El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

dai saggi

Jarmila Očkayová non ha limitato il suo intervento in letteratura solo attraverso il campo della narrativa. Suoi sono alcuni saggi e interventi in vari campi, dalla partecipazione a festival alla rievocazione storica. Riportiamo in questa pagine alcune delle più significative prese di posizione della scrittrice. Molto importante è anche l'introduzione alla raccolta delle fiabe slovacche, di cui Jarmila è curatrice nonché traduttrice.

Da "A Franz Kafka", in "Caro amore, ti scrivo...", Chicca Gagliardo-Guido Spaini, Mondadori1998

"Lentamente, come una stalagmite, è nato il mio amore per te. Il quando, perciò, non ha importanza: una stalagmite è da sempre, dalla sua prima goccia, ancora invisibile. Ma perché? Perché tu e non un altro, non dieci altri che pure mi sono piaciuti tanto, mi hanno affascinata, coinvolta, commossa?... Perché tu, Franz, mi hai regalato la Tensione.
Quella tensione - tra le più misteriose e profonde - alza il sipario che, calato fino alle caviglie, ci nascondeva e mostrava solo i nostri talloni d'Achille. Quella tensione ci svela, accanto alla nostra fragilità, la misura della nostra libertà. Le nostre potenzialità, legate all'immagine che abbiamo di noi stessi, e al contempo il male istituzionalizzato, organizzato, onnipresente, che cerca di costringerci a rinunciare a quell'immagine offrendoci in cambio un paio di robuste scarpe con cui proteggere quei gracili talloni. Quella tensione si fa embrione di ogni domanda sul senso delle cose, ci crea e ci rappresenta, ci accusa e ci difende, traccia i contorni delle nostre anime e dei nostri gesti, disegna le carte geografiche della nostra storia. Spesso è lei stessa una domanda, bell'e pronta. per quanto non ancora conscia, una domanda che, pur non avendo raggiunto la forma classica della domanda, contiene già il seme della reazione futura. E' uno stimolo esterno e al contempo una vera e propria categoria dell'uomo, un'indole che ci spinge a spostare sempre il nostro confine; è quello stato di cose che si vive, contando, due, tra il numero uno e il numero due, tra il numero due e il numero tre, tra il numero tre e la possibilità, o l'intuizione, dell'esistenza del numero quattro."
"Tu, Franz, con quella tensione tremenda, con la tua strana inquietudine, mi hai presa per mano e guidata verso quel luogo dentro di noi in cui bisogna decidere se si vuole sostare tra i numeri, facendo i palombari del mondo, oppure accumularli, girando attorno agli zeri come i vecchi colonizzatori attorno alle isole nuove."

Chi salverà la bellezza, Kyliàn Festival, giugno 2001

"...Ciò che per lo scrittore è la pagina bianca, per il coreografo è il corpo umano. Sul corpo, con l'inchiostro della musica, il coreografo scrive le sue idee e le sue - nostre - passioni, ossessioni, inquietudini. Attraverso il corpo rende carnali i fantasmi dell'immaginazione, nella fisicità del corpo incontra trappole e limiti simili a ciò che per lo scrittore sono le barriere linguistiche, e viceversa, nella sua duttilità sperimenta e fa crescerle le infinite possibilità e potenzialità espressive.
Danza e musica: movimento e suono.
Tutto pare essere movimento e suono, oggi. Ma il movimento è diventato sinonimo di frenesia, di attivismo furente e incoercibile, il suono sinonimo di rumore, di assordante dodecafonia cittadina. Come se vivessimo proiettati da una moviola impazzita, con i fotogrammi della vita cosi veloci da non consentirci più dì afferrare e trattenere una singola immagine o nota, né tanto meno di cogliere e assaporare il flusso dell'insieme. La dolcezza o l'incanto di un piccolo gesto, la fierezza o l'angoscia di una postura, l'intensità solare o tragica di un passo: chi li nota più?"
... "Ma c'è un luogo in cui quella lastra levigata dagli estetisti e stilisti e dalle nostre abitudini si incrina, e quel luogo è Il teatro, il palcoscenico. Anche di fronte all'esecuzione magistrale di un balletto ci difendiamo dal dubbio di vivere una vita atona, disarmonica e fraudolenta, aggrappandoci al compiacimento puramente estetico, recependo la suggestione di una scena come un altrove e contemplando la fluida complessità della danza come un virtuosismo astratto fine a se stesso, staccato da tutto ciò che è la nostra vita. Poi, a ricollegarlo alla nostra vita, arriva l'emozione. Magari a tradimento, magari senza che ne siamo consapevoli, ma qualcosa si muove, qualcosa si illumina, la distanza tra noi e il palcoscenico diminuisce, la musica e la danza entrano dall'occhio e dall'orecchio direttamente nel cervello."

