Nell'approccio alle culture e letterature africane è fondamentale la cifra stilistica che il concetto di oralità pare disegnare. Le voci dell'intero continente si impastano, sovrappongono e comunicano una pletora di storie ed esperienze, all'interno dei siti dell'identità, collettiva e individuale. La letteratura, forma "scritta" della modernità postcoloniale, si sforza di costruire testi che strutturano la poliglossia della vita quotidiana e gli autori "traducono in scrittura - e in una lingua diversa - i miti delle origini e le leggende eziologiche della cultura orale, inserendoli e integrandoli in forme, generi e intrecci nuovi e talvolta estranei"(1). L'oralità e la scrittura paiono infatti elementi in antitesi, mentre invece nella realtà africana i loro confini diventano più labili, più confusi, quasi miraggio allo sguardo dell'uomo nell'atto di tramandare conoscenze e saperi. Muovendoci all'interno del solco del paradosso, possiamo azzardare che l'oralità peculiarmente "rappresenta" la prima forma di letteratura, grazie all'opera dei cantastorie, dei narratori, dei griots, dei sèrès, il cui patrimonio narrativo viene amplificato e diffuso nel brusio della doppia dimensione abitativa dell'Africa, il villaggio e la città. I miti, i canti, le favole, le storie, ben lungi dall'essere quadretti di genere pittoresco o orientalista, costituiscono veri momenti formativi, di confronto, pregni di significati profondi. Tentiamo ora, con taglio provocatoriamente non metodologico, una breve esplorazione di alcuni testi letterari.
In The Quiet Violence of Dreams (2001) di K. Sello Duiker, la griglia polifonica del romanzo combina sottilmente diversi toni del mosaico sudafricano e la composizione testuale oscilla nervosamente fra inglese, afrikaans, sotho e xhosa - la propensione per un certo grado di oralità infatti erode i confini della scrittura nel tentativo di dipingere un quadro complesso. Lo stile di K. Sello Duiker è ovviamente molto lontano dalla costruzione favolistica di Amos Tutuola con il suo The Palm-Wine Drinkard (1952), in quanto aggiorna in forma di diario intimo i tortuosi percorsi dell'individuo e i suoi sistemi di rappresentazione del mondo. Il ricorso al mito è marginale, ma il flusso sciolto della parola celebra la vocazione multiculticulturale e poliglossica del Sud Africa. Il protagonista Tshepo, travolta dalle tragedie e violenze della vita, riflette su questo composito scenario e tenta di rivalutare le figure marginali e liminali al fine di proiettare uno sguardo di speranza per le generazioni dell'Africa che verrà:"I believe in our children. I believe in people, in humankind, in personhood. In Hillbrow I live with foreigners, illegal and legal immigrants, what black South Africans call makwere-kwere with derogatory and defiant arrogance. I feel at home with them because they are trying to find a home in our country. They are so fragile, so cultured and beautiful, our foreign guests. In their eyes I feel at home, I see Africa. I feel like I live in Africa when I walk out in the street and hear some dark-skinned beauties rapping in Lingala or Congo or a French patois that I don't understand"(2). Da questa prospettiva, il semplice gesto di curare i bambini delle zone più degradate (Tshepo trova lavoro presso i servizi sociali) si evolve in un "miracolo", un atto mitopoetico mentre il giovane, simile a uno sciamano, forgia la parola per comprendere la realtà.
Talvolta il senso dell'oralità risiede nel meccanismo della rappresentazione e trasformazione del mito classico, rivisitato dal punto di vista africano; tale è il caso di "una grande storia sudafricana non ancora raccontata", per citare trasversalmente Njabulo S. Ndebele, l'autore di The Cry of Winnie Mandela (2003). Il testo provocatoriamente rigetta strette definizioni di genere e innesta il tratto narrativo con la biografia immaginaria, il resoconto storico, la memoria, la fantasia, il mito. Un clima di frammentazione e contraddizioni sembra essere il paradigma dominante in quest'opera che si impernia attorno alla controversa figura di Winnie Mandela, "Mother of the Nation", osannata e adorata dalla folla, accusata di imbrogli e giochi di potere da altri. Il tema focalizzante risulta essere il significato dell'attesa, umana condizione di fronte ai labirinti della storia: Winnie che attende la liberazione del marito dal carcere diventa icona di un intero popolo che aspetta l'avvio di una nuova epoca, il rifiuto dell'apartheid e un senso di coesione civile diverso.
Nella sfera del mito classico, la figura che più sinterizza la dimensione dell'attesa è forse Penelope, e l'autore immagina le sue discendenti africane: quattro donne che testimoniano il valore dell'identità attraverso l'assenza di qualcuno, il vuoto esistenziale e personale che sola la parola può colmare o parzialmente lenire. L'oralità, quindi, soprattutto in una matrice femminile, restituisce un sentimento di appartenenza o perlomeno tenta di contrastare l'oblio del silenzio. Winnie, negli interstizi testuali, emerge come personaggio costruito in un'ottica plurale, di dualità e accese contraddizioni; il lettore smarrito nella fabula postmoderna assiste alla moltiplicazione delle diverse voci: "So I, too, Winifred Nomzamo Zanyiwe Mandela, will be a character in my own story, certain in the knowledge that I myself could never be entirely my own creation, even less yours"(3).Mannete Mofolo, Delisiwe Dulcie S'khosana, Macello Molete (soprannominata Patience, cioè la "pazienza" che dovrebbe placidamente sedare la tensione dell'attesa) e Marara Joyce Baloyi contribuiscono in maniera corale a sondare la condizione della donna sotto il giogo dell'aparthied e all'alba di una nuova era. Ma è Winnie che costituisce il fulcro simbolico dell'esperimento narrativo di Ndebele, poiché rappresenta leleidi laka, cioè la Madre dalla nazione - l'espressione nasce da una radice sotho per poi mutare in un calco dell'inglese "the lady" (le-leidi) col significato di "the one and only lady".
