Nota biografica | Versione lettura |
Mi chiamo Pinocchio e voglio raccontarvi la mia storia. Raccontarvela dal mio punto di vista. Oh, immagino ciò che state
pensando e credo convenga fare subito una precisazione: il mio non è un caso di antonomasia, né tantomeno di furbizia da
epigono che vuole attirare l’attenzione con altrui celebrità. Vorrei che fosse chiaro: io sono Pinocchio. Quel Pinocchio, sì.
Lo so, conoscete tutti la mia storia. Quella scritta oltre un secolo fa da Carlo Lorenzini. Collodi, appunto.
Che c’è da
aggiungere, allora? Da aggiungere forse poco, da togliere molto. Collodi ha raccontato la mia storia come una storia va
raccontata ai bambini: scegliendo di dire certe cose e di tacerne altre. L’ha raccontata come si scolpisce una statua di legno, o
se preferite un burattino: tirando via il superfluo. Ma poi quel racconto l’hanno preso in mano i grandi – e sono cominciati i
guai. Poiché i grandi non ascoltano: vogliono farsi ascoltare. Non capiscono: vogliono far capire. Non “farsi capire”, badate
bene: far capire! E a questo punto posso ben dire che anche la pazienza di un burattino ha i suoi limiti.
Centoventicinque
anni di pazienza mi sembrano sufficienti, e sfido chiunque a non essere d’accordo! È arrivato dunque il momento di mettere
i famosi “puntini sulle i”.
Come dicevo prima: di raccontare la mia storia dal mio punto di vista. Il punto di vista di un
burattino senza fili. Non sarà semplice, e ne sono consapevole. Giacché è proprio questo che spaventa i grandi: il punto di
vista di un burattino. (Ockayová 2006: 7-8)
Questa citazione apre il romanzo della scrittrice di origine slovacca, Jarmila Ockayova, residente in Italia da molti
anni e autrice di una serie di interessanti romanzi, di cui l'ultimo, pubblicato nel 2006 dalla casa editrice Cosmo
Iannone, si intitola Occhio a Pinocchio. Il riferimento al classico collodiano è evidente non solo dal titolo, ma anche
dall'incipit del testo, in cui l'io narrante Pinocchio precisa subito che non si tratta di alcun caso di omonimia ma
che è proprio lui il famoso burattino, rivendicando tuttavia la sua precisa istanza: vuole prendere parola ed
esprimere il proprio situato, collocato, punto di vista. La sua storia, infatti,oltre ad essere raccontata in terza
persona da Collodi, è stata per oltre un secolo oggetto delle più differenti interpretazioni e letture, a cui la
sottoscritta, inevitabilmente ne aggiungerà una ulteriore, cercando tuttavia di rimanere fedele al punto di vista di
questo rinnovato Pinocchio: un burattino che dice io, un essere dall’identità plurale (è di legno, ma privo dei fili
che identificano ogni burattino) che aspira a venire accettato da uno dei mondi che lo esclude, quello degli
uomini. Ha compreso che entrare a far parte di quel mondo significa perdere la pluriappartenenza – o non
appartenenza – che è fonte di infiniti guai. Il filo conduttore dell’identità appare centrale sia nella rivisitazione
dell’avventura pinocchiesca che nell’originale: sono numerosi i critici che interpretano il testo collodiano come
una continua ricerca e fuga da se stessi e forse la chiave del successo planetario (260 tra lingue e dialetti) sta forse
nella possibilità che il racconto offre a ciascuno, a prescindere dall’età, lingua e appartenenza, di rispecchiarsi
nelle avventure del burattino, nella sua ricerca di se stesso, nella sua aspirazione a realizzarsi e nei tanti ostacoli in
cui si imbatte, nonché nelle tentazioni e scorciatoie a cui tenta di accedere e che si dimostrano solo ulteriori
deviazioni dal suo percorso. Potremmo dire che il burattino Pinocchio è profondamente umano, nei suoi limiti,
debolezze e fragilità.
