lasciato tracce evidenti, nei resti degli antichi popolamenti, nei miti di origine tramandati oralmente, nella letteratura popolare, di una storia caratterizzata da migrazioni e da scambi. Come abbiamo visto, attorno al XIII - XIV secolo, giunsero nella regione dei Grandi Laghi delle popolazioni di pastori semi-nomadi, identificabili come Tutsi, che si installarono su questo territorio dove vivevano già i Twa e gli Hutu e ne adottarono la lingua e le tradizioni. Questi tre gruppi non restarono però separati e rivali, bensì realizzarono una forma di integrazione in un'unica realtà socio-culturale, testimoniata ancora oggi dall'esistenza di un'unica lingua comune - il kinyarwanda - e dalle stesse istituzioni politiche fino all'arrivo degli esploratori e dei colonizzatori europei. Nella seconda metà del XIX secolo il Rwanda era retto da una dinastia Tutsi e da una classe aristocratica che associava gli Hutu nell'esercizio di alcune prerogative politiche, come nell'organizzazione del regno, e rituali - come ad esempio nella costruzione del tamburo regale Karinga, o nel contratto tra allevatori e contadini, l'ubuhake - attraverso cui venivano garantiti benessere e prosperità a una comunità strutturata anche su forti basi claniche. Il Mwami (sovrano) aveva il controllo del potere solo nella parte centrale del regno, mentre a nord esistevano dei "principati hutu" che godevano di larga autonomia e di una condizione di "protettorato". Queste caratteristiche di organizzazione sociale e politica mostrano chiaramente come, prima della colonizzazione, le categorie di Hutu e Tutsi avessero un senso ben diverso e più "fluido", non certo il carattere "discriminante ed esclusivo" che gli verrà attribuito come prodotto dello "sguardo occidentale" e della ragione etnologica coloniale. Infatti gli europei, fin dai primi esploratori e missionari, non fecero che proiettare su questa realtà complessa gli schemi interpretativi e le teorizzazioni razziali allora in voga, descrivendo una società basata su una "gerarchia razziale". Inserirono così Tutsi e Hutu all'interno di rigide "classificazioni" razziali, secondo le quali i primi appartenevano alle cosiddette "popolazioni hamitiche" di ascendenza nilotica. A questo proposito Michela Fusaschi afferma che:
Erano gli anni che vedevano l'affermazione dell'"ipotesi camitica", teoria che avrebbe fornito un quadro classificatorio generale e al cui interno venne elaborata l'idea di una separazione irriducibile fra Hutu e Tutsi. Come discendenti di Cam, figlio di Noè, alcuni gruppi africani identificati come camiti vennero considerati i sopravvissuti di un'umanità originaria di cui avrebbero fatto parte, fra gli altri, anche gli egiziani che avevano dato vita a una grande civiltà, a differenza dei cosiddetti "primitivi" dell'Africa nera associati al mondo selvaggio della foresta. La minoranza tutsi individuata così in relazione alla colorazione della pelle più chiara rispetto agli hutu, già a partire dagli anni Venti, verrà apparentata ai bianchi europei capaci di civilizzazione e sarà, in questa veste, ritenuta la sola in grado di governare il Rwanda intero. In tutte le monografie dell'epoca coloniale la "razza hamitica" è quella dei pastori-guerrieri Tutsi - i Camiti - superiore alla "razza nera" degli agricoltori Hutu - Bantu -; non solo, la pratica agricola diviene la caratteristica del gruppo considerato inferiore. Le politiche indigene condotte dai colonizzatori belgi con l'appoggio dei missionari, tra gli anni Venti e Trenta, cristallizzarono i gruppi hutu e tutsi in "classi sociali/etniche" o "etnie" istituzionalizzando un sistema di disuguaglianze sul piano socio-culturale. L'amministrazione coloniale scelse infatti di appoggiare l'aristocrazia tutsi al potere consentendone un accesso privilegiato nelle scuole e negli uffici pubblici. Attraverso una serie di riforme imposte dai belgi l'istituto della regalità sacra venne completamente desacralizzato, le