El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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narrare l'albania in italiano: dalla letteratura di migrazione al colonialismo dell'immaginazione

giulia da lio

Introduzione
La maggior parte delle occasioni in cui Ornela Vorpsi e Anilda Ibrahimi1, scrittrici albanesi che scrivono in italiano, vengono nominate in testi critici è all’interno di pubblicazioni che, più in generale, hanno lo scopo di offrire uno spaccato sulla produzione in italiano di scrittori con origini stranieri. L’impressione che se ne trae è che l’interesse per queste autrici finora sia stato per così dire incidentale, che non sia trattato di un interesse specifico per le loro opere ma piuttosto, e soprattutto, per il fatto che queste due autrici hanno un’esperienza di migrazione in Italia.
Considerata la natura prettamente extra-accademica di buona parte del materiale pubblicato su Vorpsi e Ibrahimi (mi riferisco agli articoli pubblicati da quotidiani e su pubblicazioni in rete), la mia intenzione è di fare il punto sullo stato dell’arte del dibattito in cui le due autrici sono state inserite in ambito accademico, ovvero quello sugli scrittori migranti in Italia.
Voglio aggiungere una premessa necessaria sul materiale critico da me reperito. Come spiegherò nella seconda sezione di questo articolo, i testi critici sul fenomeno dei così detti scrittori migranti sono alquanto frammentari. Accanto ad una serie di testi prodotti da studiosi vicini all’Università La Sapienza di Roma, esistono studi provenienti da università americane e d’oltralpe, accanto a volumi monografici e atti di convegni di recente pubblicazione. Sia per i limiti imposti dal presente lavoro, sia per difficoltà di reperimento e visibilità dei nuovi studi all’interno dei motori di ricerca2, ho optato per una scelta di testi secondo me rappresentativi del dibattito, che presenterò nella seconda sezione di questo lavoro, insieme alle definizioni dei temi presentati in questa introduzione.
Nella terza sezione, invece, delineerò la mia proposta critica, ovvero la possibilità di inserire i due romanzi nel più ampio dibattito sul colonialismo dell’immaginazione. Nella quarta sezione mi concentrerò sui nuclei tematici principali dei due romanzi di esordio, per poi confrontarli con tre testi critici su di essi pubblicati, le recensioni di Raffaele Taddeo uscite su El-Ghibli (2009 e 2011) e l’articolo di Anna Federici (2011) sulla migrazione nei romanzi di Elvira Dones, Ibrahimi e Vorpsi. Sempre all’interno della quarta sezione discuterò la mia proposta critica. La quinta sezione conterrà le conclusioni.

1. Cosa chiedersi e come
Lo scopo di questo articolo è valutare se i termini del dibattito critico sugli scrittori migranti in Italia siano sufficienti per cogliere la specificità letteraria dei romanzi di esordio di Vorpsi, Il paese dove non si muore mai (2005), e Ibrahimi, Rosso come una sposa (2008).
Nella mia disamina mi propongo di individuare luci e ombre del dibattito critico sugli scrittori migranti in Italia e di proporre l’accostamento delle due opere in questione ad un dibattito interdisciplinare più ampio ed internazionale, quello sul così detto colonialismo dell’immaginazione, ovvero sulla fossilizzazione di modi di rappresentazione dell’Europa Orientale in relazione ad una tradizione narrativa incentrata sulla necessità di (auto)affermazione dell’Europa Occidentale.
La domanda che, di conseguenza, mi porrò, è se il dibattito critico che si concretizza nei testi critici di Taddeo e Federici tenga conto della struttura tematica dei due romanzi di esordio.
La mia tesi è che la prospettiva di questi studiosi sia viziata dalla ricerca esasperata dell’autobiografismo, aspetto che viene riproposto al grande pubblico anche dalle pagine della cultura delle testate italiane. A mio avviso, l’etichetta di scrittori migranti ha in una certa misura sviato l’attenzione della critica dalla specificità dei testi di autori come Vorpsi e Ibrahimi, favorendo in qualche modo il concentrarsi dell’attenzione della critica sulla legittimità dell’esperienza della migrazione come tema letterario prima, e, in un secondo momento, sul valore culturale che questo tema può avere all’interno del contesto italiano. Si tratta, sempre a mio avviso, della conseguenza dell’assenza di un dibattito politico-culturale che dia risposte ad urgenti domande sulla nuova demografia dell’Italia. In mancanza di risposte in campo sociale, il mondo della letteratura è diventato un’arena dove legittimare la presenza dei “nuovi italiani” non solo nelle città della Penisola, ma anche sugli scaffali delle librerie e nei salotti culturali. Di fatto, però, il fatto che un’opera letteraria venga scritta e pubblicata in una determinata lingua, ne provoca l’immediata connessione con un contesto culturale. Quello che diventa quindi fondamentale è capire cosa un’opera abbia da dire.
Per trovare una risposta al mio quesito di ricerca, confronterò la struttura tematica di Il paese dove non si muore mai e Rosso come una sposa con i tre testi critici da me scelti e metterò in evidenza in che misura questi tengano presente la struttura tematica dei romanzi. I testi critici di Taddeo (2009, 2011) e Federici (2011) sono stati scelti in virtù del loro interesse specifico per i testi trattati in questo lavoro e perché particolarmente rappresentativi delle tendenze critiche delineate nella sezione seguente.

