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Desidero condividere con voi alcune mie riflessioni in questo contesto e in questa occasione, su quella che è la situazione italiana presente, che vede una massiccia ondata immigratoria in un paese che non era assolutamente preparato a ciò, e che è stato sorpreso perché era un paese tradizionalmente di emigrazione sin dalla seconda metà dell’Ottocento. Allo stesso tempo questo fenomeno avviene nel momento in cui nel sistema di comunicazione contemporaneo si afferma un’istituzione – quella del museo -- che è antica, ma si sta trasformando in modo rapidissimo e si adatta in modo flessibile, direi plastico alle esigenze di comunicazione, di scambio, di dialogo, e anche di didattica, in tutto il mondo occidentale ma non solo, perché i musei sorgono dovunque, in Africa e altrove.
Particolarmente interessanti sono i musei culturali perché i musei d’arte non sono più una novità anche se oggi stanno cambiando radicalmente il modo di esposizione dei materiali e il modo di discorrere con il pubblico. La nascita dei musei culturali è un fatto relativamente recente. Nati in epoca rinascimentale come <>Wunderkammern (Gabinetti delle curiosità), sono poi evoluti in una gamma di varianti diverse. Oggi sono diventati ormai molto vari e diffusi, molto praticati e anche utili: quindi volevo chiamare in causa il nuovo modo di comunicare dei musei culturali anche nel contesto della vicenda italiana.
Qui mi occuperò del quadro italiano di immigrazione e ibridazione, considerando l’ibridazione una conseguenza inevitabile dell’immigrazione. Naturalmente il fenomeno può avvenire più o meno bene, più o meno spontaneamente, in modo più o meno armonico, può essere assorbito in un contesto di tolleranza o meno. In questa vicenda è opportuno vedere che ruolo hanno o potrebbero avere i musei culturali, partendo dall’osservazione dei musei di fatto esistenti nel settore. Mi occupo di musei culturali da parecchi anni perché trovo questi tipi di musei politicamente interessanti e ne ho visti parecchi, ma qui presento alcuni di quelli che ho visto in occidente e che sono dedicati a immigrazione e ibridazione. Voglio tuttavia ricordare, sin dall’inizio, alcuni aspetti che riguardano le ondate immigratorie che noi vediamo oggi in Italia, e che sono nate già da prima nell’Europa post imperiale. Questi grandi movimenti di popoli vengono iscritti e si iscrivono molto precisamente anche nel contesto postcoloniale.
Nella master narrative europea e nella storia imperiale espansionistica si iscrive direttamente la colonizzazione. Ossia, il fenomeno che nell’era moderna portò gli imperi europei a colonizzare la quasi totalità del globo e giunse al suo apice a fine Ottocento, è narrato all’interno dell’imperialismo come momento di azione civilizzatrice nei confronti di popoli inferiori, sottosviluppati e bisognosi di aiuto per giungere a livelli più alti di condizioni di vita avvicinabili a quelli raggiunti in occidente. Se si guarda a qualche esempio del discorso culturale del colonialismo, si può citare qui un bellissimo affresco della serie che illustra la storia coloniale al palazzo situato alla Porte d’Or di Parigi, che costituiva il grande museo delle colonie francesi d’oltremare: possiamo constatare che qui la colonizzazione è iconicamente vista come parte inscindibile della storia imperiale, è parte della cultura che si iscrive in essa e non è un caso che il museo più bello che si sia fatto a tutt’oggi sull’immigrazione si trovi a Parigi. Esso si chiama appunto Cité de l’immigration e va a sostituire quello che era il museo delle colonie, come se si collocasse “al posto di “: e si colloca appunto alla stessa Porte Dorée dove un tempo stava il vecchio Museo delle Colonie d’Oltremare eretto negli anni Trenta. Fatto sintomatico e significativo. Questo, a mio avviso, non è un caso perché le grandi ondate di migrazione verso quello che erano i grandi centri dell’impero sono state ondate assolutamente postcoloniali, cioè ex sudditi delle colonie sono andati verso il centro dell’Impero spinti soprattutto da un contesto di dipendenza economica, e ma anche da un legame di affiliazione culturale con quella che era la madrepatria, così come veniva chiamata nell'educazione coloniale.
