Nota biografica | Versione lettura |
Intervenendo da esterno alla giornata di studi per il decennale di el Ghibli – rivista
alla quale non ho affidato fin qui alcun mio contributo ma che ho frequentato in rete
da lettore assiduo – intendo ringraziare innanzitutto la redazione nella persona di
Raffaele Taddeo, grazie alla cui liberalità partecipo oggi a questi festeggiamenti. Il
mio vuole essere un intervento dialogico, legato al contesto discorsivo in cui si
colloca e, per questa ragione, rischierà di risultare deludente rispetto al titolo
incautamente concepito in forma estesa a qualche mese dalla celebrazione odierna.
Mi limiterò pertanto a porre certe questioni, nel migliore dei casi, o altrimenti a
menzionarle soltanto.
Prima fra tutte, quella cui è dedicato l’incontro, la questione della “ibridazione”. Si
tratta di una pratica certamente possibile – giusta la forma assertiva del titolo - e
tanto più felice, a mio modo di vedere, quanto meno indotta da buoni propositi
interculturali ovvero quanto più politicamente scorretta. Al di là dei numerosi
omaggi al nostro canone da parte dei cosiddetti “scrittori migranti” (materia di cui
mi sono già occupato altrove e sulla quale non torno) e dei più rari segnali di
accoglimento da parte della cultura nazionale (da citare almeno, sul versante
cinematografico, la recente trasposizione dal più celebre romanzo di Nicolai Lilin per
opera di Gabriele Salvatores), forme di appropriazione più controverse e perfino
predatorie (o proditorie) testimoniano della felicità di uno scambio ormai mutuo (e
muto talvolta) tra autori italiani ed italòfoni. Del resto, fin dalle primissime pagine
del suo Palinsesti. La letteratura al secondo grado (1982), Gerard Genette
dispiegava, col caratteristico furore tassonomico, la varia fenomenologia delle
relazioni transtestuali dalla “forma più esplicita e più letterale” della citazione a
quella “meno esplicita, e meno canonica, del plagio”, attraverso una casistica
proliferante tra parodia, travestimento, pastiche, continuazioni, trasposizioni ecc. Se
guardiamo, per esempio, al destino di ricezione artistica di Princesa (1994) di
Fernanda Farìas de Albuquerque e Maurizio Jannelli e dello Scontro di civiltà per un
ascensore a piazza Vittorio (2006) di Amara Lakhous, il “tradimento” dell’originale
pare la strada maestra della riscrittura. Nel primo caso, la rielaborazione in forma di
canzone della biografia di Princesa da parte di Fabrizio De André (in Anime salve del
1996) ha consentito un inaudito accostamento della figura di un transessuale
brasiliano a quella di Maria di Nazaret, la cui infanzia il cantautore genovese aveva
narrato nella Buona novella molti anni prima1, nonché l’apposizione in clausola di un
lieto fine affatto estraneo alla vicenda esistenziale della protagonista. Il romanzo
stesso, d’altra parte, escludeva dalla narrazione la parte finale del manoscritto,
relativa alla detenzione nel carcere di Rebibbia, e nasceva da una trascrizione del
brogliaccio firmato da Fernanda Farìas de Albuquerque, da parte di un coautore
italiano, vòlta alla normalizzazione linguistica del manoscritto luso-sardo-italòfono
ed al silenziamento della voce queer dell’ “informante nativa”2. In quanto al film
tratto dall’esordiente Isotta Toso nel 2010 dallo Scontro di civiltà di Lakhous, è stato
lo stesso autore di origine algerina a definirlo “un meraviglioso tradimento”. Nella
pellicola, infatti, una coppia italiana di trentenni, e la sua crisi esistenzial-sentimentale,
ruba la scena al dramma del protagonista romanzesco, controfigura
dello scrittore stesso, deraciné ma apparentemente ben integrato, in qualità di
mediatore culturale, nel multietnico scenario del quartiere Esquilino, a Roma.