prerogative rituali degli hutu si persero progressivamente in favore di un'aristocrazia oramai legittimata dall'ipotesi camitica scritta e fissata nei libri di testo scolastici una volta per tutte e insegnata alla nuova classe dirigente.Appare quindi in modo chiaro come la "dialettica coloniale" abbia letteralmente inventato le due "etnie" hutu e tutsi, attraverso l'azione congiunta di amministratori coloniali, missionari, studiosi ed etnologi, ponendo le basi di tutte le violenze future. La "finzione coloniale" delle etnie si concretizzò nella società innanzitutto attraverso un'arbitraria riorganizzazione territoriale, ma ciò che storicamente permise la trasposizione dal piano ideologico alla realtà quotidiana fu il censimento della popolazione effettuato negli anni Trenta che sancì per la prima volta la menzione dell'"identità etnica" - fissata, una volta e per sempre - sui documenti personali. Quel censimento, che avrà conseguenze definitive, venne organizzato allo scopo di migliorare il "governo indiretto", ma in modo completamente arbitrario, non esistendo un criterio valido per distinguere gli Hutu dai Tutsi. Fu così che l'appartenenza all'una o all'altra "etnia" fu stabilita a seconda del numero di capi di bestiame posseduti in quel momento. Si diventava Tutsi con dieci o più vacche e si diventava Hutu con meno di dieci vacche!
L'ideologia "razziale" e l'"etnismo scientifico" divennero quindi gli elementi di base della formazione della nuova classe dirigente nel periodo precedente l'indipendenza. La polarizzazione della società rwandese nelle "due etnie" Hutu e Tutsi verrà a costituire l'ingombrante eredità del periodo coloniale: l'ideologia delle masse Hutu, veicolata dai ristretti gruppi di potere, sarà fondata proprio sul rovesciamento del mito della supremazia razziale della minoranza Tutsi-hamita. Gli Hutu, essendo stati esclusi dalla gestione del potere attraverso il "patto coloniale" coi Tutsi, interpreteranno tutto il processo che porterà all'indipendenza in termini antimonarchici e soprattutto anti-tutsi.
Alla fine degli anni Cinquanta, sull'onda dei movimenti indipendentisti che attraversavano l'Africa coloniale, l'élite Hutu cominciò a mobilitarsi rivendicando quei diritti che l'amministrazione coloniale belga aveva negato loro appoggiando la monarchia Tutsi. Dal 1956 al 1959 si scatenarono in tutto il paese ondate di violenza tra le due "fazioni sociali" Hutu e Tutsi. Quella che fu definita la "Rivoluzione sociale" del 1959 e la successiva Indipendenza del 1962 portarono alla vittoria elettorale del partito Parmehutu e alla proclamazione della Repubblica, con a capo Grégoire Kayibanda. Questi eventi sanguinosi posero fine alla supremazia politica della monarchia portando all'emarginazione della componente tutsi considerata come nemica della nuova nazione ora fondata su un presunto primato storico dell'insediamento degli Hutu. Si trattò di un ribaltamento "speculare"della storia scritta dal colonizzatore, sostenuto anche dall'ideologia europea del potere delle masse popolari.4
La nuova repubblica rwandese era perciò fondata sull'eredità pesante del colonialismo e sulla contraddizione tra l'orientamento democratico e la paura, alimentata dai ristretti gruppi al potere, di un ritorno all'ordine precedente, di cui i Tutsi erano visti come portatori e interpreti. "La storia del giovane stato si presenta come la riproposizione costante del tema della minaccia tutsi, continuamente "strumentalizzato" dalle classi dirigenti che si succederanno al potere". La storia più recente fu costellata di episodi di estrema violenza che si susseguirono a partire dal già ricordato 1959: le crisi del 1963-64 e del 1973 provocarono tra l'altro importanti ondate di rifugiati tutsi verso i paesi limitrofi come l'Uganda, la Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire) e la Tanzania, preparando così le condizioni per l'instabilità dell'intera area dei Grandi Laghi africani.