L’autrice ha parlato di questo romanzo in termini di parabola della metamorfosi interiore del burattino. Ha
ribadito il parallelismo tra Pinocchio e lo straniero, poiché entrambi si scontrano con le fobie classificatorie altrui,
i pregiudizi e le diffidenze. Inoltre, sono entrambi incompresi e quando parlano la loro versione è ignorata dagli
altri. Da qui, l’esigenza di raccontare la storia dal punto di vista del burattino. Si tratta di una scrittura che
riattualizza Pinocchio, valorizzando la sua condizione di esiliato, di outsider e che riporta alla luce questioni
legate alla contemporaneità.
La mancata accettazione di Pinocchio, presto risolta nell’originale, ha grande rilievo nell’opera di Ockayová,
fondata sull’eccezionalità o eccentricità del burattino senza fili. La percezione di estraneità, affrontata e sconfitta
con piglio deciso dal burattino collodiano, figura molto più sofferta in Occhio a Pinocchio, dove l’alterità del
protagonista è rimarcata in più luoghi della narrazione. I maestri del bosco, figure che Ockayová inserisce ex
novo nel suo testo e metafore, nella nostra lettura, dell’umanità e delle sue contraddizioni, si contendono la
definizione del burattino e della sua incerta identità:
questo è Pinocchio, – precisò Geppetto. Un orfano, – precisò il maestro Abete. Uno sbandato, – precisò il maestro Ciliegia.
Un intruso, – precisò il maestro Pioppo. Un capro espiatorio, – precisò il maestro Platano. Un essere embrionale di origine
sconosciuta, – precisò il maestro Cipresso. Un’opera del diavolo, – precisò il maestro Castagno Un mistero da svelare, –
precisò il maestro Salice. Un’occasione da cogliere al volo, – precisò il maestro Noce. (23)
Queste ambigue e un po' minacciose figure, i maestri, sono assaliti da un’ansia definitoria alimentata
dall’esigenza di razionalità e regole. Si accapigliano per decidere chi è Pinocchio, per definirlo e soprattutto che
cosa fare di lui. La loro attività preferita è lo «scontro verbale» (24) e Pinocchio è spesso al centro dei loro
dibattiti. Le loro parole sono a tal punto gonfiate da non esprimere nulla
i maestri sono fatti così: hanno la presunzione di sapere già tutto e di poter spiegare ogni cosa, ma poi arriva sempre il
momento in cui sentono quel richiamo, quell’attrazione irresistibile per il bosco, e allora non possono proprio fare a meno
di andarci; sembrano dei chiodini in prossimità del corpo magnetizzato di una calamita. Nella mia vita di ramo, non di rado
io li ho visti così, a vagare col passo smarrito e lo sguardo conturbante. E per non dover ammettere quella debolezza – cioè,
quel che loro considerano una debolezza – per darsi contegno e per giustificare quell’andare ramingo per il bosco, i maestri
si sono inventati una sequenza logica che chiamano causa ed effetto. (12-13)
Sono personaggi che vogliono nascondere le loro debolezze, mascherandole con la logica e la razionalità, "capaci
di creare le classiche quadrature del cerchio ... Insomma, i maestri di oggi riescono a fondere la teoria geocentrica
e la teoria eliocentrica in una sola visione del mondo: quella egocentrica." (16)
Individualismo, incapacità di ascolto delle ragioni altrui, contraddizione, ma anche paura di ciò che non riescono
a comprendere e che non rientra nelle loro categorie sono le caratteristiche predominanti dei maestri.
Muovono a Geppetto l’accusa di aver creato un pericoloso burattino: "creare un burattino senza precauzioni e
senza fili, dissero, è come sguinzagliare un cane non addomesticato e senza museruola". (24).