2. Scrittori migranti e non solo
Il dibattito critico sugli scrittori italofoni di origini straniere
Prima di entrare nel merito degli studi accademici, voglio introdurre un dibattito mediatico, quello sulla così detta “cittadinanza letteraria”, che ha animato l’inizio del 2012 dalle pagine del quotidiano “Il Fatto Quotidiano”. La polemica sulla cittadinanza letteraria è particolarmente interessante perché, nei suoi termini, riflette lo stato della discussione sugli scrittori migranti in ambito accademico e offre un’immagine di quanto la dimensione sociale abbia inficiato la discussione sugli scrittori migranti in Italia.
La definizione di “razzismo letterario” è stata lanciata sulle pagine del quotidiano “Il Fatto Quotidiano” dalla giornalista e scrittrice Daniela Padoan, che ha denunciato la diffusa assenza di scrittori italofoni di origine straniere all’interno dei maggiori premi letterari italiani (16/1/2012). Secondo Padoan, questo vuoto non sarebbe tanto dovuto alla mancanza di una letteratura “globalizzata” di qualità, ma piuttosto ad un “ultimo tabù” che la società italiana si sta trovando ad affrontare nel proprio processo di globalizzazione, ovvero quello di riconoscere la presenza di narrazioni della migrazione come parte integrante della tradizione letteraria scritta nella lingua di Dante (16/1/2012). Padoan non esita a parlare di una vera e propria “cittadinanza letteraria” e sottolinea che, in Italia, il ruolo degli scrittori italofoni di origine straniera è discusso all’insegna dell’ ambiguità “tra riconoscimento di valore letterario, giudizio politico e sguardo antropologico” (16/1/2012).
All’intervento di Padoan hanno fatto seguito una serie di interventi da parte dei più noti scrittori con origini straniere del panorama italiano: Igiaba Scego (18/1/2012), Mohamed Malih (19/1/2012), Adrian Bravi (20/1/2012), Milton Fernandez (30/1/2012) e Bijan Zarmandili (12/3/2012). A questi interventi si possono aggiungere solo due articoli provenienti da esperti di letteratura italiani: quello di Daniela Brogi (25/1/2012), ricercatrice in letteratura italiana all’Università per Stranieri di Siena, e quello di Ginevra Bompiani (12/3/2012). In nuce, questo dibattito (continuato per diverse settimane, fra l’altro, sul forum online di “Saturno”, l’inserto culturale de “Il Fatto Quotidiano”) esemplifica i termini della discussione sulla condizione dei così detti scrittori migranti in Italia.
In ambito accademico, nel corso degli ultimi quindici anni, studiosi di università sia italiane che straniere (soprattutto americane) si sono dedicati alla mappatura del fenomeno che è stato definito alternativamente degli scrittori migranti e della scrittura migrante. Con l’appellativo di scrittori migranti sono stati classificati autori di varia origine, tutti accomunati da una caratteristica biografica comune: l’avere origini non-italiane. Sono stati considerati migranti, più restrittivamente, quegli scrittori nati all’estero e immigrati in Italia in un secondo momento della propria vita, oppure, più estensivamente, anche quegli scrittori nati in Italia ma con genitori di nazionalità straniera, insieme a scrittori che non vivono in Italia ma scrivono in lingua italiana, come Vorpsi. Il termine scrittura migrante, invece, è stato usato come calco dell’espressione inglese migrant literature (Portelli 2006: 473), che, di fatto, è arrivata ad avere la stessa accezione ampia della definizione di scrittori migranti.
Il fatto che, in buona parte, le opere di questi autori (sia in versi che in prosa) trattino temi che hanno a che fare con la migrazione pare essere considerata una conseguenza implicita del loro essere migranti. Partendo da questo presupposto, il dibattito critico in Italia si è diviso fra un eloquente silenzio da parte della critica nei confronti dei così detti scrittori migranti e un’entusiastica partigianeria, spesso più interessata al valore socio-politico delle opere di scrittori migranti che alla loro specificità letteraria. In altri termini, come già notato da Mauceri (2011), gli scrittori migranti sono stati studiati più in quanto migranti che in quanto scrittori.
Fra i primi ad interessarsi della letteratura post-coloniale e di immigrazione è stato Armando Gnisci, fino al 2010 docente di letteratura comparata presso l’università La Sapienza di Roma. Già nel 1992, Gnisci pubblica un saggio dal titolo Il rovescio del gioco, in cui presenta un nuovo oggetto di studio per la critica letteraria, la letteratura in italiano dell’immigrazione magrebina in Italia (Gnisci 2002: 20). La riflessione di Gnisci si concentra soprattutto sull’eredità culturale del colonialismo italiano nell’opera di scrittori provenienti dalle ex-colonie, in particolare su quella che lui considera come una forma di rimozione dell’esperienza sia coloniale che migratoria dalla memoria culturale italiana (Gnisci 2003: 83). La produzione critica di Gnisci è caratterizzata da una forte tendenza all’impegno sociale e politico, da una volontà di riportare a galla gli elementi rimossi dal passato italiano tramite la produzione letteraria degli scrittori migranti. Gnisci afferma a chiare lettere di attribuire un valore socio-politico allo studio della letteratura, come appare evidente nell’incipit dell’introduzione di Creoli, meticci, migranti, clandestini e ribelli (1998):

Domanda: una disciplina può (deve?) diventare un discorso politico e addirittura un discorso a favore della ribellione?
Oggi sì – rispondo (1998: 7)

E’ proprio la convinzione dell’intrinseco valore socio-politico delle discipline letterarie che fa da sfondo alla pesante presa di posizione di Gnisci nei confronti dell’interesse dimostrato da studiosi americani per la letteratura di migrazione italiana:

A me sembra che l’interesse così accentuato di alcuni italianisti che operano nelle università degli Stati Uniti verso il fenomeno attuale della letteratura degli "immigrati" in Italia sia dettato da un eccessivo e, direi, poco critico fervore metodologico per i cultural studies. […] Si tratta di una visione conoscitiva che approvo, purché venga applicata in maniera critica e non resti una vetrina delle varie merci offerte da un paese-nazione o da un gruppo etnico alle curiosità della borghesia colta nordamericana, attraverso gli occhi della sua accademia. Nel nostro caso, invece e appunto, vedo una diffusa, progressiva e, in larga parte, mediocre applicazione di questa metodologia di ricerca in senso imperialistico ed etnologico. […] Credo che sia ora che tali distorsioni vengano portate alla luce affinché questo delicato e cruciale argomento civile e transculturale non venga ridotto in pillole per i colleges nordamericani, pronte quindi per una diffusione universale (anglofona), da New York a Sidney (Gnisci 2001).

Le considerazioni di Gnisci (2001) sulla letteratura di migrazione in Italia come un ”delicato e cruciale argomento civile e transculturale” hanno lasciato il posto, in tempi più recenti, al lavoro sulla così detta “letteratura del mondo”, calco del concetto goethiano di Weltlitteratur, svolto in collaborazione con Franca Sinopoli e Nora Moll (2010).

La maturazione del pensiero critico sulla letteratura di migrazione sembra andare di pari passo con l’evoluzione della presenza degli scrittori migranti all’interno dell’industria editoriale italiana. Tre recenti articoli di Alessandro Portelli (2006), Paola Ellero (2010) e Manuela Coppola (2011) fanno il punto sull’evoluzione della presenza di scrittori italofoni di origini straniere sugli scaffali delle librerie italiane. Sia Portelli che Ellero e Coppola riconoscono diversi momenti all’interno del fenomeno degli scrittori migranti: una fase iniziale, corrispondente ad un periodo di tempo compreso fra la seconda metà degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, caratterizzata da esperimenti di co-autorialità, ovvero di scrittura a quattro mani; una seconda fase, caratterizzata dalla pubblicazione di testi non o solo in parte autobiografici da parte di immigrati di prima generazione; infine una terza fase, legata alla produzione di scrittori che, per ragioni anagrafiche o circostanziali, hanno l’italiano come madrelingua e scrivono romanzi che spesso trascendono il tema dell’immigrazione in senso stretto.

Mi pare interessante notare che né Portelli né Coppola facciano riferimento ai testi critici di Gnisci nella loro disamina dello stato della produzione e della ricezione critica dei testi di scrittori italofoni di origini straniere. Al contrario, entrambi sembrano prendere le distanze dall’impegno socio-politico di Gnisci sia non ricollegandosi al suo lavoro critico che problematizzando la prima fase della ricezione dei lavori di scrittori italofoni. Portelli (2006: 473) non esita a definire “extra letterario” l’interesse inizialmente riservato alla prima produzione di scrittori migranti in Italia, e al contempo condanna la scelta di inserire gli scrittori italofoni di origini straniere all’interno di un canone della lettura comparata come un modo di sviare il problema dello status di tali scrittori all’interno del canone della letteratura italiana. Si tratta, questa, proprio della scelta fatta da Gnisci (1998: 8), che attribuisce alla comparatistica la responsabilità dello studio della letteratura migrante. In modo simile a Portelli, Coppola considera la tendenza a vedere “un documento sociologico” in questi testi come una forma di immaturità culturale di fronte alla globalizzazione, frutto della “sorpresa generale dell’Italia e un’intempestività a negoziare, capire o anche solo concepire un tale, significativo cambiamento della società e, di conseguenza, anche del mondo della letteratura” (2011: 124).

Al contrario, Ellero menziona esplicitamente Gnisci come uno degli studiosi “più interessati” (2010: 9) al fenomeno degli scrittori migranti. Lo stesso volume monografico della rivista Lingua nostra, e oltre, da cui il contributo di Ellero è tratto, contiene un’intervista a Gnisci (Bruno 2010: 14-15).

Prima di procedere ad ulteriori osservazioni sullo status della scrittura migrante, verranno qui di seguito riportate in modo schematico le diverse fasi della produzione di testi in italiano da parte di autori con origine straniere come delineate in Portelli (2006), Ellero (2010) e Coppola (2011).

