El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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alla ricerca di una scrittura meticcia: lingue, trame, autori, collettivi

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Si rende noto che il testo sotto riportato il testo è frutto di una sbobinatura a cura della redazione.

Grazie dell’invito. Ho ascoltato con molto interesse gli interventi che mi hanno preceduto. Devo dire che questa è una casa nella quale mi sento a mio agio nonostante non abbia mai scritto per el-ghibli, quindi non faccio parte direttamente della famiglia, però è una casa dove mi trovo bene nel ruolo di invitato. Siccome mi è stato, chiesto come da programma, che l’intervento deve durare un quarto d’ora e siccome vado a braccio con pochi appunti presi alla rinfusa sul taccuino, chiederei a chi mi sta a fianco se quando sono a 13 minuti, mi scrive 13 minuti così mi avvio alla conclusione. All’inizio della giornata di questo convegno il direttore della biblioteca addirittura ha citato, Timira, questo romanzo che Antar Mohamed, Isabella Marincola ed io abbiamo scritto e pubblicato l’anno scorso, definendolo un romanzo che ha chiuso il cerchio. Io prendo l’immagine di quando tutti si è su una giostra e tutti quanti ci si spinge aggrappandosi al corrimano centrale e la giostra fa un giro e poi riparte e la ripartenza, che a me così piacerebbe suggerire, è quella della scrittura collettiva perché prima si parlava di Timira come un romanzo scritto a quattro mani, in realtà è un romanzo scritto a sei mani per ragioni anche contingenti, nel senso che la persona con cui avevo iniziato a scrivere Isabella Marincola, questa donna italo somala di 85 anni che recitò come mondina in Riso Amaro di Giuseppe De Santis, è morta nel corso d’opera e quindi il romanzo è stato terminato di nuovo a quattro mani ma senza cancellare le mani precedenti ovviamente con suo figlio Antar Mohamed, che è nato in Somalia, cittadino somalo e poi cittadino Italiano dai primi anni ’90. E quindi il problema che a me piacerebbe lanciare all’interno di questa Letteratura della migrazione, possiamo anche non chiamarla più così, è la modalità di scrittura. Sbirciando le copertine dei libri e leggendo le firme di coloro che appartengono a el-ghibli, noi troviamo non più di due nomi, invece l’Italia si sta segnalando sempre di più come la patria della scrittura collettiva, il luogo dove si tenta questa via apparentemente molto difficile dello scrivere a più mani. Sta diventando a livello anche mondiale la patria della scrittura collettiva perché se si guarda al passato e se si guarda al presente, in effetti le esperienze di persone che hanno cercato di scrivere insieme sia saggistica che narrativa, cominciano ad essere consistenti, una consistenza che in altri paesi non c’è e me ne accorgo quando vado all’estero. Spesso bisogna andare fuori dal proprio paese per rendersi conto delle cose che accadono. Mi dicono: “com’è che in Italia avete tante esperienze di questo tipo”. Io non so rispondere a questa domanda, però è vero che in Italia sono stati fatti esperimenti significativi, ci hanno provato i futuristi nel 1929 con Lo Zar è morto a cui ha partecipato anche Marinetti, un romanzo decisamente sperimentale scritto a dieci mani; ci hanno provato negli anni ’70, gli allievi di Giuliano Scabia al DAMS di Bologna, con un testo teatrale collettivo intitolato Il Gorilla Quadrumàno, ovviamente tutti conosciamo l’esperienza della scuola di Barbiana con La Lettera ad una professoressa, questa scrittura che fa nascere un noi collettivo attraverso il processo dello scrivere insieme, cha dà identità a un gruppo di persone che riesce attraverso un metodo che oggi può essere appreso, può essere insegnato, che riesce a dire qualcosa di importante a un ricevente del messaggio. Sottolineiamo che la causa, il punto di partenza per avere un’esperienza di quel tipo è avere qualcosa da dire, avere un bisogno di dire, sentire che soltanto noi possiamo dirlo così e avere qualcuno a cui rivolgersi. Ecco perché la lettera è qualcosa con cui ci si rivolge a qualcuno. Ma poi nei tempi recenti vi sono state svariate esperienze, gli ultimi anni hanno visto fiorire collettivi di scrittura, c'è questo metodo che è stato strutturato da Gregorio Magini e Vanni Santoni e si chiama Scrittura Industriale Collettiva, che recentemente ha prodotto un testo intitolato In Territorio nemico, scritto con la collaborazione di 115 persone. E’ un metodo appunto ben preciso, che si può anche consultare on line nel loro sito, ci sono le esperienze di Paolo Agaraff, di Lou Palanca, dei Kai Zen. C’è la nostra esperienza di Wu Ming che va avanti