L'intento parodico di Ockayova si esprime non solo nella rielaborazione di molte scene collodiane, ma è nel
linguaggio in cui gli esempi si fanno numerosi: per illustrare lo stato d’animo di Pinocchio durante il suo esilio sul
pino: "ero più che disperato: ero esasperato. Il che è come essere disperato triplo, se è vero che il prefisso “di”
indica il numero due e il prefisso “esa” invece il sei. Ciò che resta togliendo i prefissi, paradossalmente, è la
speranza" (129).
Tali poche righe esprimono quel processo di tematizzazione della parola che sostanzia l’intera narrazione e che
rende manifesti quegli aspetti reconditi del linguaggio che si danno per scontati. Ockayová pesa ogni parola, la
rigira e la esibisce nelle sue molteplici possibilità; per la scrittrice, ogni termine ne nasconde altri, a partire dal
titolo del ro- manzo: "è questo che intendeva Collodi quando mi ha chiamato Pinocchio: l’occhio di pino.
L’occhio di un albero". (9)
La parola “Pinocchio” ne racchiude un’altra, sia a livello nominale che sostanziale: Pinocchio nasce dal pino e
contiene nel suo nome la propria matrice. La questione linguistica appare di vitale importanza per il protagonista
del romanzo che evidenzia lo strettissimo rapporto che intercorre tra lingua e identità. La scrittrice ha affermato
a proposito del suo romanzo che è un libro duetto tra identità e alterità, che cominciano dal linguaggio.
Pinocchio incarna tale duetto tra identità e alterità e la sua riflessione metalinguistica è un altro modo per dare
forma a se stesso e per dichiarare la sua coraggiosa – eversiva ai più – idea di lingua e di identità.
Il tema dell’evoluzione identitaria accomuna entrambe le vicende, sebbene nel caso di Occhio a Pinocchio
divenga uno dei motivi principali dell’esclusione del protagonista, portatore di una diversità non riducibile ai
rigidi schemi mentali dei più. Nel testo di Ockayova, nemmeno quando Pinocchio assume le fattezze di uomo la
sua inclusione è possibile: si ritrova rinchiuso e incatenato in un casotto a forma di pescecane da cui non può
uscire se non mediante la forza dell’immaginazione e quando la Fata chiede conto ai maestri di tale assurda
prigionia, si sente rispondere in modo un po' imbarazzato:
Il maestro Olmo tossicchiò, si schiarì la gola, borbottò qualcosa di incomprensibile e poi, all’improvviso, sembrò recuperare
tutta la potenza della sua voce e si lanciò in un lungo monologo: – Quella sua pretesa di innocenza, se non addirittura di
purezza! è esasperante! è inaccettabile! Le pare possibile che non si riesca a trovare una marachella significativa, dico una!
nella sua vita di burattino? Le pare possibile? Che cosa ci nasconde, questo Pinocchio? E come ce lo nasconde? (168)
Il capovolgimento del testo collodiano è totale, espresso dai paradossi del maestro: all’inizio Pinocchio è
considerato un pericolo perché, non avendo i fili, non è manovrabile come tutti i burattini; poi viene
preventivamente imprigionato in quanto potrebbe compiere marachelle ed il fatto che non se ne macchi lo rende
sospettabile. L’uso manipolatorio che i maestri fanno della lingua per ribadire la loro verità e sopprimere chi
cerca di opporsi è evidente: la principale caratteristica del burattino collodiano, il suo essere indisciplinato,
diviene il metro di giudizio di questo Pinocchio. Il suo essere Pinocchio, come afferma il maestro Olmo, è la colpa
suprema e necessita di essere punita con l’annullamento. Questo Pinocchio non è un malandrino, aspira come il
suo predecessore a diventare uomo e, alla fine, ci riuscirà, ma con una grande differenza rispetto a Le avventure: in
queste ultime la trasformazione giunge come ricompensa per le fatiche affrontate, mentre in Occhio a Pinocchio
l’epilogo non include redenzione né salvezza e il prezzo da pagare per la metamorfosi umana è insostenibilmente
alto. In fondo, il nostro Pinocchio ha sin dalle prime pagine esibito un’umanità (nonostante la sua consistenza
lignea) ben più profonda di coloro che si considerano umani: tale contraddizione intrinseca ha reso la sua identità
inaccettabile agli occhi altrui.