Perché mi considero una scrittrice eccentrica, in "Le eccentriche" a cura di Anna Botta, Monica Farnetti, Giorgio Rimondi, Tre lune edizioni

"Virginia Woolf diceva che per una scrittrice pensare a se stessa in termini di sesso è fatale e sosteneva la necessità di .una mente androgina, di una specie di sposalizio tra il maschile e il femminile. Naturalmente questo non vuol dire rinnegare la propria specificità femminile - la Woolf per prima non l'avrebbe mai fatto vuol dire invece mantenere la mente libera da conflitti, rabbie e rivendicazioni, superare la fase scolastica che ragiona per opposti e opposizioni, difendere quella libertà psicologica che ci permette di trasformare il nostro vissuto in una spugna capace di assorbire la vìta, di captare le sue ragioni e le sue emozioni profonde. Riassumendo: vuol dire trasformare la nostra mente in una tabula rasa su cui scrivere qualcosa di vero e di significativo, o semplicemente dì bello, in ogni caso di inedito.
Quindi, non rinnegare la propria femminilità, nella scrittura e nell'analisi della scrittura, ma coglierla appieno proprio grazie a questo necessario distacco (come un oggetto che, se guardato da troppo vicino, diventa sfuocato o si vede solo parzialmente e che, viceversa, allontanato può essere messo a fuoco, visto per intero). La mia natura femminile, il mio essere donna, finisce nei miei libri esattamente come tutte le altre cose che fanno parte di me: il mio vissuto, i luoghi che ho conosciuto e amato, gli incontri che ho fatto, il mio modo di concepire e di percepire la vita, ma non credo che su questo si debba basare il giudizio di valore su ciò che scrivo."
...
"Io personalmente vivo la penna con cui scrivo un po' come le pinzette con cui si prendono in mano i minuscoli ingranaggi di un orologio antico; e vedo i miei romanzi come orologi messi a punto, che indicano l'ora del mio essere nel mondo.
Di orologi ce ne sono tanti - ed è bene che siano tanti -e tanti sono i modi di percepire il tempo, proprio o altrui, reale o metaforico; tanti i modi per rappresentarlo. E ricondurre il tutto a un canone letterario, a un giudizio di valore unico, è come pretendere che il tempo sia scandito da un unico orologio piazzato su una nuova torre di Babele, pretendere che tutti stiano con gli occhi alzati verso quella torre, mentre leggono o scrivono o analizzano ciò che altri hanno scritto. E pretendere anche, magari, che tutti si portino pure una copia di quell'orologio gigante al polso. Mi sembra quantomeno ingombrante e al contempo, anche se può parere un ossimoro, desolatamente riduttivo."

Da Shangrilà, Associazione italiana di Visibilità, Comune di Scandiano 2001

"E noi, abituati a considerare il lavoro operaio come sinonimo di alienazione, nello scoprire questa piccola storia scandianese diventiamo curiosi e affascinati: perché mai una piccola comunità, operosa e semplice, un bel giorno, all'uscita da una sala cinematografica decide di cambiare il nome del luogo in cui vive, di deporre la vecchia insegna alle porte del paese e di sostituirla con una nuova, adottando e facendo proprio quel nome utopico, fiabesco, indicatore di felicità?"
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"L'utopia è un ossimoro esistenziale, un guerriero pacifico. La sua arma è il paradosso: vince la realtà fuggendola. Perché con quella fuga costruisce un'altra realtà, a propria misura, a misura d'uomo. Perché immaginare questo - immaginare un modo di vivere Altro, un modo di relazionarsi Altro - è il presupposto e la radice di ogni cambiamento"
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"In questa tensione al cambiamento, in questo moto interiore, in questo slancio verso l'altrove, in questo desiderio di un mondo migliore, consiste la forza taumaturgica e metamorfica dell'utopia, e la sua stessa ragione d'essere. Non la si può predeterminare, razionalizzare, imporre dall'alto; anzi: ogniqualvolta l'uomo cerca di definirla,dotandola di una struttura sociale e circoscrivendo lo spazio che le concede, finisce con imprigionarla, incatenarla alle ideologie e rinchiuderla nei recinti dei sistemi totalitari, dove il bene comune è un fine coatto e la presunta - e pretesa - armonia un mezzo dispotico, oppressivo, perverso. L'utopia ha bisogno di luoghi liberi - liberi come sanno essere solo i luoghi mentali. L'utopia deve essere vissuta, seguita a passo a passo, "agìta". Come un orizzonte verso il quale ci incamminiamo e che, una volta raggiunto, ci spalanca davanti un altro orizzonte, da raggiungere."