da 17 anni di scrittura a 8 o 10 mani. Recentemente, questo autunno, Christiana De Caldas Brito ed io su invito dell’associazione Eks&Tra, che molti di voi conosceranno, da tanti anni impegnata a divulgare la letteratura scritta da chi non ha l’italiano come prima lingua, come seconde generazioni, migranti o residenti stranieri, quindi su invito di questa associazione abbiamo diretto un laboratorio di scrittura che già si faceva negli anni precedenti, che Christiana aveva già condotto ma che fino a quest’anno, cioè fino al 2012-2013, come anno accademico diciamo, aveva sempre previsto la scrittura individuale. Si era stimolati a scrivere narrativa con quelle che sono le tecniche dello scrivere e i passaggi fondamentale nella scrittura di un testo. Quest’anno abbiamo provato un’esperienza nuova, chiamandola appunto “Laboratorio di racconti meticci” e abbiamo provato a mettere insieme i partecipanti per gruppi di più di tre persone o uguali a tre, in maniera anche abbastanza casuale. Le persone si sono conosciute al primo incontro, una quarantina di persone, provenienti come origine da diversi paesi e sulla base di una discussione abbastanza rapida per interessi, una certa ambientazione, un certo tipo di storia, spunti aneddoti, che si sono raccontati, si sono scelti. Non per una conoscenza pregressa. In un laboratorio spesso si sperimentano condizioni che a volte non sono quelle reali, sono condizioni controllate in cui uno fa un esperimento e cerca di vedere che cosa viene fuori. Nella situazione reale, fuori dal laboratorio, le persone poi si conoscono, si frequentano e poi nasce l’idea, la voglia di scrivere qualcosa insieme. Un primo elemento che ci è sembrato interessante in questo esperimento che poi ha prodotto sette racconti collettivi con due gruppi che non sono riusciti ad arrivare in fondo alla scrittura e sette invece hanno terminato il lavoro (sono stati seguiti in maniera mirata i singoli gruppi, seguiti anche dopo che avevano prodotto una prima stesura del racconto), una prima cosa che ci ha colpito favorevolmente di questo esperimento è che di fronte alla scrittura collettiva si è tutti disarmati allo stesso modo, cioè non c’è una predominanza di uno dei due come potrebbe accadere nella coppia di scrittura che è stata sperimentata di un madrelingua italiano e di un migrante o di uno straniero. Uno dei due partecipanti alla coppia in qualche modo è in una posizione di forza, che per quanto se ne voglia spogliare, liberare con l’intento di partire alla pari o di mettersi sullo stesso piano, di non fare un’operazione di scippo narrativo, cioè di sottrarre la storia alla persona che non ha la lingua del paese per raccontarla e poi di tradurla nelle proprie parole, anche se tenta di non fare questo, tuttavia è in una posizione in cui è difficile non sovraposizionarsi. Di fronte alla scrittura collettiva le persone sono tutte spaventate nello stesso modo. Per chi non ha mai provato, è una specie di salto nel buio che spaventa tutti quanti. Come si fa a scrivere in tre in quattro, come ci mettiamo d’accordo, non è possibile, uno vuole scrivere una cosa, io un’altra, io ho il mio stile, lui un altro, sicuramente finiremo per litigare. Fidatevi è possibile, si riesce. Però c’è un punto di partenza che vede tutti disarmati allo stesso modo. La cosa interessante è che ovviamente aumenta la dinamica di gruppo, rispetto ad una scrittura individuale, nonostante la consapevolezza che ciascuno ha delle proprie piccole schizofrenie, però di solito da solo la dinamica di gruppo ce n’è poca, a meno che questa persona non cerchi un confronto continuo con le persone, come qualche volta accade rispetto alla sua scrittura, in due c’è una sorta di rapporto matrimoniale, si crea quella specie di monade, di rapporto binario, molto simmetrico ed invece quando si incomincia ad essere in tre, in quattro la dinamica aumenta a dismisura e la cosa interessante è che in questa dinamica aumentata ovviamente non c’è più il rapporto binario anche qui spesso sperimentato fra colui che in qualche modo appartiene alla cultura del paese ospitante rispetto al quale ci si deve integrare e l’altro. Qui sono tutti altri perché nei gruppi c’era una persona madrelingua italiana e poi c’erano persone provenienti da paesi diversi. Quindi non c’era quel rapporto uno a uno, uno ad altro, in cui io ho la lingua giusta rispetto a questo paese e tu no, io in qualche modo sono il rappresentante della cultura di sfondo rispetto alla quale tu devi diventare pezzo del puzzle che riesce ad incastrarsi bene, che riesce ad integrarsi, anche per me la parola integrazione bisognerebbe eliminarla. Lì la cosa si spalanca e proprio