Jarmila Očkayová non ha limitato il suo intervento in letteratura solo attraverso il campo della narrativa. Suoi sono alcuni saggi e interventi in vari campi, dalla partecipazione a festival alla rievocazione storica. Riportiamo in questa pagine alcune delle più significative prese di posizione della scrittrice. Molto importante è anche l'introduzione alla raccolta delle fiabe slovacche, di cui Jarmila è curatrice nonché traduttrice.
"Lentamente, come una stalagmite, è nato il mio amore per te. Il
quando, perciò, non ha importanza: una stalagmite è da sempre, dalla sua
prima goccia, ancora invisibile. Ma perché? Perché tu e non un altro,
non dieci altri che pure mi sono piaciuti tanto, mi hanno affascinata,
coinvolta, commossa?... Perché tu, Franz, mi hai regalato la
Tensione.
Quella tensione - tra le più misteriose e profonde - alza
il sipario che, calato fino alle caviglie, ci nascondeva e mostrava solo
i nostri talloni d'Achille. Quella tensione ci svela, accanto alla
nostra fragilità, la misura della nostra libertà. Le nostre
potenzialità, legate all'immagine che abbiamo di noi stessi, e al
contempo il male istituzionalizzato, organizzato, onnipresente, che
cerca di costringerci a rinunciare a quell'immagine offrendoci in cambio
un paio di robuste scarpe con cui proteggere quei gracili talloni.
Quella tensione si fa embrione di ogni domanda sul senso delle cose, ci
crea e ci rappresenta, ci accusa e ci difende, traccia i contorni delle
nostre anime e dei nostri gesti, disegna le carte geografiche della
nostra storia. Spesso è lei stessa una domanda, bell'e pronta. per
quanto non ancora conscia, una domanda che, pur non avendo raggiunto la
forma classica della domanda, contiene già il seme della reazione
futura. E' uno stimolo esterno e al contempo una vera e propria
categoria dell'uomo, un'indole che ci spinge a spostare sempre il nostro
confine; è quello stato di cose che si vive, contando, due, tra il
numero uno e il numero due, tra il numero due e il numero tre, tra il
numero tre e la possibilità, o l'intuizione, dell'esistenza del numero
quattro."
"Tu, Franz, con quella tensione tremenda, con la tua
strana inquietudine, mi hai presa per mano e guidata verso quel luogo
dentro di noi in cui bisogna decidere se si vuole sostare tra i numeri,
facendo i palombari del mondo, oppure accumularli, girando attorno agli
zeri come i vecchi colonizzatori attorno alle isole nuove."
"...Ciò che per lo scrittore è la pagina bianca, per il coreografo è
il corpo umano. Sul corpo, con l'inchiostro della musica, il coreografo
scrive le sue idee e le sue - nostre - passioni, ossessioni,
inquietudini. Attraverso il corpo rende carnali i fantasmi
dell'immaginazione, nella fisicità del corpo incontra trappole e limiti
simili a ciò che per lo scrittore sono le barriere linguistiche, e
viceversa, nella sua duttilità sperimenta e fa crescerle le infinite
possibilità e potenzialità espressive.
Danza e musica: movimento e
suono.
Tutto pare essere movimento e suono, oggi. Ma il movimento è
diventato sinonimo di frenesia, di attivismo furente e incoercibile, il
suono sinonimo di rumore, di assordante dodecafonia cittadina. Come se
vivessimo proiettati da una moviola impazzita, con i fotogrammi della
vita cosi veloci da non consentirci più dì afferrare e trattenere una
singola immagine o nota, né tanto meno di cogliere e assaporare il
flusso dell'insieme. La dolcezza o l'incanto di un piccolo gesto, la
fierezza o l'angoscia di una postura, l'intensità solare o tragica di un
passo: chi li nota più?"
... "Ma c'è un luogo in cui quella lastra
levigata dagli estetisti e stilisti e dalle nostre abitudini si incrina,
e quel luogo è Il teatro, il palcoscenico. Anche di fronte
all'esecuzione magistrale di un balletto ci difendiamo dal dubbio di
vivere una vita atona, disarmonica e fraudolenta, aggrappandoci al
compiacimento puramente estetico, recependo la suggestione di una scena
come un altrove e contemplando la fluida complessità della danza come un
virtuosismo astratto fine a se stesso, staccato da tutto ciò che è la
nostra vita. Poi, a ricollegarlo alla nostra vita, arriva l'emozione.
Magari a tradimento, magari senza che ne siamo consapevoli, ma qualcosa
si muove, qualcosa si illumina, la distanza tra noi e il palcoscenico
diminuisce, la musica e la danza entrano dall'occhio e dall'orecchio
direttamente nel cervello."