La vicenda italiana presenta caratteri molto diversi da quella inglese e francese, innanzitutto perché l’Italia ha perso la seconda guerra mondiale, e quindi non è stata vista come un centro dell’Impero (e di fatto non lo è mai stata), ma anche perché le sue colonie, comunque di formazione molto recente -- o addirittura recentissima come nel caso dell’Etiopia -- non hanno sviluppato dipendenza economica, e scarsa o nulla affiliazione culturale e linguistica. Questo è molto importante perché ha significato che le ondate migratorie che sono venute verso l’Italia erano composte da individui che non parlavano italiano mentre chi andava in Inghilterra parlava l’inglese, chi andava in Francia parlava il francese-- e conosceva il portoghese chi andava in Portogallo, e lo spagnolo chi andava in Spagna. Ciò ha creato una sostanziale differenza di base nel tipo di incontro postcoloniale all’interno dei vari paesi europei. Per la stragrande maggioranza degli immigrati in Italia, la nostra lingua è stata appresa dopo l’arrivo, ed essa era priva delle connotazioni coloniali che invece aveva l’inglese per gli immigrati dalle colonie inglesi, e così via. Ma, soprattutto, l’immigrazione affluita in Italia non è andata a continuare un processo coloniale costituendone il risvolto postcoloniale, come è stato ed è per la Francia, l’Inghilterra, il Portogallo e anche la Spagna.
Alla fine anche l’Italia fu raggiunta e come dicevo fu colta di sorpresa. In verità in Italia la memoria storica e la rappresentazione museale parlano esclusivamente del movimento in uscita, cioè dell’emigrazione, degli strati più poveri della popolazione soprattutto dal meridione -- non soltanto, naturalmente -- ma comunque degli strati più poveri degli italiani della nuova nazione appena costituitasi. Le mete furono dapprima gli Stati Uniti nell’800, quindi i paesi più ricchi d’Europa, e l’Australia.
E’ interessante notare che la narrazione museale dell'emigrazione italiana è recentissima: è iniziata infatti dal secondo dopoguerra, a causa del ritardo della presa di coscienza istituzionale del fenomeno e anche del fatto che durante il periodo fascista il fenomeno dell’emigrazione era cancellato, cioè veniva taciuto perché ritenuto alieno all’immagine di grande nazione imperiale che si intendeva proiettare all’interno come all’esterno. I musei italiani dell’emigrazione (che sono tra l’altro pochi) hanno carattere prevalentemente di archivio documentaristico e sono di tipo antiquato, non sono quindi interattivi e funzionano più come archivi e luoghi di studio che come punti di apprendimento libero e di dialogo comunicativo. Cito come esempio quello del Vittoriano a Roma, che è un bel museo, però non ha nulla di interattivo e le cose più moderne sono solo degli spezzoni di film peraltro molto belli ma che non creano nessun dialogo con il pubblico. Più moderno e parzialmente interattivo è quello di Genova, situato al porto e denominato “Museo-memoria delle migrazioni” che ha un piccolo braccio che si occupa dell’immigrazione contemporanea. Molto bella l’immagine della memoria nazionale della emigrazione italiana da Genova soprattutto vista come viaggio, la partenza. “Partono i bastimenti”, diceva una canzone. ”per terre assai lontane,...” A Genova compare anche la nuova immigrazione contemporanea, così si vedono a fronte i due momenti della emigrazione e della immigrazione. In Italia esistono anche piccoli Musei locali molto interessanti fra cui ricordo il “Museo regionale dell’emigrazione” di Gualdo Tadino in Umbria e un nuovo museo appena sorto in Calabria, sull’altopiano della Sila, e che si chiama appunto “Nave della Sila”: un museo narrante, da Mirella Barricco affidato alla interpretazione narrativa di Giannantonio Stella, e dedicato alla lunga tragica storia dell’emigrazione italiana che ha così massicciamente spopolato le regioni del Sud. Quest’ultimo museo, alto sopra il Tirreno e lo Jonio, è stato recentemente dotato di un settore speciale dedicato all’immigrazione, chiamato “Mare madre” e costituito da un container in cui viene proiettato a ciclo continuo un video che presenta spezzoni di partenze, viaggi, attraversamenti di deserti e mari in condizioni disperate, e infine sbarchi e accoglienze non proprio cordialissime nei centri italiani sulle coste meridionali (Calabria compresa).