2.1. Gli anni Novanta e l’esperienza della co-autorialità
Ellero colloca nel 1989 l’anno di nascita simbolico della letteratura migrante in Italia (2010: 5). Nell’agosto del 1989 Jerry Masslo, un giovane sudafricano che lavorava nella provincia di Caserta come raccoglitore di pomodori venne derubato e ucciso. L’evento, secondo Ellero, portò alla ribalta della cronaca un fenomeno che al tempo era principalmente “sotterraneo”, ovvero il fatto che “l’Italia da paese di emigrati si stava trasformando in terra d’immigrazione” (2010: 5). All’episodio fece seguito la pubblicazione di due romanzi scritti a quattro mani da due emigrati del Maghreb insieme a due giornalisti italiani, che fecero da “coautore con la funzione di supporto linguistico” (Ellero 2010: 5). Immigrato di Salah Methnani (scritto con la collaborazione di Mario Fortunato) è uscito nel 1990 presso la piccola casa editrice Teoria mentre Dove lo stato non c’è, scritto da Tahar Ben Jelloun con la collaborazione di Egi Volterrana, è uscito nel 1991 presso Einaudi. Altri due lavori co-autoriali dello stesso periodo sono Io, venditore di elefanti di Pap Khouma e Oreste Pivetta (1990) e La promessa di Hamadi di Saidou Moussa Ba e Alessandro Micheletti (1991).
Sia Ellero (2010: 5) che Portelli (2006: 473) che Coppola (2011: 124) sono concordi nell’attribuire un forte autobiografismo e un marcato valore di testimonianza alle opere di questa prima fase della letteratura migrante in Italia. Coppola, che si concentra sulla produzione delle scrittrici migranti, considera la co-autorialità come un “‘compromesso necessario’ all’interno di un mercato editoriale non particolarmente incline a dar voce all’esperienza della migrazione” (2011: 124). Portelli sottolinea anche la presenza di un destinatario implicito per queste opere in questo contesto, ovvero quella piccola parte del pubblico italiano espressamente interessato all’esperienza della migrazione (2006: 473). Inoltre, Portelli riconosce anche una sorta di “tono comune” in queste prime opere, un tono caratterizzato dal patetismo, dal lirismo dei sentimenti e da una “sfumatura esotica di nostalgia” (2006: 474).

2.2. La “scrittura solista” e gli scrittori di seconda generazione
Alla fase della co-autorialità segue la pubblicazione di una serie di testi non o solo parzialmente autobiografici scritti stavolta in prima persona da autori per cui l’italiano è una seconda (o terza, o quarta) lingua. Ellero battezza questa esperienza come la “fase della scrittura solista” in cui gli autori “investono sulla lingua italiana per poterne raggiungere, poco per volta, il possesso” (2010: 6). La definizione di Ellero può essere applicata ai lavori di Tahar Lamri, nato ad Algeri, di Adrian Bravi, originario dell’Argentina, di Bijan Zarmandili, nato a Theran, del rumeno Mihai Mircea Butcovan o degli scrittori albanesi Ron Kubati, Ornela Vorpsi e Anilda Ibrahimi. Come la loro provenienza, il retroterra culturale, l’età e il rapporto con l’Italia di questi autori sono i più disparati. Anche la loro fortuna editoriale è fra le più diverse: alcuni, come Ibrahimi e Zarmandili pubblicano con grandi case editrici come Einaudi e Feltrinelli, altri (Kubati, Bravi) vengono pubblicati da piccole case editrici per poi passare alla grande editoria, altri (Butcovan) rimangono legati al mondo della piccola editoria. Il più particolare è forse il caso di Ornela Vorpsi, che pubblica il suo romanzo di esordio Il paese dove non si muore mai in italiano ma in Francia, nel 2004, presso Actes Sud, e solo nel 2005 in Italia presso Einaudi.
Un terzo caso, invece, è rappresentato dai così detti scrittori “di seconda generazione” (Ellero 2010: 7). Si tratta di autori nati in Italia o arrivati in Italia nei primi anni della propria vita, che hanno l’italiano come madrelingua accanto ad una seconda madrelingua ereditata dai genitori, spesso immigrati in Italia alla fine degli anni Settanta o negli anni Ottanta del secolo scorso. Gli scrittori di seconda generazione forse più noti sono Igiaba Scego, Cristina Ali Farrah, Shadi Hamadi e Sumaya Abdel Qader.
Il fattore biografico è ritenuto da Gnisci rilevante nella definizione di scrittore migrante. Chi è cresciuto in Italia, immerso in un contesto culturale italiano, non sarebbe portatore di “un’esperienza esistenziale fondamentalmente unica”, (Bruno 2010: 14) ovvero di quella sorta di spaccatura nell’esperienza di un individuo creata dall’esperienza della migrazione. Di conseguenza, quindi, secondo Gnisci autori come Scego non possono essere inseriti nel calderone degli scrittori migranti proprio in considerazione della loro biografia. Portelli e Coppola, al contrario, sembrano più propensi a parlare di una letteratura della migrazione, in cui a fare da ago della bilancia per l’analisi testuale è il nucleo tematico, mentre, secondo l’analisi dei due studiosi, l’elemento biografico sembra giocare un ruolo meno importante.
Secondo Portelli, il fattore che davvero caratterizza lo scarto fra una prima ed una seconda stagione della letteratura della migrazione in Italia è “una più forte affermazione di cittadinanza e diritti” accompagnata da un “impegno per il mestiere della scrittura in sé e per una maggiore variazione di genere e soggetti” (2006: 474-5). In altri termini, la differenza fra una prima ed una seconda ondata di letteratura della migrazione risiederebbe nel diverso approccio con la scrittura, che diventa oggetto in sé dell’atto creativo dello scrittore piuttosto che mezzo per concretizzare la necessità di comunicare l’esperienza della migrazione.
La stessa prospettiva è condivisa da Coppola nella sua riflessione sulle scrittrici migranti. Coppola sposa la concezione, tipica della critica post-colonialista e in particolare di Homi Bhabha (1994), secondo cui lo scrittore migrante, alterizzato all’interno di un contesto culturale che non ne riconosce il ruolo, è oggetto di una scissione interna (2011: 124): da un lato l’io creativo, dall’altro “l’Altro” oggettizzato all’interno di rappresentazioni stereotipe. Secondo Coppola, il merito di scrittrici quali Ornela Vorpsi, Gabriella Ghermandi, Cristina Ali Farah e Laila Wadia è di sfidare rappresentazioni stereotipe della donna migrante per mezzo di nuove rappresentazioni, in cui gli spazi solitamente attribuiti alla figura femminile vengono narrati in una nuova luce, in un contesto “globalizzato e diasporico”. In questo modo, le scrittrici della seconda generazione si appropriano di un diritto alla narrazione inedito, in grado di gettare nuova luce su molti aspetti oscuri della società italiana contemporanea.
La presenza di simili prese di posizione critiche nei confronti del ruolo dell’autobiografismo all’interno della critica della letteratura della migrazione è un chiaro segnale di come le prime narrazioni autobiografiche pubblicate a quattro mani all’inizio degli anni Novanta abbiano influenzato anche la ricezione critica dei testi della seconda ondata di scrittori italofoni con origini straniere. Insieme alla tendenza a cercare il dato autobiografico, a ridurre queste narrazioni a reportage, il dibattito sulla “cittadinanza letteraria” sulle pagine de “Il Fatto Quotidiano” è una testimonianza eloquente delle difficoltà che questi testi tuttora incontrano a essere accettati come parte integrante della letteratura italiana contemporanea.