Il finale del romanzo lascia intravedere un lumino – letteralmente – di speranza, incarnato da quello
Stoppinocchio che nasce dallo sforzo immaginativo del Pinocchio imprigionato e che può muoversi libero. È
uno stratagemma di grande originalità di Ockayova, che sdoppia l’identità già complessa del suo personaggio
giocando ancora con la lingua:
e all’improvviso sentii uno strattone – un potente grumo di energia che correva lungo il mio braccio sinistro e apriva,
dall’interno, le dita della mia mano – e poi, di colpo, mi ritrovai sul palmo di quella mia mano. Tutto intero: un Pinocchietto
lillipuziano sulla mano aperta di un Pinocchio di dimensioni gulliveriane. Un Pinocchietto sottile come uno stoppino e forte
come il tubo cibroso che perfora il legno. (155-156)
Abilmente l’autrice illustra la relazione tra questo bizzarro personaggio e un altro esistente in Collodi, Lucignolo,
mantenendo il legame di amicizia originario e rivelando la corrispondenza nominale tra i due:
venni a sapere che qualcuno particolarmente mattiniero sorprendeva Stoppinocchio al rientro delle sue scorrerie nel bosco e
lo vedeva infilarsi nel tettuccio del casotto e non sapendo chi fosse fabbricò e divulgò una spiegazione dell’accaduto, e cioè
che mi ero fatto un amichetto, complice dei miei trastulli balordi, delle mie giornate nullafacenti. Di voce in voce, gli diedero
anche un nome: Lucignolo. Credo per via di quel corpo filiforme. E così nacque quella storiella, raccontata da Collodi, della
mia amicizia con Lucignolo. Quanto al nome, se i nomi debbano avere un significato, quelle ciarle non erano lontane dalla
verità: Stoppino o Lucignolo, l’aspetto era quello. E la sostanza anche. (160)
Forma e contenuto diventano speculari, Lucignolo e Stoppinocchio sono un’unica figura, il significato del loro
nome corrisponde e il rapporto di amicizia che li lega a Pinocchio rimane invariato. Anche Stoppinocchio è fonte
di ansie per i maestri, in quanto "non è nemmeno iscritto all’anagrafe e risulta anche più inafferrabile di
Pinocchio" ( 168- 169). È un fuori legge ma, almeno per lui, una possibilità di salvezza sembra profilarsi. È data
dalla fiducia che deve imparare a coltivare nei confronti del linguaggio: la fiducia nelle parole, la verità di cui sono
portatrici sono l’unica via d’uscita che possa contrastare la concezione strumentale e impoverente che i maestri
hanno del linguaggio e dell'identità.
Sarà Stoppinocchio a insegnare a Pinocchio che la libertà da barriere vere e metaforiche è possibile solo se ci si
nutre di speranza e immaginazione e saranno queste a permettere a Pinocchio di sfuggire alle definizioni e alle
trappole dei maestri. È la dimensione fiabesca a permettere a Pinocchio di salvarsi, perchè, come ha affermato la
scrittrice extra testo, il racconto di fantasia educa alla fiducia nella possibilità. Pinocchio diventa così
un minuscolo tassello adagiato in uno spazio infinito. Infinito e sconfinato; vale a dire: senza confini. E senza limiti,
compresi quelli della logica razionale: quello spazio immenso era vuoto e al contempo popolato con una densità tale da
essere fonte inesauribile di stupore e trepidazione. Di vita. Allora, pur se col respiro corto e lo sguardo appannato, Pinocchio
si levò sui gomiti e, sorretto in quella postura da Stoppino, guardò nella direzione della bocca serrata del casotto pescecane.
E guardò oltre la bocca serrata, guardò tendendosi tutto verso quello spazio infinito, guardò spalancandosi a quello spazio.
E si sforzò di sperare, e di sperare ancora. (190)