Al di là della parola in "Kúmá/Poetica"

"Ogni lingua è un corpo vivo, vibrante, che ci avvolge tutti come un grembo comune. Ci nutre e si nutre di contatto diretto con la vita (che diventa comunicazione) e di manifestazioni esistenziali (che diventano espressione). Nella costruzione letteraria quel contatto vitale viene trasformato nel racconto, nel plot; quella pienezza esistenziale invece in una specifica cifra narrativa. Ecco perché, pur mantenendo rapporti intensi con la mia terra d'origine e la madrelingua, io scrivo in italiano. Più o meno per lo stesso motivo per cui non mi porto dalla Slovacchia bombole di ossigeno per respirare: vivo immersa nella lingua. E' italiana la colonna sonora delle voci e dei suoni che accompagna le mie giornate, italiano è il cielo che guardo, i paesaggi, la luce, i colori, il tempo, le stagioni che influenzano i miei stati d'animo. In Italia mi confronto con i dati della realtà, in Italia nascono i fantasmi del mio immaginario, pungolato dalle esperienze che vivo quotidianamente. E sento che se facessi una scelta diversa - se dovessi scrivere in una lingua lontana dal mio quotidiano - mi autocondannerei a una specie di ingessatura del pensiero, a un isolamento interiore, creerei una barriera tra me e la mia percezione del mondo, della vita. E poi, ho la sensazione che non sono nemmeno io a scegliere: ogni personaggio che invento vuole raccontarsi da sé e si costruisce un proprio atteggiamento psicologico ed esige un proprio linguaggio, rivolto a un ipotetico interlocutore; e quell'interlocutore - perché il racconto sia palpitante, vivo, presente - non può stare a mille chilometri di distanza."
....
" allora forse il contributo della narrativa italiana scritta da autori stranieri potrebbe essere questo: smontare un po' di stereotipi, letterari e umani. Riaccendere la curiosità, la voglia di riflettere e di stupirsi per qualcosa che prescinde da pura forma, dalla "tendenza". Ricordare che la diversità umana, con il suo infinito spettro di possibilità, è la materia prima della letteratura, nonché la sua ragione di essere. Mostrare che le nostre solitudini, i nostri talenti, i nostri malesseri e la nostra aspirazione a sentirci parte integrante del mondo che ci gira attorno, possono non dipendere dalle radici geografiche, o viceversa dallo sradicamento, ma dall'adesione a una scala di valori, che è senza frontiere, dalla nostra poetica esistenziale, prima ancora che da quella letteraria, dal coraggio di dare un senso alle nostre parole e ai nostri gesti e ai nostri sogni, e dal coraggio di spalancare le porte perché le parole i gesti i sogni di altri entrino in casa nostra. Provare che si può creare, trasmettere e ricevere, praticando la reciprocità. Provare che questa nuova Babele di linguaggi e di messaggi e di costruzioni espressive può miracolosamente interrompere il vecchio rumore esistenziale, assordante, e farci ascoltare il ticchettio delle nostre anime. Che le sabbie mobili su cui camminiamo, e in cui rischiamo di sprofondare, possono essere trasformate da brodaglia stagnante e caotica in numerose sorgenti limpide e fertili, rivitalizzanti."

Da "Pavol Dobsinsky, il re del tempo e altre fiabe slovacche, Sellerio 1988"

"Max Luthi afferma che gli eroi della fiaba sono privi di qualsiasi legame che non sia quello originato dal contrasto iniziale e dall'azione. Sono isolati, sempre ed ovunque. Ma mai soli. Isolati "e perciò come nessun altro liberi verso tutto ciò che è veramente essenziale "," " capaci di rapporto con tutto e tutti, non malgrado il loro isolamento, ma proprio grazie al loro isolamento "." L'uomo di oggi è avvinghiato da mille legami. Ovunque metta il piede c'è subito qualcuno che cerca di infilargli una scarpa, ovunque si volti s'aprono porte pronte a risucchiarlo, ovunque si nasconda lo inseguono rumori e messaggi prepotenti. E io mi chiedo sei mai, nei secoli che ci hanno tramandato la fiaba, l'uomo sia stato così solo come lo è oggi. Quasi mai isolato. Quasi sempre solo. Forse è anche in questa realtà che andrebbe ricercata la ragione di un rinnovato interesse del lettore per la fiaba: egli allunga la mano verso un libro di fiabe non già perché questo rappresenti un passatempo, un'occasione di evadere buona tanto per i grandi quanto per i piccini, ma perché, nelle sue mille metamorfosi, fughe, inseguimenti e ritorni, nell'instancabile ricerca di un'identità, nella sua sofferta e mai perduta armonia dell'uomo con quanto lo circonda, la fiaba sfiora l'essenziale."

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(ISSN 1824-6648)

incontro con
jarmila očkayová

di raffaele taddeo

 

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Anno 0, Numero 3
March 2004

 

 

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