3. Un nuovo possibile quadro teorico: il colonialismo dell’immaginazione
Considerato lo stato dell’arte del dibattito critico esaminato nella sezione 2, sorge spontaneo chiedersi se sia davvero possibile continuare ad ignorare il fatto che esista un consistente corpus testi scritti e pubblicati in italiano da scrittori con origini straniere per un pubblico italofono. A prescindere dalla cittadinanza letteraria che la critica può voler attribuire a questi scrittori, a prescindere che li si chiami migranti o italiani, sta di fatto che la critica oggi si trova davanti ad una serie di testi in italiano per cui il “compromesso necessario” dell’autobiografismo (Coppola 2011: 124) non pare una chiave i lettura esaustiva. Sia che si analizzino aspetti formali nella prosa della seconda ondata di scrittori italofoni di origine straniera, sia che se ne analizzino i modi di rappresentazione, è chiaro che l’autobiografismo da solo non fornisce strumenti sufficienti all’analisi di testi complessi come Il paese dove non si muore mai di Ornela Vorpsi e Rosso come una sposa di Anilda Ibrahimi.
Nel caso dei romanzi di esordio di Vorpsi e Ibrahimi, un indizio sufficientemente chiaro del distacco dalla narrazione della migrazione è il semplice fatto che la migrazione sia un tema assolutamente marginale in entrambi i testi. Al contrario: la quasi totalità della narrazione è dedicata alla storia di una serie di personaggi femminili principali sullo sfondo dell’Albania del ventesimo secolo.
La presenza predominante di voci narranti femminili sullo sfondo di eventi della storia albanese sembra suggerire la possibilità di un’analisi tematica basata proprio sul tema del genere e della rappresentazione dell’Albania in contrapposizione all’Occidente europeo. Quest’ultimo aspetto è forse il più interessante, dal momento che permetterebbe di inserire i due romanzi di esordio di Vorpsi ed Ibrahimi in un contesto di analisi interdisciplinare ampio, non solo legato al contesto italiano, quello dell’analisi di forme di rappresentazione dell’Europa Orientale, recentemente battezzato come “colonialismo dell’immaginazione” da Maria Todorova nel suo studio sui modi di rappresentazioni dei Balcani (1997).
A partire dagli anni Novanta dello scorso secolo, ricerche in diverse discipline hanno infatti cercato di far luce sulla presenza di una sorta di doppia percezione, radicata all’interno del continente europeo, di ciò che debba considerarsi come “genuinamente europeo”. Simbolo di questa doppia nozione di Europa sarebbero le due metà del continente: quella Orientale e quella Occidentale.
In particolare, il concetto di orientalismo coniato da Edward Said è stato il punto di partenza per studi pioneristici sulla presenza di un Oriente-altro all’interno del continente europeo. Secondo Said, l’idea di Oriente ha rappresentato per la storia occidentale delle idee “un modo per scendere a patti” con la complessità culturale dei territori colonizzati dagli Europei (1991: 1). Il primo studioso ad estendere il concetto di orientalismo ad una dialettica interna tutta europea è stato l’americano Larry Wolff, che ha studiato lo sviluppo dell’idea di Europa Orientale come una proiezione immaginaria del potere politico-culturale delle nazioni dell’Europa Occidentale e dei loro equilibri intestini. Partendo da questo presupposto, la divisione del continente europeo durante la Guerra Fredda, simbolizzata dalla Cortina di Ferro, rifletterebbe un discorso che si è sviluppato in parallelo con l’idea di nazione a partire dall’Illuminismo fino ai giorni nostri. Secondo Wolff, l’idea di nazione e la concezione dell’esistenza di un’Europa Orientale “sono concetti complementari, che si definiscono a vicenda per opposizione o per adiacenza” (1995: 5).
L’idea di Orientalismo è stata poi usata da Vesna Goldsworthy e Maria Todorova per analizzare narrazioni ambientate nei Balcani provenienti da diverse epoche storiche e scritte in diverse lingue. La conclusione a cui entrambe le studiose sono arrivate è che il Balcani costituiscono “un sottogenere di un discorso più ampio sull’alterità” (Todorova 1997: 7), che altro non è che il discorso orientalista studiato da Said (1991). In particolare, i Balcani possono essere considerati come l’oggetto di un processo di “colonizzazione dell’immaginazione” (Goldsworty 1998: 2), ovvero di una forma di colonizzazione dell’immaginario collettivo sui Balcani, delle rappresentazioni che ne derivano e degli stereotipi che da queste rappresentazioni traggono origine. In questo senso, la parola “colonizzazione” non si riferisce ad un potere coloniale in senso politico ma piuttosto alla posizione subordinata dell’Europa Orientale all’interno delle narrazioni prodotte nel mondo Occidentale. L’immaginario sull’Europa Orientale e dell’Europa Orientale è stato colonizzato dall’Occidente europeo nella misura in cui ha riflettuto gli equilibri e squilibri politici del mondo occidentale, diventandone una proiezione, un “parente povero” che vive della luce riflessa dell’Occidente. Da qui sarebbe nata l’immagine stereotipa di un’Europa Orientale arretrata, chiusa e selvaggia, terra di vampiri e di società tribali.
La base per l’analisi svolta da questi studiosi è costituita in buona parte da testi letterari, carteggi e diari di viaggio. Il loro interesse, tuttavia, non risiede nella specificità letteraria delle fonti ma piuttosto nei presupposti filosofici che queste, se opportunamente interrogate, possono rivelare. Questo fatto lascia libero il campo a possibili ulteriori ricerche nel campo della letteratura, delle arti figurative e del cinema.

4. Struttura tematica dei romanzi e analisi dei testi critici
Prima di esaminare più da vicino i tre testi critici sui romanzi di esordio di Vorpsi e Ibrahimi che fanno emergere tendenze interpretative problematiche, qui di seguito vengono presentate le due opere nella loro struttura tematica.

4.1. La struttura tematica de Il paese dove non si muore mai
Il paese dove non si muore mai è un romanzo breve costituito da 15 sezioni, ciascuna recante un proprio titolo. La voce narrante è un narratore interno a focalizzazione fissa, il cui punto di vista corrisponde a quello della giovane protagonista. Si tratta di un’opera allo stesso tempo unitaria e molteplice. Le sue 15 sezioni, infatti, possono essere considerate sia come i capitoli di un’unica narrazione che come narrazioni indipendenti. A confermare la possibilità di “spezzare” il testo in sequenze minori è il fatto che la voce narrante non abbia un’identità prestabilita, ma al contrario cambi nome ben cinque volte: Ormira in Tuorli d’uovo, Elona in Corona di Cristo, Ornela in Sogno e in Arance di Tirana, Ina in Il dervish delle meraviglie, Eva in Terra promessa. Vorpsi stessa considera questo tipo di frammentarietà un tratto caratterizzante della propria prosa, derivante dall’esperienza e dalla formazione nel mondo delle arti plastiche, ad una “struttura mentale fatta di immagini” (Mauceri: 2006).
Sia protagonisti che antagonisti, la voce narrante e l’Albania sono i due soggetti del romanzo. L’incipit contiene una descrizione dal tono mitico dell’Albania e del suo popolo:

E’ il paese dove non si muore mai. Fortificati da interminabili ore passate a tavola, annaffiati dal raki, disinfettati dal peperoncino delle immancabili olive untuose, qui i corpi raggiungono una robustezza che sfida tutte le prove. […] Siamo in Albania, qui non si scherza.
Di polvere e fango è fatto questo paese; il sole brucia a tal punto che le foglie della vigna si arrugginiscono e la ragione comincia a liquefarsi. Da ciò nasce una specie di effetto secondario (temo irrimediabile): la megalomania, delirio che in questa flora germoglia come un’erba pazza. […]
La paura è una parola senza significato. Lo vedi subito nei loro occhi che sono creature immortali.
La morte è un processo estraneo (Vorpsi 2005: 5)

