Ndi ikiremwamuntu gituye ku si.
Ndi umunyafukira wo mu Rwanda.
Ndi umunyarwandakazi.
Sono un essere umano del pianeta Terra.
Sono un'africana del Rwanda.
Sono rwandese.
Coloro che non avranno la volontà
di ascoltarmi sono complici del
genocidio in Rwanda. Io, Yolande
Mukagasana, dichiaro davanti a voi
e di fronte all'umanità che chiunque
non voglia conoscere il calvario del
popolo rwandese è complice dei
carnefici. Non voglio né terrificare,
né impietosire, voglio testimoniare.
Solo testimoniare. Questi uomini,
che mi hanno fatto subire le peggiori
sofferenze, non li odio, né li
disprezzo, ho persino pietà di loro.
(da La morte non vuole saperne di me, di Yolande Mukagasena, La Meridiana 1998, traduzione di Joshua Massarenti).
Sono passati più di dieci anni dal genocidio del Rwanda, nel 1994. Gli avvenimenti durarono poco più di cento giorni, dal 6 aprile al 14 luglio di quell'anno. In quel periodo furono massacrati, da parte delle milizie estremiste Hutu, gli Interahamwe ("uccidiamo insieme"), dall'Esercito Rwandese e dalla Guardia Presidenziale, tra 500.000 e un milione di Tutsi e Hutu moderati, oppositori del regime e del progetto genocidiario. Non conosceremo mai le cifre esatte di questo spaventoso massacro che si è compiuto in un arco di tempo brevissimo, dato che tutto ere già stato progettato da lungo tempo. L'Occidente restò a guardare o, peggio, fu complice di ciò che accadde. L'ONU si rifiutò di intervenire su pressione degli Stati Uniti, mentre la Francia e il Belgio, direttamente coinvolti nel genocidio, lasciarono che tutto si svolgesse come era stato programmato anche tra le mura dell'ambasciata di Francia a Kigali. Tutti ricordano la frase dell'allora presidente della repubblica François Mitterand che, interpellato dai suoi collaboratori sulla gravità di ciò che stava accadendo, rispose : "Un genocidio, da quelle parti, non è poi così importante".
L'Occidente intero, intento a seguire i mondiali di calcio, si voltò dall'altra parte. Le televisioni diffondevano, in coda ai telegiornali, immagini di migliaia di corpi ammucchiati nelle fosse comuni o che galleggiavano sui fiumi, tingendo di sangue le loro acque. Qualcuno definì ciò che stava accadendo in Rwanda "uno spettacolo di una bellezza spaventosa ed epica, che si adatta alla smisuratezza di quei paesaggi". Anche queste parole, che riflettono il pericoloso esotismo dello sguardo occidentale, fanno rabbrividire. Vennero mostrate le immagini di milioni di persone in fuga verso i confini dello Zaire, ma chi erano costoro: i carnefici o le vittime? Nessuno capì. Nessuno volle capire. "Quei negri continuano ad ammazzarsi come mosche" ... "lotte tribali, faccende antiche, due etnie che non possono vivere insieme, gli Hutu e i Tutsi" ... "cose all'ordine del giorno in Africa, ma l'Europa è lontana". Già, lontana. No, nulla di tutto ciò. Ancora una volta, il Rwanda ha messo a nudo la terribile dialettica di violenza e di razzismo che ha impregnato la modernità e che ha visto l'Occidente dominare il resto del pianeta attraverso il colonialismo economico e l'alienazione culturale. Ancora una volta il Rwanda ha messo a nudo la nostra cecità di fronte ai nostri stessi crimini. Il colonialismo ha creato i presupposti per ciò che oggi accade in gran parte del mondo, compresa la regione dei Grandi Laghi, da sempre cuore geo-politico dell'Africa e, grazie alle sue ricchezze naturali, posta in gioco del dominio coloniale britannico e francofono. Siano dunque maledetti gli occhi che non vogliono vedere, che preferiscono voltarsi verso un'immagine streotipata del mondo e riprodotta incessantemente dal linguaggio egemone, in cui la nostra civiltà è portatrice di bene e di progresso, mentre il resto del pianeta annega nella povertà e nella violenza che si rigenerano al suo interno Questi occhi sono condizionati da un'ideologia secolare, da un pensiero unico che ha costantemente soffocato la voce o il grido dell'Altro e che tutt'oggi ci impedisce di vedere chiaramente che ciò che accade nel mondo, in qualunque parte del mondo, ci