Nota biografica | Versione lettura |
Qual era lo stato indiviso
di tenebra e parola,
l’istante dell’eterno che precede
il logos divino che pronuncia
la lama luminosa che divide
il cuore e il buio
e il nulla dalla rosa,
lumina lume si raiul râul,
la bocca dalla cosa,
non luce da luce
generate nel dolore?
Qual era l’ombra,
se l’ombra è il desiderio,
l’essenza del non essere
che è essere l’assenza,
attesa della cosa,
e poi il nome
è lume di lampo?
Tu vai seminando d’amore il campo
della morte che si stende
da quell’oscuro a questo
abbacinarsi:
perché parola e desiderio generano
morte e genera la morte
desiderio di parole, parole
di desiderio.
Ai tavolini, tra i voli di passeri
e di rondini nella fuga dei portici,
sotto i tuoi piedi nudi
i sassi levigati sono i volti
di bambini e sopra le tue gote
il pianto sono lacrime loro
risalite in te per quest’osmosi
di amore mortale.
E sono le mie lacrime per tutti.
Forse lo smisurato sì
si ritrasse soltanto,
non inventò che il nulla
per donare i possibili a questa
vicenda di buio e di luce
e trasse dalla fine il suo principio.
Forse la rosa nascitura
è questo vuoto di palpebre fra i petali,
ciò che in non-Dio Iddìo fiorisce,
e il desiderio è il nulla
che come labbra il desiderio schiude
a dire, come dita a sfiorare.
E stiamo con la gioia di reietti
felici di inventare Dio nella parola,
felici di farci silenzi.
Di soppiatto nei cortili
tendiamo le mani oltre le mura
e le voci sono una lingua nuova:
quello che il forzato
sussurra e chiama per allegoria.
Sul campo desolato
scendono catene, fili d’oro.
Scendono sui corpi
le nostre sere.