Anche per quanto riguarda l’emigrazione, che pure in Italia è stato un fenomeno macroscopico (ben 27 milioni di emigranti regolarmente registrati fra il 1876 e il 1961, più i molti clandestini) esistono dunque ben pochi momenti museali di riflessione seria e soprattutto pochi che siano interattivi e moderni. C’è stata evidentemente un’obliterazione della tragedia socio-economica sottesa a questa fuoriuscita degli italiani e un’obliterazione delle condizioni drammatiche della migrazione italiana, politica, culturale ed educative che vedono una cancellazione delle classi subalterne e in particolare del Sud contadino flagellato da una serie infinita di oppressioni e malgoverni.
Andiamo a vedere cosa succede negli altri paesi e cominciamo coi musei statunitensi. L’America, così come noi la conosciamo, è nata da una cancellazione delle popolazioni indigene e da una esportazione sistematica di masse di immigrati dall’Europa, più una deportazione massiccia di africani schiavizzati. L’America quindi è frutto di una migrazione di massa che è continuata nel tempo, a partire dal viaggio di Colombo in poi. Lo sguardo americano sull’immigrazione ha creato dei musei nati per così dire dal basso, come il Tenement Museum di New York, e dei musei invece istituzionali che contemplano il fenomeno dall’alto verso il basso, come l’Ellis Island Immigration Museum nella baia di New York. Il Tenement Museum è un museo creato dal basso nel senso che raccoglie la storia di vita di un gruppo di famiglie in una casa ad appartamenti, e perciò segue le vicende e le condizioni di tre gruppi etnici rappresentati anche nei nomi Levine, Gumpertz, Moore (ebrei, tedeschi, irlandesi). Strutturalmente, il Tenement Museum conserva, riproducendola, l’impronta originaria dell’edificio con le suddivisioni lungo linee etniche e le diverse modalità che caratterizzano ciascun appartamentoi. E’ collocato nell’East Side del Village, a Mahattan, in una zona dove c’erano i laboratori dove fabbricavano gli indumenti, e gli operai (i cosiddetti sweatshop workers) venivano ammassati in queste case scatola, le tenement houses. Invece l’ Ellis Island Immigration Museum è nato dall’alto nel senso che è stato voluto, deciso e creato dalle istituzioni. Storicamente costituiva il punto di ingresso e di controllo da cui passarono tutti gli immigrati che arrivavano dall’Europa: un’isola alle porte di Manhattan. vicina alla gigantesca Statua della Libertà. Gli immigrati chiamavano Ellis Island la porta del paradiso, perché era bella ma difficile da varcare, e apriva la porta al sogno degli immigrati cioè all'America, poiché era là che venivano registrati, e venivano accettati o respinti. Il museo è guidato dall’idea di raccontare le mille storie individuali e di gruppo che sono confluite nell’epica americana: una lunga fila per gettarsi nel melting pot, nel crogiolo dell’ibridazione generale da cui uscì l’oro della nuova nazione, gli Stati Uniti. Le foto mostrano non solo le difficoltà del viaggio e le procedure dell’arrivo, ma anche le vicende dell’iniziazione all’ Americanness cui erano assoggettati gli immigranti. Complessivamente, si ha dinanzi un discorso a tesi che viene dato per scontato e chiude le porte al dibattito, pur mentre recupera tanta parte dell’immaginario del migrante e lo consegna alla posterità facendone una apoteosi nazionale.