Tuttavia, la scena finale del colloquio in carcere tra Ahmed e il trentenne italiano è
esplicitamente giocata – campo e controcampo – sulla specularità di vicende
personali segnate dalla precarietà: la cancellazione coatta del passato per chi sia
indotto ad assoggettarsi a un’integrazione supina, la rinuncia al domani per una
generazione di giovani italiani incapaci di rivendicare il proprio diritto al futuro. Ecco
il punto: il “tradimento” certifica l’avvenuto trasferimento di poetica tra Toso e
Lakhous. Se una giovane regista, infatti, decide di esordire raccontando una storia
originariamente ispirata dalla migrazione, ciò significa che certe scritture “migranti”
sanno parlare al lettore “residente” in virtù di una polisemia caratteristica del testo
letterario, con buona pace di quanti ancora oggi riluttano ad attribuire qualità
artistica a queste opere.
Infine, per venire al terzo e più controverso esempio di “ibridazione” tacita o segreta,
circola in rete – e qui ne riferisco senza esprimermi a proposito della sua validità, ma
solo in ragione della suggestiva fattispecie – un documento che offre, per il libro
vincitore del premio Strega 2008 (Stabat mater di Tiziano Scarpa), un dettagliato
elenco di riscontri testuali allo scopo di avvalorare la tesi del plagio “ai danni” del
poemetto inedito Maria delle caramelle, opera della poetessa di origine albanese
Anila Hanxhari. Quali che siano gli esiti della controversia - vale la pena menzionare il
contenzioso legale intrapreso, presso il tribunale di Venezia, dalla seconda ai danni
del primo – anche qui l’eventuale plagio certificherebbe l’avvenuta ibridazione tra
cultura ospite e nazionale.
Tornando al titolo, del mio intervento stavolta, la letteratura italiana multiculturale
sembra riproporre, attualizzandole, questioni cruciali della nostra storia letteraria:
dalla sempiterna questione della lingua, a quella cara a Carlo Dionisotti del
“policentrismo” delle patrie lettere, fino al ruolo, storicamente decisivo in Italia,
delle riviste letterarie.
Da più parti ormai, anche in ambito accademico, alle scritture dei “nuovi italiani” si
attribuisce la responsabilità, o il merito, di aver riaperto il cantiere, sempre in
progress, della “questione della lingua”. La rivista "Madrelingua", organo della Società
Dante Alighieri, ha dedicato il primo numero dell’anno in corso a questo tema, con
testimonianze, tra le altre, di Gabriella Kuruvilla e Nicolai Lilin, un editoriale del
premio Nobel Dario Fo, ed articoli di taglio squisitamente linguistico. Pure recente
(aprile del 2013) la giornata di studi organizzata, presso l’Università Statale di
Milano, dal Centro d'Ateneo per la promozione della lingua e della cultura italiana
(CALCIF) sul medesimo tema. In occasione del recente Salone del libro di Torino,
infine, il presidente della Crusca, Francesco Sabatini, così si è espresso circa
l’opportunità dell’ibridazione linguistica promossa nell’ambito delle scritture
migranti: «Sono scrittori che portano la nostra lingua fuori dal recinto in cui lo
teniamo noi e in qualche modo la riflettono. È una lingua […] che si riveste di un'aria
nuova, come se fosse un italiano sincero, autentico, suonato come si deve. L'uso che
ne fanno le persone che vengono da fuori e la sentono loro, e non parlo soltanto
degli scrittori, ci dà la sensazione di una lingua viva, ci spinge a parlare in un modo
più sciolto. È troppo presto per dire se l'immigrazione cambierà in modo importante
l'italiano, certo lo vivacizza»3. È appena il caso di ricordare perciò, con Gramsci, che
nel nostro paese, quando è questione di lingua è sempre questione di qualcos’altro,
di convivenza nazionale, per esempio4.
Non cessa di stupire poi, perlopiù a torto, la competenza che questi nuovi scrittori
italiani hanno acquisito nel corso degli ultimi venti anni - i primi venti della loro
attività letteraria sul “patrio” suolo – in materia di dialetti (o, per meglio dire, di
varianti diatopiche ma anche diafasiche e diastratiche, vista la maestria di alcuni nel
gestire idioletti e socioletti nel parlato dei personaggi romanzeschi messi in scena).