Gli albanesi sono descritti da principio come un popolo da un lato immortale, dall’altro malato di una megalomania che sa quasi di follia. E’, questa, una descrizione connotata in maniera mitica, dall’alto valore metaforico, dove vengono sottolineate caratteristiche quasi fiabesche del popolo albanese. Eppure il contesto è concretissimo: è quello dell’Albania dell’infanzia di Ornela Vorpsi, isolata e controllata dal regime di Enver Hoxha. Su questo sfondo, l’immortalità del popolo albanese non è che una metafora per descrivere una sorta di totale indifferenza al divenire, come se la vita nell’Albania comunista si fosse cristallizzata in una forma di sopravvivenza sempre uguale a se stessa.
Quella del popolo albanese è una presenza collettiva all’interno dell’intero testo, che si manifesta tramite la voce di personaggi che appaiono spesso in maniera isolata, come tanti cammei, a fare da controparte alla protagonista. La voce dell’Albania è quella che si esprime attraverso i detti popolari che vengono utilizzati per istruirla, per ricondurla ad una morale collettiva che nessuno albanese pare mettere in discussione. A ciascuno dei detti citati corrisponde un tema preciso dell’Albania di Vorpsi.
Il primo tema – forse il più forte in tutto il romanzo – è quello della puttaneria, ovvero dell’intrinseca natura corrotta del femminile. “Un uomo si lava con un pezzo di sapone e torna come nuovo, mentre una ragazza non la lava neanche il mare!” (Vorpsi 2005: 7) è una delle prime lezioni sulla femminilità impartite alla protagonista, che è dalla nascita macchiata di un doppio peccato: da un lato è figlia di un prigioniero politico, dall’altro è una ragazza di bell’aspetto in un paese in cui la bellezza è simbolo di peccato, dove “una ragazza bella è troia, e una brutta – poverina! – non lo è” (2005: 7).
Un altro tema importante è quello della famiglia che controlla e sancisce lo spazio della sfera individuale, che moralizza e, tramite i legami di sangue, predestina la vita di un individuo: “i tuoi ti mangiano la carne, ma ti conservano l’osso” (Vorpsi 2005: 12) è il monito della zia alla piccola protagonista. Come dire: la famiglia è sia il luogo della censura che della formazione dell’identità, che, nel caso della protagonista, è dal principio corrotta dal fatto di avere un padre prigioniero politico (Vorpsi 2005: 12).
“Vivi che ti odio, e muori che ti piango” è la terza massima albanese nel testo. Ritorna due volte (Vorpsi 2005: 11, 47) e sancisce un motivo ricorrente nell’intero romanzo, la “linfa” (2005:11) dell’Albania di Vorpsi, ovvero l’impossibilità di una qualsiasi forma di empatia a livello interpersonale, sostituita da un’ipocrita celebrazione delle qualità dell’individuo dopo la sua morte.
Strettamente legato al precedente, è il quarto detto citato nel romanzo, secondo cui l’Albania è il paese dove “anche le mura hanno occhi e orecchie” (Vorpsi 2005: 76). La mancanza di empatia è affiancata da una più generale mancanza di fiducia nel prossimo, che potenzialmente può rivelarsi una spia in grado di denunciare al partito anche il più comune segno di umana debolezza, come quello della madre che nasconde le ossa del figlio ucciso come disertore (Vorpsi 2005: 78).
L’Albania di Vorpsi produce quotidianamente vittime: il calzolaio che viene internato per aver cercato di produrre un paio di scarpe senza il permesso del partito (2005: 20), il padre che viene condannato come dissidente politico per aver previsto un cattivo raccolto di patate (2005: 33), ma soprattutto tante donne, oggettificate da un lato dalla voracità sensuale maschile, dall’altro spiate e condannate dallo sguardo moralizzante delle altre donne. L’episodio forse più esemplificativo della condizione femminile è la sezione dal titolo Bel-Ami. In essa viene narrata la storia di Bukuria e Ganimete, madre e figlia, costrette a prostituirsi per avere una rendita.
La narratrice riporta diverse versioni della storia di Bukuria e Ganimete, dove il padre tende per lo più ad essere scagionato dalla propria assenza e l’origine della miseria della famiglia viene attribuita a Bukuria (che avrebbe addirittura scontato una pena in carcere uscendone “più bella che mai”! (Vorpsi 2005: 43) ). La vita delle due sembra proseguire all’insegna dell’isolamento dalla società albanese e dai muri “dotati di occhi ed orecchie”, con Bukuria che cammina per strada “con lo sguardo indurito per mettere una barriera contro la gente e le chiacchiere” (Vorpsi 2005: 44). Ma alla fine lo sguardo della collettività vince l’isolamento, condanna la condotta di madre e figlia, che vengono mandate in un campo di rieducazione, dove entrambe si suicidano dopo due anni di stenti.
L’Albania che “suicida” Bukuria e Ganimete è la stessa che ha condannato Berta, Dorina e le altre donne che si sono gettate nel lago descritto nella sezione Acque. Tutte vittime di violenze o di amori infelici, si sono lasciate morire per nascondere il proprio peccato, che “non può essere lavato nemmeno dall’acqua del mare”. L’Albania di Vorpsi, quindi, è sì un paese dove non si muore mai, ma dove le donne hanno una spiccata tendenza al suicidio nel momento in cui vengono escluse da una generale “lotta per una sopravvivenza decente” (Vorpsi 2005: 59).

4.2. La struttura tematica di Rosso come una sposa
Rosso come una sposa è una saga familiare, raccontata attraverso le storie di quattro generazioni di donne. Diviso in due parti, il romanzo offre diversi punti di vista. Nella prima metà il narratore è esterno ed onnisciente e racconta la storia di Saba Buronja, data in moglie dalla madre Meliha al vedovo della sorella Sultana. La storia di Saba e della sua famiglia si interseca con la storia passata della madre Meliha sullo sfondo dell’Albania del primo Novecento. L’ambientazione è Kaltra, piccolo villaggio fra le montagne della provincia di Valona. Nella seconda metà, il narratore cambia in un narratore interno a focalizzazione fissa, la cui prospettiva è identificabile con la voce narrante di Dora, nipote di Saba, che, in prima persona, racconta la storia della propria famiglia, filtrata dalle proprie memorie.
L’Albania raccontata da Ibrahimi è allo stesso tempo simile e profondamente diversa da quella di Vorpsi. Il comunismo, la forte divisione dei generi, “i muri che hanno occhi e orecchi” sono sempre lì, ma trapiantati in una realtà diversa dalla durezza della Tirana comunista di Vorpsi. La Kaltra di Ibrahimi sembra quasi il villaggio di una narrazione fantastica, dove i vivi – anziché non morire mai – vivono accanto ai morti in un dialogo continuo e senza tempo.
La descrizione di Kaltra ha la connotazione dell’indeterminatezza: il villaggio, immerso nelle montagne, sembra “non essere in contatto con niente e nessuno, tranne che con il tempo” (Ibrahimi 2008: 17), tanto che “non si [sa] mai con precisione a quale distretto Kaltra [appartenga]” (Ibrahimi 2008: 17). Kaltra è un non-luogo quasi leggendario, i cui abitanti ricordano la descrizione mitica degli albanesi fatta da Vorpsi: “si sentivano potenti come le pietre delle tombe che godono l’eternità inconsapevoli” (Ibrahimi 2008: 17). Ma è appunto questa inconsapevolezza che distingue gli albanesi di Ibrahimi dalla megalomania violenta di quelli di Vorpsi. L’Albania del primo Novecento a Kaltra è un luogo dove il destino e l’ineluttabilità della storia governano gli eventi, dove è possibile leggere il futuro nei fondi di caffè e dove la storia e la geografia del luogo si confondono nella memoria degli anziani:

Al centro del paese, nella piazza, si trova il busto di un grande guerriero. Grande per modo di dire, perché si erano perse del tutto le tracce della sua identità. Non si sapeva più a quale epoca e guerra appartenesse. In principio doveva aver avuto una spada in mano, ma solo i più vecchi ormai lo ricordavano. (Ibrahimi 2008: 18).

