È stato il primo artista italiano a dare una forma drammaturgica al racconto. Il suo spettacolo 'Kholhaas', del 1990, ha segnato un punto fermo nell'arte del raccontare portata in palcoscenico. Per un'ora e mezza, Baliani, solo, seduto su una sedia, racconta la storia di Michele Kholhaas. E tiene il pubblico con il fiato sospeso: gli occhi di tutti sono incollati all'attore che, grazie alla parola detta con arte (naturalmente dietro a questo "raccontare bene", in una maniera così essenziale e naturale, c'è un grande lavoro di ricerca sulle tecniche di narrazione) crea una speciale magia.
"I primi due anni in cui ho portato in giro Kholhaas, gli ascoltatori sono stati delle 'cavie'. Perché lo spettacolo raggiungesse la sua forma compiuta ci sono voluti anni di lavoro e una sperimentazione diretta, a contatto con il pubblico. Mi piace pensare allo spettacolo come a una scultura che si va definendo nel tempo, a cui con sapienza si aggiunge o si toglie ogni giorno qualcosa", spiega Marco Baliani. "Le storie sono fatte per essere raccontate e l'attore, solo provando a raccontarle, nella relazione con il pubblico, scopre come procedere".
Per quanto riguarda la sua predilezione per "il racconto che si fa teatro" ci spiega quali sono le ragioni che lo hanno condotto fin qui:
"Io ho iniziato a raccontare storie per i bambini. In anni e anni di contatto con il pubblico dei più piccoli si sono affinate le mie capacità tecniche di 'raccontatore' e ho potuto sperimentare direttamente, in prima persona, il potere della parola, che è misterioso e non credo neppure si possa far risalire a una tradizione. È una struttura antropologica, che arriva dai tempi dei tempi: le madri da sempre hanno parlato ai loro piccoli, per calmarli, infilando le parole una dietro l'altra, anche senza un senso preciso. L'importante era il suono della voce. E io, ancora oggi, continuo a credere che sia più importante l'atto della narrazione di quello che racconti. Quindi la mia ricerca artistica ha seguito vie del tutto personali, indipendenti da qualunque forma tradizionale. Non mi sono ispirato ai cantastorie, figure presenti e comuni a tante culture, anche le più distanti tra loro. Per altro, in Italia, sono spariti da moltissimi anni. Solo in Sicilia resta un supersite di una famiglia di 'cuntastorie', Mimmo Cuticchio, ultimo erede anche dell'arte dei pupi.
La mia è stata una scelta poetica. A un certo punto ho smesso di raccontare ai bambini e ho cominciato a farlo per gli adulti. Ho cambiato le storie e ho continuato ad affinare le tecniche di narrazione. Lo stimolo era provare a sperimentare cosa si può fare col racconto. Dopo Kholhaas sono venuti 'Tracce' (1996), uno spettacolo intorno al tema dello stupore dove aneddoti e storie si inseguono in digressione... una sorta di spettacolo filosofico, 'Corpo di Stato' (1998), un racconto in prima persona dei giorni del rapimento di Aldo Moro, 'Ombre' (2001), dove il percorso di ricerca si è arricchito grazie all'uso di suoni, strumenti musicali, distorsione della voce.
Ma anche come regista ho cercato di trasportare lo stesso tipo di drammaturgia, estendendola dal singolo attore al gruppo, spesso numeroso, di attori. Questo perché sono convinto che la narrazione drammaturgica sia una scelta fondamentale, che caratterizza il teatro che faccio e che mi piace, in alternativa alle forme drammaturgie canoniche (i dialoghi, la scansione in tre atti), che credo abbiano stancato il pubblico. Ecco allora la forza di spettacoli con grandi gruppi di attori (dai cento di 'Antigone delle città', a Bologna, nel 1991 ai trenta di 'Come gocce di una fiumana', 1997), dove il coro assume grande importanza e si realizza quella che io definisco 'l'oralità dei corpi narranti'.
Secondo me il teatro di narrazione ha avuto così tanto successo
perché la gente ha voglia di sentir raccontare le storie. Anche se le sa
già, ha bisogno di qualcuno che lo faccia, qualcuno a cui riconosca
l'autorità per farlo. Ed evidentemente l'attore, in scena, ha proprio
questa autorità e, soprattutto, la capacità di ricreare un momento che è
sempre magico. E poi è il modo giusto per dare una forma al pensiero, ai
concetti filosofici che nel racconto si presentificano al pubblico, si
chiariscono. Aveva ragione Pier Paolo Pasolini quando diceva che 'il
teatro deve mettere in scena il pensiero'.
Tra pochi giorni uscirà
il mio primo romanzo (prima avevo pubblicati dei libri, ma sempre legati
al teatro e a spettacoli che avevo fatto, perché per me è sempre venuto
prima il raccontare e poi lo scrivere). Credo che invece nel caso di
"Nel regno di Acilia" (questo il titolo del romanzo edito da Rizzoli),
avverrà per la prima volta il contrario. Dalla scrittura del libro
passerò alla narrazione della storia".
Chiediamo a Marco di raccontarci di un progetto che sta portando avanti da qualche anno in collaborazione con l'Amref in Africa, a Nairobi.
"Sono stato io stesso a proporlo. Ho detto all'Amref, abituata ad occuparsi di problemi più concreti, legati al corpo (salute, ospedali, medicine, assistenza): perché non proviamo a lavorare sull'anima attraverso il teatro, che è come il calcio, funziona sempre?! E così sono partito per lavorare con un gruppo di ragazzi di strada, compresi tra i 9 e i 16 anni. Nel giro di un anno mezzo questi ragazzi hanno ritrovato una dignità, hanno una casa, hanno ripreso a studiare, mangiano tre volte al giorno, non sniffano più la colla. Ora camminano diritti, a testa alta: io li chiamo 'i principi della bidonville'. Sono stati salvati dal teatro: in questo caso il potere della parola, dell'oralità, si è manifestato concretamente. Sono in procinto di ripartire e poi a settembre 2004 verranno loro in Italia per rappresentare "Pinocchio". Io l'ho raccontato loro in inglese e un traduttore glielo ha raccontato in swahili. Primo esempio di Pinocchio tradotto in swahili!".