riguarda molto più di quanto immaginiamo, perché noi stessi abbiamo creato le condizioni perché ciò possa accadere. Il Rwanda è una tragedia dell'intera umanità, anche di quell'Occidente che con tanta retorica aveva giurato "Mai più!", solo cinquant'anni fa, dopo il genocidio degli ebrei d'Europa. Per questo oggi dobbiamo continuare, oppure ri-cominciare, ad interrogarci seriamente, a cercare le cause e le implicazioni, a cercare di dare risposta, più risposte possibili alla domanda "Perché? Perché questo è capitato? Perché questo odio, perché questi morti, perché questa indifferenza davanti al genocidio, perché questa complicità con gli assassini?"; dobbiamo allontanarci da ogni tentazione revisionista, da ogni pulsione morbida che si limiti ad attribuire gli avvenimenti alla "natura umana", oppure alle "lotte tribali" (categoria che non ha alcun senso nel caso del Rwanda e che, come vedremo, rivela soltanto i presupposti razzisti della "ragione antropologica" occidentale); dobbiamo allontanarci dalla "tentazione psicologica" dell'oblio, della dimenticanza che cerca di rimuovere la sofferenza e il senso di colpa, dalla "tentazione politica" di un'apparente riconciliazione attraverso il silenzio. Il fatto che si sia trattato di un omicidio di massa sistematico e pianificato in precedenza, una soluzione finale di dimensioni mostruose, è stato spesso dimenticato per attribuire tutto allo spauracchio dell'odio tribale. Vittime e carnefici, autori, realizzatori, complici, non sono la stessa cosa e per questo dobbiamo continuare ad interrogarci e a cercare di capire, anche ciò che oltrepassa l'ordine razionale. Come afferma Jacques Delcuvellerie, regista dello spettacolo Rwanda 94: un tentativo di riparazione simbolica verso i morti, ad uso dei vivi:
Noi consideriamo nefasta l'affermazione dei "saggi" secondo la quale l'orrore è inconoscibile e che l'analisi delle cause alla quale si può risalire è impotente a renderne conto realmente. Questa posizione è stata molto sostenuta a proposito del Genocidio degli ebrei. Da un lato si diffondono ad ampio spettro la testimonianza dei sopravvissuti, le immagini del crimine, le descrizioni della macchina di morte e dei suoi ingegneri [...]; dall'altro si rifiuta la possibilità stessa di comprendere e di analizzare razionalmente il fenomeno. Da questa doppia attitudine risulta una fascinazione morbida estremamente ambigua. Si costituisce un'azione umana come prova insondabile di una "metafisica del male"e la responsabilità si divide tra un pazzo, Hitler, e l'uomo ordinario. [...] Avendo decretato come inappropriati, o meglio come riduttivi, gli approcci economici, politici del Genocidio, non resta più che il diavolo e la parte oscura che ciascuno porta in sé. L'avvenimento comincia così a sfuggire alla storia e ad entrare nel dominio della lotta eterna tra Bene e Male, quasi a dire che a voler prevenire il ritorno di questa modalità si annuncia già il risorgere del mostro. Questo tipo di approccio esiste anche per il Rwanda.Il Rwanda merita anche di dimenticare, certo; sappiamo che la vita, anche quella di una comunità, non può rinnovarsi senza una dose di oblio ed è pur vero che la memoria presenta a volte aspetti ambigui e pericolosi, come la tentazione della vendetta. Come afferma il giornalista americano Philip Gourevitch, autore di un bellissimo libro sul genocidio rwandese: [...] mi chiedo se la memoria non sia diventata quasi troppo preziosa. A volte dimentichiamo che è problematica. Vogliamo continuare a pensare ai morti, ma se trasformiamo il ricordo in feticcio, questo potrà ritorcersi contro di noi. La linea che separa il ricordo dal rancore, la memoria dalla vendetta, è molto sottile. Alla radice di tutte le storie di vendetta c'è il ricordo, nel bene e nel male. La maggior parte dei crimini commessi nei Balcani, e in certa misura anche nel Rwanda, sono stati commessi in nome della memoria amara. Se portiamo questo ragionamento alle estreme conseguenze, la memoria - senza la quale non saremmo esseri umani - può diventare una malattia.