In questo paese senza tempo, il comunismo, al contrario che nella Tirana di Vorpsi, sembra portare un’occasione di indipendenza e rivincita per le donne albanesi. Saba, che durante la Seconda Guerra Mondiale aveva perso quasi tutti i fratelli, uccisi dai soldati nazisti durante un’incursione notturna, “non aveva mai letto Il Capitale e nemmeno sapeva cos’era il comunismo. Ma era lo stesso comunista […] ‘Comunisti’ erano quelli che avevano combattuto o perso i loro cari nella guerra contro il nazifascismo, le avevano spiegato. Punto” (Ibrahimi 2008: 47). Nel dopoguerra comunista, Saba per la prima volta trova un lavoro fuori dalle mura domestiche come sarta in una cooperativa, porta un proprio stipendio a casa, può prendere la licenza media alle scuole serali e soprattutto può limitare le scorribande alcoliche del marito minacciandolo di denunciarlo al segretario di partito locale (Ibrahimi 2008: 48). Ibrahimi a chiare lettere afferma che “si può dire in cinque parole quello che stava finalmente vivendo: [Saba] era padrona della sua vita” (Ibrahimi 2008: 48).
Accanto a questa visione apparentemente più positiva dell’Albania comunista, sopravvivono alcuni dei temi già trattati da Vorpsi. Quello della puttaneria, che in Ibrahimi è chiamata con il termine albanese di kurveria, attraversa tutto il romanzo. Esemplare è l’episodio che coinvolge una delle sorelle di Saba, Esma, che è fra le poche protagoniste del romanzo ad avere avuto il privilegio di un matrimonio d’amore. Anche se regolarmente sposata, Esma viene calunniata come kurva dagli abitanti di Kaltra perché troppo avvezza alla cura di sé nell’attesa delle visite a casa del marito, capitano dislocato nella capitale:

Esma era pigra, e lenta. Si alzava tardi e, mentre la suocera e le cognate si spaccavano la schiena per finire i lavori domestici prima che arrivassero gli uomini, lei passava a fare lunghe trecce alle figlie e a pettinarsi i capelli biondi sotto la luce del sole (Ibrahimi 2008: 65).

Le calunnie rivolte a Esma, per quanto palesemente false, costringono il marito a ripudiarla in nome del proprio onore (Ibrahimi 2008: 70). La voce della collettività, “dei muri dotati di occhi e orecchie”, quindi, vince nel romanzo di Ibrahimi come in quello di Vorpsi. In misura minore, lo stesso destino tocca alla nipote Dora, che, quasi mezzo secolo dopo, viene bollata come kurva per via del proprio abbigliamento nella Tirana post-comunista (Ibrahimi 2008: 242). Anche in questo caso, è il corpo femminile di Dora, come quello di Esma, ad essere dipinto come fonte di corruzione per l’elemento maschile: “Poi ti lamenti quando il mio gabel ti salta addosso.” Così una zingara apostrofa Dora: “E’ un vero uomo lui, che credi, e se vede la gaxhia che gliela sbandiera in faccia che deve fare?” (Ibrahimi 2008: 242). A prescindere dal luogo e dai tempi, quindi, la voce collettiva si fa sentire negli stessi termini censori, basati su una forte contrapposizione dei generi, in cui l’elemento femminile è sempre fonte di corruzione.
La novità più grande nelle figure femminili di Ibrahimi è forse la naturale vocazione di narratrici loro attribuita in Rosso come una sposa. Mentre ne Il paese dove non si muore mai la voce narrante sembra quasi aver conquistato il proprio diritto a narrare un passato in cui non aveva avuto diritto di parola, le donne di Ibrahimi sono narratrici di natura, veri e propri fili diretti fra passato e futuro. Giro di boa all’interno del romanzo, il capitolo quindicesimo segna un passaggio di consegne importante fra Meliha e la figlia Saba. Meliha, ormai inferma, incarica la figlia di prendere su di sé il tradizionale ruolo che finora lei stessa aveva investito, ovvero il compito di andare a narrare sulle tombe dei parenti morti le storie dei vivi sulla terra. Meliha, facendo riferimento al marito e ai figli morti, descrive il compito di cantare in versi le storie dei vivi come un compito femminile:

Eh, - fa Meliha indicando il cimitero. – Quelli lì sentiranno anche le piogge che dissetano la terra e il vento sui rami dei cipressi, ma altro ne dubito. Già agli uomini risulta difficile indovinare le cose legate alle donne e ai sentimenti quando stanno sopra la terra, figuriamoci sotto (Ibrahimi 2008: 83).

Alle donne viene qui attribuita una capacità di comprensione degli avvenimenti terreni che va al di là del loro semplice susseguirsi, toccando analisi psicologica ed empatia. Lo stesso compito verrà preso su di sé da Dora, che sostituisce ai versi cantati da Saba la propria narrazione scritta (in italiano) della storia di famiglia, contenuta nella seconda parte del libro:

Nonna Saba è morta il 1 febbraio 2003, lo stesso giorno in cui io mettevo al mondo mio figlio. […] Aspetto da anni sue notizie. Prima pensavo di trovarmi nel posto sbagliato e che il suo messaggero facesse fatica a trovarmi. […] Forse, ho pensato [dopo], non è sbagliato il posto in cui l’aspetto ma è sbagliata la lingua. […] Mi sono stancata di aspettare e alla fine le ho scritto per prima, queste pagine confuse in cui parlo di lei, di noi, di altri. Parlo di quello che ha vissuto lei e di quello che ho vissuto io da sola (Ibrahimi 2008: 259-261).

Che, nella catena di generazioni che parte con Meliha e finisce con Dora, sia proprio Klementina, madre di Dora, a non parlare, mi pare un elemento significativo che, in una certa misura, aiuta ad illuminare la rappresentazione simbolica che Ibrahimi dà degli anni del comunismo. A non parlare, dal punto di vista generazionale, è proprio una donna cresciuta e vissuta durante la dittatura di Enver Hoxha. Gli anni de comunismo, quindi, sono privati della possibilità di auto-raccontarsi, schiacciati in mezzo ad un passato mitico e le narrative (in altre lingue) delle nuove generazioni cresciute quando “l’Albania doveva recuperare in fretta le sue rinunce giovanili” (Ibrahimi 2008: 242).

4.3. Oltre l’autobiografismo per forza
Daniela Brogi, nel suo intervento su “Il Fatto Quotidiano” (25/01/2012), elenca cinque aspetti ricorrenti nella narrativa della migrazione:
1. Una trama matrifocale, ovvero ”la presenza di una storia recuperata da una voce femminile che svolge il filo della memoria di sé attraverso le storie di altre donne, secondo un incrocio tra esperienza presente e vicende passate riattivate dal ricordo” (25/01/2012).
2. La coralità, ovvero la presenza di trame composte da “biografie multiple narrate da punti di vista mobili” (25/01/2012).
3. Il momento della partenza e la separazione come punti di snodo della trama.
4. La struttura investigativa della narrazione, che coinvolge il lettore in un percorso di ricerca.
5. La prospettiva testuale dello spazio, ovvero la definizione del tempo della storia attraverso la narrazione dei luoghi della storia.

Si tratta di elementi presenti in molta della narrativa di migrazione del mondo anglofono, come ad esempio nella Breve storia dei trattori in lingua ucraina di Marina Lewycka, in Brick Lane di Monica Ali o in Reconnaissance (avanscoperta) di Kapka Kassabova. Significativamente, però, sia nel testo di Vorpsi che in quello di Ibrahimi manca un elemento, ovvero la narrazione della partenza del migrante come punto di snodo della narrazione. In entrambi i casi, l’esperienza della migrazione coincide con la conclusione della vicenda narrata inserita nell’ultimo capitolo di ciascun libro, mentre la struttura tematica è declinata sugli argomenti già visti in 3.1 e 3.2: la storia albanese, la condizione della donna, l’uniformità e la coralità della società albanese.
L’intuizione che si tratti più di un romanzo sull’Albania che di un romanzo autobiografico non è assente dalla recensione di Taddeo su Il paese dove non si muore mai pubblicata su El-Ghibli:

[…] la narrazione autobiografica, che risulta evidente anche con il cambiamento di nome della protagonista a focalizzazione interna, è diffusa in un clima socio-ambientale che segna il ritmo e la successione delle vicende. / E’ più la dimensione della vita di una nazione bloccata nella dittatura comunista che non la crescita di Ornela (Ina, Eva) ad interessare il lettore (Taddeo 2011).