Nel 1963 alcune centinaia di rifugiati Tutsi, definiti all'interno Inyenzi, cioè "scarafaggi", tentarono di rientrare nel paese: le persecuzioni furono durissime, migliaia le vittime come pure i rifugiati. Nel luglio del 1973, l'allora Generale Maggiore Juvénal Habyarimana, comandante in capo della Guardia Nazionale, si impadronì del potere attraverso un colpo di stato ponendo fine a dodici anni di presidenza di Grégoire Kayibanda: governerà fino al 1994 inasprendo i conflitti sociali e marginalizzando sempre di più la minoranza tutsi e gli hutu moderati fautori del dialogo.
Il colpo di stato del 1973 mise in luce anche i profondi conflitti che dividevano la società hutu. Mentre Grégoire Kayjbanda, sconfitto e poi fatto morire di fame, rappresentava il clan hutu del centro del paese, considerato moderatamente liberale, il nuovo capo apparteneva al clan Akazu, residente nella parte nord-occidentale del paese, che rappresentava l'ala radicale e sciovinista degli hutu. Egli introdusse una dittatura di ferro basata su un sistema monopartitico, creando un'ulteriore suddivisione all'interno del paese, fondamentale per comprendere gli eventi del '94, quella tra gli estremisti al potere e l'opposizione composta dagli "hutu moderati", favorevoli ad un processo di democratizzazione e di condivisione del potere con i moderati tutsi, che verrà sancito dagli accordi di Arusha del 1993.
Intanto l'odio e la paura nei confronti della "minaccia" tutsi aumentava, sostenuto da una vera e propria ideologia di tipo nazista dello "spazio vitale", per cui due comunità rivendicavano il diritto al medesimo spazio di terra, troppo esiguo per contenerle entrambe: una sorta di riproposizione "tropicale" del conflitto israelo-palestinese. All'interno di questo conflitto sorse così la tentazione dell'Endlösung, la soluzione finale. I Tutsi rappresentavano sempre di più nell'immaginario collettivo una vera e propria minaccia; non bastava più cacciarli perché sarebbero tornati, era arrivato il momento del loro annientamento secondo un progetto preciso definito da alcuni studiosi "nazismo tropicale".
Mentre Habyarimana rafforzava la dittatura del proprio ristretto clan, che controllava pressoché tutto il paese, dai posti di potere, alla burocrazia, all'economia, alla polizia, ai mezzi di "informazione" e propaganda, all'esterno del paese, nei campi profughi tutsi dell'Uganda, Tanzania, Zaire e Burundi, crebbe una generazione di giovani che coltivarono il mito e il progetto di un "ritorno in patria", nella terra degli antenati. Negli anni ottanta in Uganda, dove da anni regnava il caos istituzionale e la guerra civile, nonché un regime retto da uno psicopatico carnefice, Milton Obote, il giovane attivista Yoweri Museveni cominciò una lotta contro il regime alla quale si unirono i Tutsi dei campi profughi, i quali ricevettero così un addestramento militare professionale. In quegli anni nacque il Fronte Patriottico Rwandese (FPR), composto dalla seconda generazione degli esiliati Tutsi in Uganda, che preparò i suoi soldati all'attacco e alla riconquista delle terre degli antenati.