Mihai Mircea Butcovan, Tahar Lamri, Igiaba Scego, Amara Lakhous, Gabriella
Kuruvilla manifestano una tale familiarità con le parlate locali e i gerghi giovanili (per
alcuni di loro, i cosiddetti G2, anagraficamente motivata, del resto) da permetterci di
sottoscrivere la seguente affermazione: “La langue de ces textes est souvent aussi
ancrée localement qu’elle est ouverte sur le monde.”5
Anche la letteratura migrante ha, come già quella nazionale, una geografia oltre che
una storia. A tale proposito è consentito un esercizio, accademico magari ma
fruttuoso: riaprire le trenta pagine del saggio famoso Geografia e storia della
letteratura italiana di Carlo Dionisotti (1951) e provare, mutatis mutandis, a
parafrasare. Laddove si legge, ad esempio, che “Ancora una volta la geografia storica
italiana richiede per essere adeguatamente studiata una carta d’Europa”, sarà facile,
oggi, sostituire alla cartina continentale un più funzionale “mappamondo”. Tuttavia,
la dimensione locale di queste scritture, cresciute nel brodo di coltura della
globalizzazione, è particolarmente e consapevolmente marcata. D’accordo, i grandi
centri - Roma, della Scego e di Lakhous, Torino di Tawfik e di nuovo dell’ultimo
Lakhous, la Milano di Butcovan, Khouma e Kuruvilla che vi intitola quasi una guida
turistica. A patto però di non dimenticare i centri minori: prima che Gëzim Hajdari,
rapsodo delle alpi albanesi, si stabilisse a Frosinone e venisse insignito della
cittadinanza onoraria, da quanto tempo la Ciociaria non era cantata dai poeti?
Almeno sessanta, direi, quelli trascorsi cioè dalla pubblicazione del poemetto
Ascolta la Ciociaria di Libero De Libero; e che dire del “gaucho di Folignano city”,
Carlos Sanchez, che lascia albeggiare, tra i brucianti paesaggi della memoria
argentina, il profilo delle colline marchigiane care ad Osvaldo Licini?
Se Pier Vincenzo Mengaldo diceva persistenti “ancora nel Novecento” le “tendenze
regionali” nella nostra letteratura6, ebbene, in questi primi anni del Duemila ci
troviamo di fronte ad una reviviscenza delle medesime, proprio grazie agli scrittori
migranti. Il policentrismo, già curtense e comunale, di cui Dionisotti, persiste nel
ruolo svolto, per esempio, dalle riviste specializzate. Ah, il Novecento! La Firenze di
Campo di Marte, Solaria e Letteratura, la Roma dei Nuovi argomenti, Bologna
officinesca, il Verri meneghino! Basta rimpianti: le scritture dei nuovi italiani hanno
riattivato la funzione delle riviste letterarie ed il loro radicamento locale. El- Ghibli ne
è splendido esempio, già amministrativamente legato alla provincia di Bologna, è
oggi, nonostante l’apparente delocalizzazione on line, saldamente situato nel
capoluogo lombardo, con qualche sfumatura bovisasca. La breve ma gloriosa storia
de il Caffè, rivista di letteratura multiculturale fondata nel 1994 da Alessandro
Portelli – su quelle pagine vennero pubblicati i pochi stralci, tuttora inediti, del
manoscritto di Princesa vergato a Rebibbia - mantiene speziature
inconfondibilmente romane.