"Virginia Woolf diceva che per una scrittrice pensare a se stessa in
termini di sesso è fatale e sosteneva la necessità di .una mente
androgina, di una specie di sposalizio tra il maschile e il femminile.
Naturalmente questo non vuol dire rinnegare la propria specificità
femminile - la Woolf per prima non l'avrebbe mai fatto vuol dire invece
mantenere la mente libera da conflitti, rabbie e rivendicazioni,
superare la fase scolastica che ragiona per opposti e opposizioni,
difendere quella libertà psicologica che ci permette di trasformare il
nostro vissuto in una spugna capace di assorbire la vìta, di captare le
sue ragioni e le sue emozioni profonde. Riassumendo: vuol dire
trasformare la nostra mente in una tabula rasa su cui scrivere qualcosa
di vero e di significativo, o semplicemente dì bello, in ogni caso di
inedito.
Quindi, non rinnegare la propria femminilità, nella
scrittura e nell'analisi della scrittura, ma coglierla appieno proprio
grazie a questo necessario distacco (come un oggetto che, se guardato da
troppo vicino, diventa sfuocato o si vede solo parzialmente e che,
viceversa, allontanato può essere messo a fuoco, visto per intero). La
mia natura femminile, il mio essere donna, finisce nei miei libri
esattamente come tutte le altre cose che fanno parte di me: il mio
vissuto, i luoghi che ho conosciuto e amato, gli incontri che ho fatto,
il mio modo di concepire e di percepire la vita, ma non credo che su
questo si debba basare il giudizio di valore su ciò che scrivo."
...
"Io personalmente vivo la penna con cui scrivo un po' come le
pinzette con cui si prendono in mano i minuscoli ingranaggi di un
orologio antico; e vedo i miei romanzi come orologi messi a punto, che
indicano l'ora del mio essere nel mondo.
Di orologi ce ne sono tanti
- ed è bene che siano tanti -e tanti sono i modi di percepire il tempo,
proprio o altrui, reale o metaforico; tanti i modi per rappresentarlo. E
ricondurre il tutto a un canone letterario, a un giudizio di valore
unico, è come pretendere che il tempo sia scandito da un unico orologio
piazzato su una nuova torre di Babele, pretendere che tutti stiano con
gli occhi alzati verso quella torre, mentre leggono o scrivono o
analizzano ciò che altri hanno scritto. E pretendere anche, magari, che
tutti si portino pure una copia di quell'orologio gigante al polso. Mi
sembra quantomeno ingombrante e al contempo, anche se può parere un
ossimoro, desolatamente riduttivo."
"E noi, abituati a considerare il lavoro operaio come sinonimo di
alienazione, nello scoprire questa piccola storia scandianese diventiamo
curiosi e affascinati: perché mai una piccola comunità, operosa e
semplice, un bel giorno, all'uscita da una sala cinematografica decide
di cambiare il nome del luogo in cui vive, di deporre la vecchia insegna
alle porte del paese e di sostituirla con una nuova, adottando e facendo
proprio quel nome utopico, fiabesco, indicatore di felicità?"
....
"L'utopia è un ossimoro esistenziale, un guerriero pacifico. La
sua arma è il paradosso: vince la realtà fuggendola. Perché con quella
fuga costruisce un'altra realtà, a propria misura, a misura d'uomo.
Perché immaginare questo - immaginare un modo di vivere Altro, un modo
di relazionarsi Altro - è il presupposto e la radice di ogni
cambiamento"
...
"In questa tensione al cambiamento, in questo
moto interiore, in questo slancio verso l'altrove, in questo desiderio
di un mondo migliore, consiste la forza taumaturgica e metamorfica
dell'utopia, e la sua stessa ragione d'essere. Non la si può
predeterminare, razionalizzare, imporre dall'alto; anzi: ogniqualvolta
l'uomo cerca di definirla,dotandola di una struttura sociale e
circoscrivendo lo spazio che le concede, finisce con imprigionarla,
incatenarla alle ideologie e rinchiuderla nei recinti dei sistemi
totalitari, dove il bene comune è un fine coatto e la presunta - e
pretesa - armonia un mezzo dispotico, oppressivo, perverso. L'utopia ha
bisogno di luoghi liberi - liberi come sanno essere solo i luoghi
mentali. L'utopia deve essere vissuta, seguita a passo a passo, "agìta".
Come un orizzonte verso il quale ci incamminiamo e che, una volta
raggiunto, ci spalanca davanti un altro orizzonte, da raggiungere."