Gli eventi precipitarono nell'ottobre del 1990 quando il Front Patriotique Rwandais lanciò una vera e propria offensiva in territorio rwandese che si trasformò in una sanguinosa azione di guerra sferrata dalle alte autorità dell'apparato amministrativo. L'ala più estremista, legata al movimento presidenziale, pensando che i Tutsi residenti in Rwanda, definiti "complici dell'interno" e quelli rifugiati all'estero si sarebbero prima o poi coalizzati, aveva creato progressivamente un'organizzazione para-militare di massa in grado di uccidere su larga scala: l'Interahamwe. L'antropologa Michela Fusaschi afferma che:
Per capire il clima ideologico di quel periodo basta rileggere un passo tratto dal periodico estremista Kangura, del novembre 1990: "nella storia [mateeka] del Rwanda i primi arrivati furono i Batwa (Pigmoidi) che si consacrarono alla caccia e alla raccolta; in seguito sono arrivati i Bahutu (Bantu) che hanno abbattuto la foresta per coltivare e che hanno stabilito un'organizzazione sociale; infine sono venuti i Batutsi (Nilotici, Etiopi) che si sono dedicati all'allevamento. Perché si vuole cambiare la nostra storia? Chi ha il diritto di cambiare la storia del paese?".Sempre sulla rivista Kangura, il 10 dicembre 1990, venne pubblicato il manifesto dell'Hutu Power, intitolato "I dieci comandamenti dei Bahutus". Un estratto può rendere conto della folle deriva ideologica che gli estremisti furono liberi di divulgare, reprimendo ogni forma di opposizione, nei tre anni che seguirono. Il testo è tratto dall'opera di Véronique Tadjo, L'ombre d'Imana. Voyages jusqu'au bout du Rwanda:
[...] Nous considérons comme traître tout Muhutu qui : - épouse une femme tutsi ; - se prend d'amitié pour une femme tutsi ; - emploie une femme tutsi comme secrétaire où concubine. Chaque Muhutu doit savoir que chaque Mututsi est malhonnête en affaires. Son seul objectif est la suprématie de son groupe ethnique. [...] Toutes les positions stratégiques, qu'elles soient politiques, administratives, économiques, militaires ou de sécurité, doivent être confiées à des Bahutus. [...] Les Bahutus doivent cesser d'avoir pitié des Batutsis. [...] Les Bahutus doivent êtres fermes et vigilants envers leurs ennemis communs, les Tutsis. [...] Chacun doit largement propager cette idéologie. Tout Muhutu qui persécute son frère muhutu pour avoir lu, fait passer ou enseigné cette idéologie est un traître.5L'improvvisa invasione nel 1990 dell'FPR, un esercito agguerrito, numeroso e ben addestrato, lasciò completamente spiazzato il partito di Habyarimana ed il suo esercito, che non fu in grado di reagire. Nel giro di uno due giorni l'FPR avrebbe preso Kigali, se non fosse stato per una telefonata di Habyarimana al suo potente protettore, il presidente francese François Mitterand.
A questo punto, per comprendere il senso degli eventi che seguirono e delle loro implicazioni, dobbiamo volgere lo sguardo altrove, verso quei paesi che avevano retto per secoli, e reggono tutt'ora, le sorti del continente africano: le potenze coloniali e, nel caso del Rwanda, la Francia. L'ideologia colonialista non è mai definitivamente tramontata in Francia, per la quale (per lo meno per molti uomini appartenenti ai quadri del potere politico) la nazione francese non è soltanto un paese europeo, l'exagone, bensì la comunità che raggruppa tutti i popoli di cultura e lingua francese: la Francophonie. Per i sostenitori di questa ideologia, tradotta sul piano geopolitico, attaccare un paese francofono equivale ad attaccare la Francia. Dobbiamo a questo proposito ricordare che, nel momento di massima espansione degli imperi coloniali, alla fine del XIX secolo, sia a Londra che a Parigi vigeva l'idea e il progetto di disporre i propri possedimenti coloniali in Africa lungo una "linea retta" che creasse una continuità politico-territoriale ed economica: il dominio francese doveva disporsi su una linea orizzontale, che andava da Occidente ad Oriente, da Dakar a Djibouti, mentre il dominio inglese doveva disporsi lungo la linea Nord-Sud, dal Cairo a Cape-Town. Le due linee si incrociavano esattamente sopra un piccolo villaggio di pescatori lungo il corso del Nilo, Fascioda. Da qui nacque l'idea, definita "complesso Fascioda", secondo cui chi avesse conquistato questo piccolo villaggio avrebbe realizzato il perfetto ideale dell'espansionismo colonialista. Fatto sta che la regione dei Grandi Laghi è sempre stata il cuore del conflitto coloniale anglo-francese in Africa. A questo punto, se consideriamo che gli "invasori" tutsi dell'FPR provenivano dall'Uganda, paese anglofono, e parlavano inglese, essendo per la maggior parte nati e cresciuti nei campi profughi di quel paese, possiamo comprendere perché la Francia abbia fatto di tutto fin dall'inizio per bloccare il loro progetto, sostenendo militarmente e politicamente il regime di Habyarimana, armando ed addestrando il suo esercito e i miliziani dell' "Interahamwe", finanziando, attraverso il Crédit Lyonnais e la BNP Paris, l'acquisto di armi e machete, sostenendo di fatto sin dall'inizio il progetto e la realizzazione del genocidio dei Tutsi del 1994.