Il museo francese Cité Nationale de l’Immigration e di grande interesse anche per la sua sperimentalità. Recentissimo, molto discusso, nato fra mille polemiche, si colloca appunto nel sito stesso del vecchio museo coloniale, che sostituisce e reincarna alla Porte Dorée. Moderno ed elegantissimo, risulta moderatamente tecnologico, nel senso che non è eccessiva questa tecnologia. E’ tuttora in via di sviluppo, e al suo incipit ha suscitato un’infinità di discussioni sul luogo e le modalità della sua erezione. E’ molto frequentato anche da gruppi familiari, e complessivamente offre gli sguardi contemporanei sulla problematica dell’immigrazione dando allo stesso tempo, anche attraverso gli audiovisivi, in modo molto intelligente e molto chiaro, una serie di dati e indicazioni sulle provenienze, sui flussi, sulle permanenze e anche sul tipo di reazione che l’immigrazione ha creato nel paese. Gli spettatori di varia età si soffermano davanti a questi video, davanti ai lunghi tavoli dove si fanno scorrere una serie di immagini, e varie tipologie di informazione. Alla Cité stanno attualmente strutturando la cosiddetta zona del dono, che è una classica invenzione del museo di Ellis Island, dove gli ex immigrati hanno portato qualche cosa che era loro caro, un pezzo di ricordo della loro migrazione; altrettanto stanno facendo a Parigi.
Vorrei concludere questo giro di musei con un museo impossibile che credo nessuno saprà mai fare, il della schiavitù atlantica che deportò oltre 12 milioni di africani verso le Americhe conbsegnadoli alle piantagioni coloniali e poi alla grande industria moderna. Per la schiavitù del Black Atlantic esistono soltanto tragici memoriali significativi come quello recentissimo nell’ex porto negriero di Nantes. I musei della schiavitù non si riesce a farli forse perché si tratta di una storia ancora troppo scottante: I pochi che si sono tentati appaiono assolutamente inadeguati perché richiudono lo schiavo in una nuova condizione di subalternità. Per riassumere il mio intervento voglio ricordare che il tipo di problematica che incontra l’immigrazione va portato all’attenzione culturale di un pubblico il più ampio possibile, al quale va anche ricordato il nostro passato storico di paese di emigrazione. Se si vuole giungere a una pacifica ibridazione spontanea e libera, è necessario che si crei uno sguardo reciproco, un’atmosfera di comprensione, da cui nasca un dialogo, radice di tolleranza pur nella consapevolezza della diversità, e quindi escluda l’alterizzazione della persona che viene, come invece si ha nella situazione coloniale dove l’oggetto della colonizzazione è subalterno. Qui il contesto deve essere diverso. Questo tipo di problematica non è soltanto legata a leggi e istituzioni, ma dipende soprattutto dalle tendenze culturali del paese, che vanno indirizzate, sollecitate, aiutate e sorrette verso criteri che portino pace e tolleranza, e soprattutto capacità di adeguamento l’uno all’altro in un reciproco rispetto. Anche in questo senso devono intervenire le istituzioni e non soltanto le leggi. In un’epoca di crescente interesse per il museo, utile a ricostruire la storia del passato e pure la coscienza del presente -- e soprattutto in un paese come l’Italia dove sono nate le Wunderkammern e le gallerie d’arte, radici aristocratiche del museo moderno -- sarebbe auspicabile e anzi molto utile che l’attenzione culturale si soffermasse sui motivi, le modalità e le problematiche che pone l'immigrazione, al fine di coscientizzare la popolazione e sollecitare le istituzioni. Infine, un museo dell’immigrazione aiuterebbe a posare lo sguardo sulla contemporaneità confrontando immagini e dati e avvicinandoci a un modo veramente scientifico, corretto, conoscitivamente esatto di affrontare il tema generale sollecitando progetti e soluzioni.