Dopo un paio di capoversi, tuttavia, l’autobiografismo rientra nel quadro analitico di Taddeo:

Tutto lo scritto si muove a raccontare la vita della povera gente che non ha alcuna idea della libertà, che ha solo bisogno di poter vivere con un minimo di dignità.
Come struttura di fondo c’è la pulsione erotica, che induce gli uomini a considerare tutte le donne capaci di tradimento e perversione (Taddeo 2011).

A mio avviso, Taddeo non prescinde dalla matrice autobiografica. Piuttosto sembra che, al posto dell’autobiografia dell’autrice, Taddeo veda ne Il paese dove non si muore mai una sorta di biografia dell’Albania comunista e dei suoi abitanti. Federici (2011), che nella sua analisi si occupa dell’evoluzione della nozione di luogo in Dones, Ibrahimi e Vorpsi, definisce sia il romanzo di esordio di Vorpsi che quello di Ibrahimi come esplicitamente autobiografici, riconoscendo nell’autobiografia una sorta cifra caratteristica dell’esordio letterario delle scrittrici albanesi in Italiano:

Accostandoci alla loro produzione notiamo una duplice costanza: da una parte la scelta comune del genere autobiografico nel primo romanzo, dall’altra il declinarsi nelle opere successive di storie sul “tempo” del migrare. […] Quell’opera prima […] si riferisce al periodo albanese, in gran parte coincidente con la dittatura di Enver Hoxha, e si conclude con l’abbandono dei Balcani (Federici 2011: 75).

Nell’analisi di Federici, l’autobiografia diventa un paradigma letterario, un passaggio obbligato comune alle scrittrici migranti che raccontano l’Albania, “una rifocalizzazione adulta del passato Albanese” (2011: 80). Nel caso di Vorpsi, Federici sottolinea il valore del romanzo di esordio come mezzo per distanziarsi da sé (2011: 77), mentre nel caso di Ibrahimi ne considera l’autobiografismo come una forma di comunicazione intergenerazionale simbolica, in cui Ibrahimi – come Dora nel romanzo – comunica con i morti attraverso le proprie storie (2011: 79).
Nessuno dei due studiosi, tuttavia, sembra concentrarsi a sufficienza sull’elemento corale, che, come si è visto nelle sezioni 4.1. e 4.2, è un elemento fondamentale della struttura tematica dei due romanzi di esordio di Vorpsi e Ibrahimi. La società albanese, vista come il luogo dove “anche le mura hanno occhi e orecchi” (Vorpsi 2005: 76), è una presenza quasi censoria per l’elemento femminile. Ne Il paese dove non si muore mai, quella del popolo albanese è una presenza collettiva resa esplicita tramite l’uso costante di detti popolari, che esemplificano i nuclei tematici principali del romanzo. In Rosso come una sposa, la coralità è legata alla trama matrifocale: da un lato la società albanese cerca di reprimere collettivamente la corruzione dell’elemento femminile, dall’altro si perpetua e rinnova attraverso le narrazioni delle sue donne, vero ponte fra il mondo dei vivi e quello dei morti, fra il passato e il presente. Che proprio l’elemento corale sia così presente in questi due romanzi di esordio, legato a doppia mandata alla questione di genere, mi pare sia una diretta indicazione del fatto che l’autobiografismo non costituisca un’opzione interpretativa soddisfacente.
Un’intuizione molto più interessante, che travalica il dato biografico, è l’analisi fatta da Taddeo sulle pagine di El-Ghibli (2009). Nella sua recensione di Rosso come una sposa, Taddeo introduce un elemento di analisi nuovo, prescindendo dal dato biografico e concentrandosi su questioni strutturali:

Da questo punto di vista nel romanzo si pone una doppia dialettica fra arcaicità e modernità, una prima in dimensione sincronica ed un'altra diacronica. Quella sincronica che è posta nella prima parte del romanzo si organizza sull'opposizione fra città e campagna, fra città e piccolo paese, dove i perdenti, in qualche modo, sono coloro che hanno lasciato e abbandonato il paese d'origine. […] La seconda dimensione dialettica, che chiamerei diacronica, si ha nella stessa organizzazione e struttura del romanzo. La prima parte ha un narratore esterno, che rende più mitica quella narrazione, la seconda parte si presenta con un narratore interno, che ha la funzione di avvicinare maggiormente al lettore la vicenda e farlo partecipe attraverso la protagonista (Taddeo 2009).

L’analisi della dimensione sincronica e diacronica fatta da Taddeo trasferisce il discorso sul romanzo di Ibrahimi all’interno di una discussione sulle strategie narrative utilizzate dall’autrice, quindi avvicina il romanzo per la prima volta ad un’analisi del merito letterario del testo. Tuttavia, una nota di interesse per la spinta autobiografica alla scrittura non è del tutto assente nemmeno da questo contributo critico di Taddeo:

La tensione allo scrivere degli albanesi immigrati in Italia penso che abbia origine dal forte shock derivato dal rapido passaggio da una organizzazione sociale arcaica ad un'altra moderna che guarda all'Occidente come meta da vivere da subito più che da conquistare o sognare. Il repentino trovarsi in una modalità sociale lontanissima da quella dei loro padri si accompagna quasi ad una sorta di nostalgia che lavora l'io e non lo lascia tranquillo fino a che non esterna e non rivive , anche romanticamente, attraverso la scrittura quei momenti lontani nei quali chi viveva non poteva che vivere da eroe (2009 [c.n.]).