L'intervento della Francia arrestò l'offensiva dell'FPR nel 1990, lasciando di fatto un paese sul piede di guerra e dove il gruppo al potere, il clan di Akazu, sentendosi ormai definitivamente minacciato ma ancora potente del proprio controllo pressoché totale del paese e forte dell'appoggio della Francia, si dedicò alla minuziosa organizzazione materiale ed ideologica del genocidio. Dal '90 al '94 si aspettò soltanto il momento più opportuno, il "segnale". Mentre Habyarimana e i suoi partigiani, sulla spinta della Francia e della comunità internazionale, divennero "forzatamente" favorevoli ad un compromesso per la creazione di un governo di unità nazionale coi tutsi dell'FPR e gli hutu moderati, che porterà agli accordi di Arusha nel 1993, il clan degli Akazu, comandato dalla moglie di Habyarimana, Agate, soprannominata la Lady Macbeth del Rwanda, vera mente ed artefice del progetto genocidiario, prese il sopravvento. Il partito Akazu aveva i suoi ideologi: intellettuali, studiosi e professori delle facoltà di storia e di filosofia dell'università di Butare, come Ferdinand Nahimana, Casimir Bizimungu, Leon Mugesira ecc. Sono loro i veri fautori dell'ideologia del genocidio e della "soluzione finale". Ma c'è dell'altro. I preparativi del genocidio durarono tre anni, sotto gli occhi complici della Francia. L'esercito venne portato da cinquemila a trentacinquemila uomini. La Guardia Presidenziale divenne un'unità elitaria, moderna e riccamente equipaggiata. Gli addestratori provenivano dalla Francia, le armi dalla Francia, dal Sudafrica e dall'Egitto. Venne creata un'organizzazione paramilitare di massa, gli Interahamwe ("Colpiamo insieme"), di cui facevano parte, ricevendo un addestramento militare ed ideologico, gli abitanti dei villaggi, giovani senza lavoro, scolari, contadini poveri, studenti e funzionari: un vero e proprio reclutamento di massa che avrà il compito di scatenare l'apocalisse. Furono compilate liste coi nomi degli oppositori moderati e liberali. L'organo teorico di diffusione delle idee dei genocidiari fu la rivista "Kangura", ma la fonte principale della propaganda di massa nei confronti della popolazione fu "Radio Mille Collines", presto detta "Radio Machette", proprietà del clan Akazu. Essa diffuse per mesi i più atroci appelli al genocidio: "Tagliate i piedi dei bambini, affinché camminino per tutta la vita sulle ginocchia"; "Uccidete le bambine, perché non vi siano più future generazioni"; "Le fosse comuni non sono ancora piene, cosa aspettate a riempirle?"; "Uccideteli, non commettiamo lo stesso errore del 1959".