"Ogni lingua è un corpo vivo, vibrante, che ci avvolge tutti come un
grembo comune. Ci nutre e si nutre di contatto diretto con la vita (che
diventa comunicazione) e di manifestazioni esistenziali (che diventano
espressione). Nella costruzione letteraria quel contatto vitale viene
trasformato nel racconto, nel plot; quella pienezza esistenziale invece
in una specifica cifra narrativa. Ecco perché, pur mantenendo rapporti
intensi con la mia terra d'origine e la madrelingua, io scrivo in
italiano. Più o meno per lo stesso motivo per cui non mi porto dalla
Slovacchia bombole di ossigeno per respirare: vivo immersa nella lingua.
E' italiana la colonna sonora delle voci e dei suoni che accompagna le
mie giornate, italiano è il cielo che guardo, i paesaggi, la luce, i
colori, il tempo, le stagioni che influenzano i miei stati d'animo. In
Italia mi confronto con i dati della realtà, in Italia nascono i
fantasmi del mio immaginario, pungolato dalle esperienze che vivo
quotidianamente. E sento che se facessi una scelta diversa - se dovessi
scrivere in una lingua lontana dal mio quotidiano - mi autocondannerei a
una specie di ingessatura del pensiero, a un isolamento interiore,
creerei una barriera tra me e la mia percezione del mondo, della vita. E
poi, ho la sensazione che non sono nemmeno io a scegliere: ogni
personaggio che invento vuole raccontarsi da sé e si costruisce un
proprio atteggiamento psicologico ed esige un proprio linguaggio,
rivolto a un ipotetico interlocutore; e quell'interlocutore - perché il
racconto sia palpitante, vivo, presente - non può stare a mille
chilometri di distanza."
....
" allora forse il contributo della
narrativa italiana scritta da autori stranieri potrebbe essere questo:
smontare un po' di stereotipi, letterari e umani. Riaccendere la
curiosità, la voglia di riflettere e di stupirsi per qualcosa che
prescinde da pura forma, dalla "tendenza". Ricordare che la diversità
umana, con il suo infinito spettro di possibilità, è la materia prima
della letteratura, nonché la sua ragione di essere. Mostrare che le
nostre solitudini, i nostri talenti, i nostri malesseri e la nostra
aspirazione a sentirci parte integrante del mondo che ci gira attorno,
possono non dipendere dalle radici geografiche, o viceversa dallo
sradicamento, ma dall'adesione a una scala di valori, che è senza
frontiere, dalla nostra poetica esistenziale, prima ancora che da quella
letteraria, dal coraggio di dare un senso alle nostre parole e ai nostri
gesti e ai nostri sogni, e dal coraggio di spalancare le porte perché le
parole i gesti i sogni di altri entrino in casa nostra. Provare che si
può creare, trasmettere e ricevere, praticando la reciprocità. Provare
che questa nuova Babele di linguaggi e di messaggi e di costruzioni
espressive può miracolosamente interrompere il vecchio rumore
esistenziale, assordante, e farci ascoltare il ticchettio delle nostre
anime. Che le sabbie mobili su cui camminiamo, e in cui rischiamo di
sprofondare, possono essere trasformate da brodaglia stagnante e caotica
in numerose sorgenti limpide e fertili, rivitalizzanti."
"Max Luthi afferma che gli eroi della fiaba sono privi di qualsiasi legame che non sia quello originato dal contrasto iniziale e dall'azione. Sono isolati, sempre ed ovunque. Ma mai soli. Isolati "e perciò come nessun altro liberi verso tutto ciò che è veramente essenziale "," " capaci di rapporto con tutto e tutti, non malgrado il loro isolamento, ma proprio grazie al loro isolamento "." L'uomo di oggi è avvinghiato da mille legami. Ovunque metta il piede c'è subito qualcuno che cerca di infilargli una scarpa, ovunque si volti s'aprono porte pronte a risucchiarlo, ovunque si nasconda lo inseguono rumori e messaggi prepotenti. E io mi chiedo sei mai, nei secoli che ci hanno tramandato la fiaba, l'uomo sia stato così solo come lo è oggi. Quasi mai isolato. Quasi sempre solo. Forse è anche in questa realtà che andrebbe ricercata la ragione di un rinnovato interesse del lettore per la fiaba: egli allunga la mano verso un libro di fiabe non già perché questo rappresenti un passatempo, un'occasione di evadere buona tanto per i grandi quanto per i piccini, ma perché, nelle sue mille metamorfosi, fughe, inseguimenti e ritorni, nell'instancabile ricerca di un'identità, nella sua sofferta e mai perduta armonia dell'uomo con quanto lo circonda, la fiaba sfiora l'essenziale."