Questa osservazione, a mio avviso, spinge il discorso sui due romanzi in questione direttamente nella direzione del discorso sull’orientalismo. In particolare, mi riferisco all’affermazione basata sul postulato che la narrazione dello scrittore migrante albanese debba essere basata sullo shock del passaggio da una società arcaica ad una moderna. Questo tipo di giudizio non è secondo me evincibile dai due romanzi di esordio di Vorpsi e Ibrahmi. Ibrahimi parla esplicitamente della posizione fra l’Occidente e Oriente dell’Albania durante la Guerra Fredda in Rosso come una sposa: “[…] noi, fortunati, ci trovavamo tra due mondi: l’Occidente e l’Oriente. Ma per libera scelta avevamo preferito l’Oriente, tagliando i ponti con l’Occidente” (2008: 138). È proprio la rappresentazione di questa posizione intermedia che, a mio avviso, merita di essere indagata. Che cosa sono l’Oriente e l’Occidente che Vorpsi e Ibrahimi rappresentano? Sono davvero due dimensioni diverse e opposte, una arcaica e l’altra moderna? Particolarmente importante è chiedersi in che misura le opere di scrittori migranti contemporanei abbracciano questa dialettica di opposizione per poter determinare se l’immaginario di questi autori sia stato o meno “colonizzato” da una tradizione rappresentativa radicata nell’Occidente europeo.
Nel caso di Ibrahimi, il distacco shoccante fra Oriente ed Occidente non pare essere una motivazione ragionevole dietro alla spinta creativa dell’autrice. Al contrario, il romanzo di Ibrahimi ha una struttura ciclica: si chiude con la narrazione che la nipote Dora scrive come una forma di comunicazione simbolica per la nonna Saba. Dora si riallaccia al passato delle storie della nonna e getta un ponte fra la propria nuova lingua – l’italiano – e l’albanese di Saba, fra i canti per i morti della nonna e la propria narrativa. Similmente, anche Vorpsi sembra offrire una visione molto chiara della mancanza di distanza fra l’Albania e l’Italia, fra l’Oriente e l’Occidente europeo. Nel capitolo conclusivo de Il paese dove non muore mai, intitolato Terra promessa, la giovane Eva e la madre emigrano in Italia. La prima domanda che si sentono rivolgere in italiano è una richiesta di sesso a pagamento. In Italia, come in Albania, il corpo delle protagoniste si trova ad essere mercificato e lacerato dallo sguardo violento degli uomini. E l’Italia, non a caso, diventa la terra dove “gli albanesi hanno capito che possono morire” (2005: 110). La terra promessa non esiste, sembra dire Vorpsi, perché le condizioni di vita da un lato e dall’altro dell’Adriatico non sono così diverse e la vita in Italia non è semplice come le descrizioni polarizzate fra un Oriente comunista e Occidente capitalista hanno fatto credere agli albanesi.
Che Taddeo definisca arcaica l’Albania di questi due romanzi, a mio avviso, è un giudizio di valore basato su una percezione non tanto legittimata dai testi in questione, quanto da una tradizione di rappresentazioni culturali imperniate su un concetto di arretratezza, secondo cui l’Albanese rappresenta “il prototipo balcanico: violento, indipendente e talvolta inaffidabile”, come dimostrato da Schwandner-Sievers (2004: 110). I testi di Ibrahimi e Vorpsi sembrano piuttosto parlare di una continuità fra Oriente ed Occidente, smascherata proprio al momento della migrazione. Questo elemento mi fa credere che sia necessario uno spostamento dell’analisi di questi romanzi dal discorso sulla migrazione al discorso sul colonialismo dell’immaginazione.
Basata sulla combinata tendenza a vedere nell’autobiografismo la cifra distintiva dell’opera degli scrittori migranti e poco attenta alla presenza di una dialettica orientalista all’interno della percezione dell’Europa Orientale, la critica che concentra il proprio entusiasmo interpretativo sulla sola migrazione rischia di perdere di vista un elemento fondamentale nelle narrazioni di autrici come Vorpsi e Ibrahimi: l’Albania che loro raccontano non è un mondo arcaico “come ce lo immaginiamo noi”, ma piuttosto un universo denso di citazioni che il critico letterario dovrebbe saper interpretare con l’occhio dell’antropologo per non commettere errori di sovrainterpretazione. A mio avviso, la semplice interpretazione autobiografica depaupera l’analisi di queste opere di un loro valore intrinseco, ovvero la possibilità di essere collocate in una tradizione più ampia, quella della rappresentazione dei Balcani. Quel che forse è ancora più cruciale, è che le narrazioni di queste scrittrici parlano di una continuità fra Oriente e Occidente europei che si potrebbe probabilmente definire inedita. In che misura lo sia, può essere il soggetto di studi futuri.

5. Conclusioni: per un dibattito sulla scrittura anziché sugli scrittori
Più che trarre delle conclusioni, vorrei discutere di sviluppi futuri. Come si è visto, il dibattito sugli scrittori migranti è aperto da ormai una ventina di anni senza però aver subito sensibili evoluzioni rispetto agli esordi. Da un lato, una definizione condivisa di scrittori migranti non esiste: c’è chi, come Gnisci, considera migranti solo quegli scrittori che hanno alle spalle un’esperienza di migrazione, e chi, come Portelli o Ellero, considera migranti anche autori che hanno un’indiretta esperienza della migrazione.
Un altro aspetto del dibattito sugli scrittori migranti è la forte tendenza a riconoscere una matrice autobiografica nelle loro narrazioni. Nel caso di Vorpsi e Ibrahimi, la poca critica che di loro si è occupata si è concentrata sugli aspetti autobiografici nella narrazione dell’Albania che fanno nei loro romanzi di esordio. Nessuno, però, sembra essersi finora interessato dell’eventuale posizione di continuità o distacco rispetto a precedenti o contemporanee rappresentazioni dell’Albania in letteratura. A mio avviso, una simile prospettiva critica permetterebbe un’analisi molto più ampia di questi due testi per quanto riguarda il tema fondamentale della rappresentazione dell’Albania e dell’esperienza del comunismo.
Un’opzione interessante per un italianista sarebbe poter confrontare le modalità di rappresentazione di Vorpsi e Ibraimi con quelle di altri autori italofoni che si sono occupati di Albania, ad esempio Ron Kubati ed Elvira Dones, autrice, quest’ultima, di opere scritte sia in italiano che in albanese. Una volta individuate affinità e divergenze, diventerebbe possibile un confronto con rappresentazioni dell’Albania e dei Balcani precedentemente diffuse all’interno del canone italiano. Uno sviluppo ulteriore potrebbe essere anche il confronto fra la rappresentazione dell’Albania degli scrittori migranti e di altri autrici o autori che scrivono in albanese, ma per un simile confronto è necessaria anche la competenza, prima di tutto linguistica, di un albanologo.
Un quesito fondamentale di carattere più generale - ben più interessante dell’italianietà degli scrittori albanesi italofoni – è quindi se esista una variazione nei modi di rappresentazione di determinati temi, come in questo caso la rappresentazione dell’Albania, nella produzione di scrittori che godono di una sorta di doppia prospettiva: un’esperienza di prima mano sia della storia e della cultura albanesi che della storia e della cultura italiana. Un dibattito disciplinare particolarmente utile è, in questo senso, quello sul colonialismo dell’immaginazione, il cui scopo è l’indagine dei modi di rappresentazione dell’Europa Orientale in relazione a pratiche discorsive e rappresentative diffuse nell’Europa Occidentale.
Una volta ampliato lo spettro di analisi della specificità letteraria di questi testi, si potrebbe anche affrontare un problema di definizione. Ha davvero senso continuare a chiamare scrittori come Vorpsi e Ibrahimi “scrittori migranti”? La necessità di definire l’identità di autori italofoni di origini straniere sembra ancora una volta essere legata alla tendenza a vedere nel solo autobiografismo la specificità letteraria della produzione di autori come Vorpsi e Ibrahimi. Tuttavia, come si è visto nel caso dei romanzi di esordio delle due scrittrici, la struttura tematica stessa dei testi invita a svolgere analisi più complesse. Più che sugli autori, quindi, è opportuno focalizzare il dibattito critico sui testi.
Per quanto riguarda il tema della migrazione, si è visto che nel caso sei romanzi di esordio di Vorpsi e Ibrahimi, non si tratta di un elemento tematico significativo. Per tenere conto della fluidità di queste narrazioni, incentrate sulla narrazione di una società dalla forte coralità in una lingua diversa da quella in cui quella stessa società si esprime, sarebbe opportuno l’introdurre nel dibattito critico il concetto di cosmopolitismo descritto da David Held come un “interesse” per l’uguaglianza di ogni individuo sulla base di quello che gli esseri umani hanno in comune, indipendentemente dall’ appartenenza “familiare, etica, nazionale o religiosa” (2010: 10). Definire cosmopolita la produzione di scrittori come Vorpsi e Ibrahimi significherebbe non solo lasciarsi alle spalle il dibattito sciovinista sulla cittadinanza letteraria, ma anche affermare l’esistenza di una cultura letteraria che va ben oltre i confini nazionali e linguistici.

1 Vorpsi è nata a Tirana nel 1968. Oggi vive a Parigi, è arrivata in Italia nel 1991 e ha studiato all’Accademia di Brera per cinque anni. Ibrahimi è nata a Valona nel 1972 e vive a Roma dal 1994.
2 Per la mia ricerca bibliografica mi sono servita dei database della biblioteca dell’Università di Stoccolma, della biblioteca dell’università di Venezia e della biblioteca universitaria di Bamberg, del database Basili dell’Università la Sapienza di Roma, del database Regina della Biblioteca Reale di Svezia nonché del catalogo nazionale svedese Libris.

Riferimenti bibliografici

Fonti primarie
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VORPSI, ORNELA. (2005) Il paese dove non si muore mai. Torino: Einaudi.

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