In quanto alle “forme” (di cui promettevo di occuparmi nel titolo), mi pare ormai
improcrastinabile un’analisi della struttura multifocale di numerosi romanzi
multiculturali, nonché doveroso, da parte della critica professionale, un tentativo di
interpretazione di un dato così statisticamente rilevante7. Mi limiterò qui a proporre
una tesi la cui “dimostrazione” ho affidato ad un saggio in corso di stampa. Si tratta
innanzitutto di porre la mutazione delle forme narrative in atto nelle scritture
migranti – Princesa era un romanzo, una biografia, un’autobiografia, o forse
anticipava l’autofiction oggi in auge? e perché non trovo in libreria Milano, fin qui
tutto bene, di Gabriella Kuruvilla, a meno di non rovistare tra gli scaffali delle guide
turistiche? – nel più ampio panorama dell’evoluzione della forma romanzo che, da
Saviano a Siti, lambisce ormai il mainstream della produzione autoctona. Il fatto è
che molti dei romanzi pubblicati da scrittori migranti o G2 negli ultimi anni ricorrono
ad uno schema narrativo costante e caratteristico, nel quale è possibile riconoscere
l’espediente diegetico che Gerard Genette chiamava “focalizzazione multipla”
(presentare una medesima vicenda da più punti di vista riferibili ad altrettanti
personaggi). Resta da chiarire per quale ragione una simile tecnica di racconto si
presti così bene a trasferire su carta le vicende del multiculturalismo. Alla
separatezza dei personaggi corrisponde spesso, in questi romanzi, la separazione
degli stessi in indici che al nome e alla “verità” di ciascuno attribuiscono un capitolo
(è il caso ad esempio, oltre allo Scontro di civiltà e al successivo Divorzio all’islamica
in Viale Marconi del medesimo autore, di alcuni romanzi di Younis Tawfik, di Oltre
Babilonia di Igiaba Scego, e dell’ultimo libro di Kuruvilla nel quale,
significativamente, al nome dei personaggi si sostituiscono, come titolo del capitolo,
i nomi dei quartieri nei quali si muovono). È possibile ipotizzare che una simile
scansione mimi la struttura stessa delle società multiculturali cosiddette “a mosaico”,
costituite cioè dalla giustapposizione delle diverse comunità quasi fossero tessere di
un mosaico. La stessa tolleranza, che un multiculturalismo di marca liberale concede
nella sfera privata, sembra interessare la dimensione macrotestuale di queste
narrazioni, dove ciascun personaggio è libero di dispiegare integralmente la propria
parziale visione del mondo nel proprio capitolo, senza entrare in conflitto dialogico
con gli altri che agiscono indisturbati in quello a loro riservato. La recente
pubblicazione di NW, ultimo best seller di Zadie Smith, che narra, secondo la
consueta modalità multifocale, la vicenda ambientata nella North West London (da
cui l’acronimo in copertina) di quattro personaggi, sembra giungere a confermare
l’assunto (come, secondo alcune indiscrezioni, è probabile che faccia l’imminente
novità editoriale di una nota scrittrice italo-etiope). Insomma, ai buoni propositi
interculturali di alcuni studiosi del “fenomeno” delle scritture migranti, la nostra
letteratura multiculturale fa corrispondere, come si conviene ad ogni autentica
forma di espressione artistica, la presa conoscitiva sull’esistente, non sempre
allineato al “dover essere” degli auspici più politicamente corretti. Una forma di
realismo, si sarebbe detto, più semplicemente, qualche decennio fa.
Infine, approfitto della pubblicazione in rete di questo intervento per recuperare un
finale problematico, annunciato a convegno ma eliso, in occasione dell’incontro
tenutosi nella Biblioteca di Dergano-Bovisa, per mera questione di tempo. In altre
parole, mi urge segnalare, ancora in merito alle forme del nostro romanzo
multiculturale, una tendenza, se non quantitativamente rilevante, di certo ingente
dal punto di vista qualitativo ed editoriale. Si tratta del recupero, per iniziativa di
autori nativi stavolta, della forma collaborativa tipica del romanzo-testimonianza a
quattro mani che aveva segnato la prima stagione della letteratura migrante in Italia.
Posto che la parabola delle scritture migranti nel nostro paese ha percorso un arco
che va, come mi è capitato di scrivere, dalla letteratura sui generis delle
testimonianze romanzate a quattro mani con l’ausilio di un coautore italiano, nei
primi anni novanta, alla letteratura di genere (il giallo, il noir, il reportage di viaggio
ecc.) di questi anni Duemila, un paio di titoli di grande peso nel panorama
dell’industria editoriale italiana sembrano segnalare una controtendenza. Si tratta di
due romanzi molto diversi, ma entrambi molto venduti e tradotti all’estero: Nel
mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari (2010), di Fabio Geda, e
Timira. Romanzo meticcio (2012), di Wu Ming2 e Antar Mohamed. Ciò che li
accomuna è la natura collaborativa della scrittura, nata dalla relazione con un/a
migrante (il giovane afgano Enaiatollah Akbari, nel primo caso, e la coppia costituita
dal coautore e sua madre, l’italo-somala Isabella Marincola, nel secondo).