perché la cosa è collettiva, proprio perché bisogna mettersi d’accordo in più persone su come scrivere, cosa scrivere, come tradurre in parole, quali sono le parole giuste per dire una determinata cosa, nei gruppi in cui c’erano magari due madrelingua italiana, uno dei due scopriva spesso di essere in costante disaccordo rispetto a come scrivere con il suo compagno di lingua e di essere molto più d’accordo su come scrivere col partecipante tunisino, egiziano, norvegese o tailandese. Quindi anche qui veniva immediatamente messo in crisi il luogo comune, lo stereotipo comune per cui tra italiani ci capiamo meglio quando dobbiamo scrivere qualcosa, abbiamo una lingua comune, abbiamo un’esperienza comune, abbiamo un background comune e con gli altri faremo un po’ fatica. E’ uno stereotipo per cui l’elemento faticoso nel cercare la scrittura collettiva sarebbe stato costituito dalle culture diverse. Questo stereotipo ci fa sempre schiavi di un eccesso di cultura direbbe Aime. Nasce immediatamente dentro questi gruppi il bisogno di concedere all’altro quello che Eduard Glissant dice il diritto all’opacità. Noi siamo molto legati a questa idea del comprendere, del capire, probabilmente ci viene anche dal pensiero scientifico , da una tradizione occidentale, noi pensiamo di poter stare bene con l’altro solo nel momento in cui lo capiamo, abbiamo capito come funziona. Ho capito come funzioni, ho capito come reagisci, posso stare bene con te. Abbiamo questa ossessione che dobbiamo capire, capire, capire e dimentichiamo che dobbiamo concedere all’altro il diritto all’opacità. C’è una parte di me che forse non capirai, che forse non ti so spiegare, che forse non riuscirai a capire, eppure siamo qui in un gruppo che sta cercando di scrivere un racconto insieme. Ed è interessante vedere come si possa scrivere insieme anche avendo concesso all’altro il diritto all’opacità, cioè anche senza aver capito tutto e ogni meccanismo di come l’altro vuole scrivere, di quali sono i suoi valori, perché c’è un compito che è quello di scrivere e ovviamente c’è un confronto da fare sui valori che riguardano il racconto e sulle parole che riguardano la pagina, sulle parole che bisogna scegliere da mettere giù. Il resto può rimanere opaco e non debbo per forza tradurre l’altro nel mio ideale di trasparenza, in quello che ho imparato a conoscere come trasparenza. Allora questo è il terzo elemento che io ho trovato molto interessante, si finisce di andare oltre l’ibridazione. In fondo quando sei in un gruppo di questo genere in cui ci sono magari due madrelingua italiani, nati in Italia e due invece che hanno l’italiano come seconda lingua, uno nato in Tunisia e uno nato in Iraq, il progetto di ibridazione, di meticciamento, di creolizzazione della lingua alla quale devo sottopormi per scrivere insieme è lo stesso col mio collega di lingua rispetto al lavoro che devo fare di ibridazione con gli altri che devono scrivere con me. Uno si chiede anche questa ibridazione di cui spesso parliamo soltanto nel momento in cui parliamo di immigrazione, parliamo di stranieri, forse in realtà è un elemento comune quotidiano della nostra esistenza, che non vediamo, che magari ci passa sotto gli occhi proprio perché non prendiamo le distanze, così come ti accorgi di qualcosa del tuo paese soltanto quando esci dal tuo paese; forse ti accorgi di quanto ti devi ibridare anche con una persona apparentemente uguale a te, più simile a te quando esci dalle pratiche di tutti i giorni e tenti un esperimento assolutamente non quotidiano, extraterrestre come quello della scrittura collettiva e provare a fare una cosa che non hai mai fatto, non hai mai tentato e ti sembra appunto particolarmente difficile con chi ti è simile. Quindi diciamo che l’ibridazione diventa un fatto non più specifico e mi rendo conto che c’è più differenza fra il me stesso di 20 anni fa e il me stesso di oggi che tra me e il papà tailandese del compagno di classe di mio figlio. Questi racconti adesso sono anche on-line, sul sito di Eks&Tra, si possono consultare, ovviamente sono il risultato di un laboratorio con non tante ore a disposizione in cui per l’entusiasmo di tutti si è andati molto oltre le ore che erano previste, perché appunto ci si è incontrati fuori dall’orario previsto, dal quale continuano a nascere cene, incontri che in qualche modo ha fatto fiorire anche la nascita del noi attraverso la scrittura. Chiaramente prendendosi più tempo credo che possa essere un altro giro di giostra che vale la pena fare. Grazie.

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Anno 10, Numero 41
September 2013

 

 

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