Spostiamoci ora nell'area dell'Africa francofona per osservare le manipolazioni linguistiche che tentano di catturare la verve dell'espressione orale di Ahmadou Kourouma con il suo En attendant le vote des bêtes sauvages (1998), che cito nella traduzione inglese a cura di Carrol F. Coates. Il romanzo tratta nuovamente del senso dell'attesa e costruisce la metafora delle bestie selvagge per introdurre il mondo della narrazione tradizionale, dei proverbi, dei giochi di parole, dei canti. La voce narrante coincide con quella di un sèrè, un bardo che attraverso il suo praise song tesse le lodi Koyaga, un immaginario capo-cacciatore e presidente-dittatore. I termini chiave per la riconfigurazione di tale universo sono donso, che indica il cacciatore, e il relativo donsomana, una sorte di racconto "purificatore", spesso slegato dal contesto storico. Se nelle società patriarcali e tradizionali il ruolo dei cacciatori opera come struttura fondamentale, dipinto nelle storie che si tramandano oralmente, al sèrè viene delegata la funzione di raccontare, amplificare e far conosecere le vicende degli uomini e le infiltrazioni del mito. L'autore, per quanto concerne l'impianto stilistico, confonde volontariamente le rigide convenzioni del romanzo e di conseguenza discorso diretto e indiretto, citazioni e altri elementi testuali vengono a sovrapporsi. L'opera è costituita da sei sezioni, chiamate sumu (cioè "incontri rituali di gruppi di cacciatori", ma anche spazi sociali significativi ove il potere della parola viene localizzato in rapporto all'attività venatoria) che principiano e terminano con un proverbio, mentre una sorta di nota esplicativa funge da introduzione all'episodio presentato. L'impetuoso cantastorie, i cuoi toni poetici sono densi di ironia sferzante, affronta il dittatore stesso e disegna oscure profezie: "[...] you will organze democratic presidential elections. Elections with universal suffrage supervised by an indipendent national commission. You will seek a new mandate with the certainty of winning, of being reelected. For you know, you are sure, that if by chance men refuse to vote for you, the animals will come out of the bush, seize ballots, and vote for you"(4).
Quando si indaga il complesso rapporto fra oralità e scrittura in Africa, uno dei testi più citati è forse il libro di Amos Tutuola dedicato al "bevitore di vino di palma", fantasioso scenario di magie, leggende, personaggi curiosi e vestigia di un tempo che non esiste più. Proprio con questo autore vorrei terminare, facendo riferimento alla sua esperienza diretta di conferenziere, quando venne nel 1990 per un ciclo di incontro presso l'Università di Palermo. Occorre tuttavia precisare immediatamente che Tutuola rifiuta il formalismo accademico e didattico tipico delle istituzioni ufficiali e il volume a cura di Alessandra Di Maio, Tutuola at the University (2000), tenta di restituire la memoria "orale" di curiose lezioni, singolare esempio di comunicazione interculturale. Interessante risulta essere l'approccio di Tutuola, il quale affrontando con gli studenti temi della cultura dell'Africa occidentale, avvia un processo che lega il narratore/oratore alle persone che lo circondano, utilizzando cioè una tipica modalità dello storytelling africano. L'interazione di questo tipo prevede saluti, ringraziamenti, piccoli gesti "detti" e una certa riluttanza alla linearità del discorso occidentale: la profusione delle parole enfatizza i sentieri percorsi dal bevitore di vino di palma e delinea mondi luminosi e regni infernali, ma il cuore pulsante dell'Africa comunica il senso dell'appartenenza con un atto di riconciliazione. Commentando il romanzo del bevitore di vino di palma, Tutuola afferma che "hell in the story means a place of sacrifice and punishment. The heaven I mention in the book is all about Africa"(5) e da questa parabola, apparentemente naïf, riaffiorano le radici yoruba dell'identità collettiva, rinvigorendo un'antica tradizione narrativa nel tentativo di coniugare l'oralità e la scrittura.
(1) Jane Wilkinson, "Le letterature angloafricane" in Agostino Lombardo, a cura di, Le orme di Prospero, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1995, p. 14.
(2) K. Sello Duiker, The Quiet Violence of Dreams, Cape Town, Kwela Books, 2001, p. 454. (3)
(4) Ahmadou Kourouma,Waiting for the Vote of the Wild Animals, Charlottesville and London, University of Virginia Press, 2001 (edizione originale francese, En attendant le vote des bêtes sauvages, Editions du Seuil, 1998), p. 258.
(5) Alessandra Di Maio, a cura di, Tutuola at the University, Roma, Bulzoni Editore, 2000, p. 163.