Il segnale atteso dai genocidiari giunse proprio da Radio Mille Collines, la cui parola d'ordine fu: "Tagliate tutti gli alberi alti!". Il 6 aprile 1994 con l'abbattimento, poco prima dell'atterraggio all'aeroporto di Kigali, dell'aereo che trasportava il presidente rwandese Juvénal Habyarimana e quello burundese Cyprien Ntaryamira, inizia quello che è stato definito come il terzo genocidio della storia. Gli agenti delle milizie meglio conosciuti come gli esponenti dello "hutu power" poche ore dopo l'attentato, cominciarono a "lavorare" per eliminare i nemici della nazione dando inizio a uno dei più violenti massacri del XX secolo. Gruppi armati formati dagli elementi della Guardia Presidenziale, dalle Forces armées rwandaises (FAR) e da abitanti delle città e delle colline si riversarono nelle strade all'inseguimento della popolazione Tutsi. Circa un milione di persone furono uccise dagli Interahamwe nell'arco di tre mesi. Simbolo del genocidio il machete attraverso cui tutti e tutte furono colpiti e identificati sulla base di un "ideale fisico", ma soprattutto dalle carte di identità che, dopo la colonizzazione, menzionavano l'appartenenza "etnica". Questi massacri furono attentamente preparati secondo un piano ben orchestrato e un'ideologia chiaramente razzista. I massacri si basarono su un'"estetica" ed una pratica della violenza estrema, su una vera e propria "messa in scena della crudeltà" che non risparmia nessuno e che rende tutti complici. Il corpo doveva essere tagliato, abbattuto come un albero e gettato nelle latrine e nelle fosse comuni e la pratica dei massacri seguiva schemi precisi e perfettamente organizzati. La pratica del machete non era dovuta alla mancanza di mezzi, ma alla volontà di diffondere una violenza fisica e sanguinaria che rendesse tutti partecipi di "rituali macabri" ed ugualmente colpevoli, che facesse macchiare di sangue le mani di tutti. Come afferma Michela Fusaschi:
Il 1994 del Rwanda è venuto assumendo un valore paradigmatico come modello di riferimento per quei conflitti identitari dell'epoca attuale, quelli che Mary Kaldor ha ricompreso nella definizione di "nuove guerre" fondate sulla "politica delle identità", ovvero su quei movimenti che muovono dall'identità etnica o religiosa per rivendicare a sé il potere dello stato (1999). Le "identità in conflitto" rappresentano certamente un dato del presente e, secondo alcuni, un elemento caratterizzante il prossimo futuro, esse tuttavia si fondano su un uso "strategico" del passato che rimane spesso ancora tutto da indagare. Il caso degli Hutu e dei Tutsi ci richiama ancora una volta alla comprensione delle molteplici implicazioni e della complessa articolazione dei processi di costruzione dell'identità. Quell'identità che non deve e non può considerarsi un dato di partenza "naturale" e "oggettivo" ovvero un elemento statico del tutto estraneo alla storia. Le atrocità di massa vissute in Rwanda, come principio di determinazione di senso, sono giunte a sovvertire l'orizzonte unitario della storia nonché l'intero significato dell'esperienza umana; esperienza dalla quale dovremmo ripartire insieme per superare quella tragica rigidità degli schemi di distinzione che, attraverso il dramma rwandese, ci hanno così profondamente segnato.Di fronte allo scatenarsi di simili atrocità, che avvenivano sotto gli occhi di tutti, dalle televisioni agli osservatori occidentali presenti in Rwanda al seguito delle ONG e dei gruppi missionari, la comunità internazionale restò a guardare. La complicità e le gravi responsabilità della Francia in uno dei più grandi crimini collettivi del secolo scorso sono ormai ampiamente documentate e oggetto d'indagini ufficiali, come la "Missione d'informazione sulle operazioni militari condotte in Rwanda dalla Francia tra il 1990 e il 1994", costituita nel 1998 su iniziativa della commissione della difesa dell'Assemblée nazionale, la quale, nonostante l'impegno e la volontà di alcuni parlamentari, ha fatto di tutto per sminuire le responsabilità della Francia cercando di sottolinearne, al di là dell'evidenza, la "buona fede" che ha condotto a taluni "errori di valutazione", cercando così di mascherare ben più reali calcoli di strategia geopolitica, nonché interessi politico-economici di affaristi di diverso genere, collusi col regime di Habyarimana. Risultano ben più convincenti le conclusioni della ricerca-indagine condotta nel 2004 - decennale del genocidio - dalla Commission d'enquête citoyenne sur le rôle de la France durant le génocide des Tutsis au Rwanda en 19946, le cui "conclusioni provvisorie" sono consultabili al sito internet http://cec.rwanda.free.fr/documents/Conclusions_provisoires_CEC2.htm e il cui rapporto definitivo è stato pubblicato in un libro dal titolo: L'Horreur qui nous prend au visage. L'État français et le génocide au Rwanda (Karthala, Paris, 2005).