Tutto ciò è senz'altro vero, ma, come ci ha insegnato Paul Ricoeur, la memoria e l'oblio sono due elementi imprescindibili della dimensione storica, e un giusto oblio non è possibile senza una memoria che si adoperi a ricostruire la verità, a ricercare le cause della tragedia e dell'impensabile, a cercare una risposta ai numerosi "perché" che si affollano nella mente e nel cuore di chi ha vissuto il genocidio, di chi ha visto uccidere di fronte ai propri occhi e nel modo più brutale i propri figli, il proprio marito, di chi ha visto violentare la propria madre da parte dei propri vicini di casa, conoscenti e parenti. La memoria del genocidio è, come mostra pienamente il romanzo di Tierno Monenembo, L'âiné des orphelins, una memoria completamente sconvolta dalla rimozione, frammentata dall'impossibilità di vivere portando sulle proprie spalle un peso psicologico tremendo, il ricordo di chi ha bevuto il sangue dei propri genitori. Un "genocidio della prossimità", così è stato definito il Rwanda; ma dove si spingono le radici di questa prossimità, di una violenza atroce ed inimmaginabile che è andata ad intaccare qualsiasi tabù, qualsiasi forma di convivenza umana, rendendo accettabile e pressoché normale e "banale" (per usare la celebre definizione di Hannah Arendt) ciò che era impensabile? E' questo dunque il senso del nostro interrogarci, oggi, qui, in Italia o in qualunque altra parte del mondo. Ciò che è accaduto in Rwanda ci riguarda tutti, ed in particolare riguarda noi europei in quanto fautori del colonialismo e di una politica neo-colonialista globale che riproduce in ogni angolo del pianeta la sua dialettica di violenza e di razzismo.
Per questi motivi abbiamo deciso di ritornare sulle tematiche del genocidio in Rwanda intersecando approcci differenti che ci permettano di accedere a differenti livelli di interpretazione, che lascino permeare il nostro pensiero dall'emotività e dalle vicende personali, per riflettere, attraverso le storie degli altri, sulla nostra storia e su noi stessi in questo preciso momento storico. Abbiamo avuto la preziosa occasione di incontrare, nell'ambito della rassegna All'incrocio dei sentieri, due importanti scrittori africani che hanno partecipato al progetto, lanciato dal festival di Lille, Fest'Africa, nel 1998: "Rwanda, écrire par devoir de mémoire": rispettivamente lo scrittore senegalese Boubacar Boris Diop, autore di Murambi, le livre des ossements e lo scrittore guineano Tierno Monenembo, autore di L'Aîné des orphelins. Con loro abbiamo cercato di inserire la questione del genocidio in un contesto più ampio e in una riflessione sull'Africa contemporanea, sul potere dell'Occidente e della deculturazione, sulla lingua come strumento di espressione dell'identità culturale e sul senso del fare letteratura in Africa oggi. Abbiamo letto con passione i loro libri ed altri testi sul genocidio, che cercheremo di inquadrare analizzando in primo luogo, per quanto ci è possibile, gli avvenimenti del '94, inserendoli in una cornice più ampia che tenga conto dell'evoluzione storica della società rwandese, delle enormi cicatrici del colonialismo europeo e delle loro conseguenze sul presente, delle implicazioni della Francia e della comunità internazionale nel genocidio. Abbiamo riflettuto sul significato della parola letteraria in contesti come quello del Rwanda e in gran parte dell'Africa, dove questa resta soggetta al discorso del potere e delle dittature, ma dove proprio per questo motivo, come afferma Tierno Monenembo, deve recuperare il suo ruolo eminentemente politico di decostruzione del discorso del potere e delle categorie identitarie che questo emana e che lo sorreggono. L'analisi storica, politica e antropologica si accosta quindi necessariamente ad altre forme di rappresentazione, quali la letteratura, il teatro, il cinema e la testimonianza diretta di chi è sopravvissuto e vuole testimoniare. Tutto questo perché, nonostante l'atrocità degli eventi soffochi la parola, minando la sua stessa capacità di raccontare e di riflettere, proprio per questo è la parola che deve cercare la strada per trasmettere questa orribile eredità ed impedire che, ancora una volta, gli occhi si chiudano, le bocche tacciano e l'orrore si ripeta.
"Je partais avec une hypothèse : ce qui s'était passé nous concernait tous. Ce n'était pas uniquement l'affaire d'un peuple perdu dans le cœur noir de l'Afrique. Oublier le Rwanda après le bruit et la fureur signifiait devenir borgne, aphone, handicapée. C'était marcher dans l'obscurité, en tendant les bras pour ne pas entrer en collision avec le futur. [...] Que mes yeux voient, que mes oreilles entendent, que ma bouche parle. Je n'ai pas peur de savoir. Mais que mon esprit, au grand jamais, ne perde de vue ce qui doit grandir en nous : l'espoir et le respect de la vie". [Véronique Tadjo, L'Ombre d'Imana. Voyages jusqu'au bout du Rwanda, Paris, Actes Sud, 2000].