Diversamente da quanto accadeva con Io venditore di elefanti di Pap Khouma o con
Immigrato di Salah Methnani però, qui l’urgenza comunicativa e il vantaggio
autoriale sembrano pendere dalla parte dello scrittore italiano, laddove la
cooperazione dell’informante nativo rischia di limitarsi, specialmente nel racconto di
Geda, al ruolo di fornitore occasionale di trama. Nel libro di quest’ultimo la
questione non si pone in termini problematici e pare che la mediazione dell’autore
italiano non debba produrre conseguenze sull’originarietà della testimonianza
trascritta: nel risvolto di copertina si legge, dopo la dettagliata scheda
biobibliografica dedicata all’autore: “Quanto ad Enaiatollah Akbari, la sua biografia è
nelle pagine di questo libro”. Al contrario, Wu Ming2 dedica un intero paragrafo –
quella “lettera intermittente n°3” pluricitata dalla critica – all’elenco di tutte le
cautele postcoloniali del caso, con esiti di grande lucidità e ficcante autocritica.
Tuttavia, al netto dello scarto intenzionale qui registrato, il peso specifico della prima
(o unica) firma in copertina non cambia, se proviamo a stimarlo sulla scorta della
nozione foucaultiana di funzione-autore: “L’autore considerato, naturalmente, non
come l’individuo parlante che ha pronunciato o scritto un testo, ma l’autore come
principio di raggruppamento dei discorsi, come unità ed origine dei loro significati,
come fulcro della loro coerenza”8. La funzione-autore “non si forma
spontaneamente come l’attribuzione di un discorso ad un individuo. È il risultato di
un’operazione complessa”9, perfino l’anonimato, spiegava Foucault, ci risulta
tollerabile solo come enigma circa il nome dell’autore. Per questa ragione Timira non
cessa di riverberare nel regime discorsivo Wu Ming, anche laddove la scrittura
materialmente conduca ad altra mano. Non diversamente i 1365 spot painting, di
colore e diametro variabili (dalla capocchia di spillo al mezzo metro), di cui solo
alcune dozzine realizzate dall’autore di For the love of God (il teschio umano
ricoperto da 8.601 diamanti) e per il resto appaltati ad un folto gruppo di assistenti,
non cessano di magnificare in Damien Hirst la figura monocratica dell’autore.
Note
2 Cfr. A. Proto Pisani, « Itinéraire d'une réécriture. Fantasias et déguisement autour de Princesa », in L'autre même. La
réécriture 3, vol. I, Cahiers d'études romanes, n. 24/1, 2011, Université d'Aix-Marseille, pp. 185-212.
3 La dichiarazione è riportata in: Cristina Taglietti “L’italiano salvato dagli stranieri”, il Corriere della sera, 17.5.2013,
pp.44-45.
4 “Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di
altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri
tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale” (A. Gramsci, Quaderni
del carcere, Quaderno 29, § 3).
5 A. Proto Pisani, Dans une autre langue. écrire l’altérité : femmes, migrations et littérature en Italie (1994-2010), p.
101; tesi di dottorato discussa, sotto la direzione del prof. Claudio Milanesi, ad Aix en Provence (Aix-Marseille
Université), il 19.6.2013.
6 P. V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, p. XLIV.
7 Due studi che vanno in questa direzione: U. Fracassa, Storie in condominio: Gadda e Lakhous giallisti pour cause,
in Milanesi C. (a cura di), Il romanzo poliziesco.La storia, la memoria, Bologna, Astrea, pp. 163-171 (ora in Id., Patria e
lettere, cit., pp. 77-88) ; R.Morace, Focalizzazione multipla e plurilinguismo, in Ead., Letteratura-mondo italiana, Pisa,
ETS, 2012, pp. 93-104.
8 M. Foucault, "L’ordine del discorso", in Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, Torino, Einaudi, 1972, p.
19.
9 M. Foucault., Che cos’è un autore, in Id., Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 11.