Già a partire dal 1994, alcuni articoli apparsi sulla stampa francese ed in particolare su Le Monde Diplomatique, avevano denunciato l'implicazione francese nel genocidio. In un articolo intitolato Autopsie d'un génocide planifié. Connivences françaises au Rwanda7, François-Xavier Verchave affermava che per tre anni (1990-1993) l'esercito francese ha tenuto a braccetto le truppe del regime rwandese che stava preparando il genocidio. Impegnata nella lotta contro l'FPR, il nemico soprannominato "Khmers noirs", la Francia ha massicciamente equipaggiato le "Forces armées rwandaises" (FAR) e le ha istruite in campi dove si praticava la tortura e il massacro dei civili (come a Bigogwe); ha inoltre incoraggiato una strategia "antisovversiva" che passava per la creazione di milizie ebbre di odio (i già citati Interahamwe). Dopo la pubblicazione di un rapporto nel 1993 da parte di una commissione internazionale che denunciava degli "atti di genocidio", la parola d'ordine, che veniva direttamente da Mitterand (il quale già nel 1990 aveva inviato un contingente di paracadutisti francesi per proteggere il regime di Habyarimana dall'avanzata dell'FPR) non era cambiata: "Casser les reins du FPR". Egli denuncia inoltre il sabotaggio degli accordi di Arusha, che sembravano fatti appositamente per non essere applicati, la possibile implicazione nell'attentato del 6 aprile 1994 contro l'aereo del presidente Habyarimana che era sul punto di firmare gli accordi, lo svolgimento tra le mura dell'ambasciata di Francia a Kigali di una sorta di assemblea generale straordinaria dell'Hutu power. Dopo la morte del presidente una parte dei teorici e degli organizzatori dei massacri si trovano a Parigi, mentre si costituisce, sotto l'ala della Francia e tra le mura della sua ambasciata, un governo provvisorio che continuerà ad appoggiare le milizie e gli appelli all'omicidio di Radio Mille Collines. Al Consiglio Generale delle Nazioni Unite la Francia appoggiò questo governo opponendosi per cinque settimane al riconoscimento del genocidio. Per una volta la Francia si trovò d'accordo con gli Stati Uniti, anch'essi contrari all'utilizzo del termine "genocidio" che, secondo gli accordi di Ginevra, li avrebbe costretti ad un intervento in un momento in cui l'opinione pubblica americana era ancora scioccata dai fatti di Mogadiscio dell'anno precedente.8 Da aprile a giugno, mentre venivano uccisi tra 500.000 e un milione di tutsi e hutu moderati, la Francia continuava a rinforzare le FAR, sotto la protezione delle quali lavoravano gli assassini. Solo dopo il riconoscimento ufficiale da parte dell'ONU del genocidio, quando ormai i massacri erano quasi terminati, il FPR aveva raggiunto Kigali e si erano formate colonne di migliaia di profughi Hutu in fuga verso lo Zaire, la Francia intervenne con l'"ambigua" operazione Turquoise, che creò un cuscinetto umanitario nel sud-ovest del paese, attraverso il quale, insieme ai profughi Hutu, si misero in salvo verso lo Zaire i principali organizzatori e gran parte dei realizzatori del genocidio. Un rapporto di Human Rights Watch del 1995 afferma che l'esercito francese avrebbe trasportato in salvo a Kivu, poco oltre il confine Zairese, un presunto organizzatore del genocidio, Théoneste Bagosora, un capo della milizia Jean-Baptiste Gatete e altri responsabili dello sterminio dei Tutsi. Questa serie di accuse, rivelatesi per la maggior parte reali e fondate, pongono la Francia in una posizione alquanto imbarazzante. Nonostante questo, nessuna colpa è mai stata ufficialmente ammessa. François Verchave attribuisce questa pesante complicità ad una serie di cause, che vanno dalle più ambigue relazioni patrimoniali e clientelari di numerosi affaristi legati al potere centrale con interessi nelle ex-colonie, ad una politica di tipo neo-coloniale che perseguiva i vecchi schemi anti-anglofoni, che vedevano nei tentativi dell'FPR di prendere il potere un'oscura trama anglo-americana per ristabilire la supremazia anglofona nella regione dei Grandi Laghi, mediante l'appoggio dell'Uganda. Questa logica folle e perversa, secondo la quale, per i diplomatici e i politici francesi, tra anglofoni e francofoni esisterebbe la stessa differenza e incompatibilità che c'è tra Hutu e Tutsi, ci fa comprendere quale intreccio di perverse ideologie etniciste e neo-coloniali, di propaganda e di interessi economici e politici abbia potuto scatenare l'apocalisse nel "paese delle mille colline".
L'analisi storica ed ideologica non cancella né affievolisce la colpa di coloro che hanno ucciso o che hanno partecipato direttamente, come organizzatori ed esecutori o indirettamente, attraverso il silenzio o la menzogna, al genocidio. Su di loro vigilerà la collera dei morti, la testimonianza delle vittime e degli innocenti, la responsabilità e il senso di giustizia delle future generazioni, alle quali si affida il peso della riconciliazione e della costruzione di una società che riesca ad integrare questa terribile memoria.
" - J'ai perdu ceux que j'aimais le plus pendant le génocide, dit-il. Jamais je ne les oublierai. Jamais. Ils resteront en moi toute ma vie et je sais que personne ne pourra les remplacer. Mais après toutes ces longues années, je sais qu'il ne faut pas laisser le temps s'immobiliser. Il faut prendre avec soi le souvenir et le mêler à la vie. Ne pas le séparer de la vie, mais l'intégrer". [Véronique Tadjo, L'Ombre d'Imana. Voyages jusqu'au bout du Rwanda, Paris, Actes Sud, 2000, p.69].1 Jean-Loup Amselle, Logiche meticce. Antropologia dell'identità in Africa e altrove, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 56.
2 Ibid., pp. 73-74 e 87.
3 Facciamo qui riferimento allo studio dell'antropologa Michela Fusaschi, Hutu Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.
4 Segnaliamo, nell'ambito della riflessione sulle radici colonialiste delle violenze attuali in Africa e altrove e sull'importanza dell'ordine del discorso costruito dalle teorie razziste ed evoluzioniste, il libro di Sven Lindqvist Exterminez toutes ces brutes. Egli afferma in un passaggio che: "La menace de l'extermination motivait une recherche anthropologique qui, en retour fournissait un alibi aux exterminateurs en déclarant l'extermination inévitable".
5 véronique Tadjo, L'ombre d'Imana. Voyages jusqu'au bout du Rwanda, Paris, Actes Sud, pp.128-129.
6 http://www.enquete-citoyenne-rwanda.org
7 Le Monde Diplomatique, Mars 1995, p. 10. Abbiamo appreso della recente scomparsa di François-Xavier Verchave il 29 Giugno 2005; a questo combattente per la verità, giornalista, intellettuale ed instancabile attivista contro il dominio della "françafrique" dedichiamo questo articolo. E' stato tra l'altro il fondatore dell'associazione "Survie en Alsace", che lotta contro il dominio francese in Africa: vedi http://survie67.free.fr . Altri articoli apparsi su Le Monde Diplomatique dal 1994 ad oggi sono segnalati nella bibliografia.
8 Vedi l'intervista con Boubacar Boris Diop.