El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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una stratificazione di lingue

rosanna morace

Questo mio contributo vuole essere, prima di tutto, un sincero ringraziamento a El-Ghibli per l’impegno e l’umiltà con cui, in questo primo decennio, ha inseguito un ideale e servito i suoi lettori. E poi, ovviamente, un augurio per il futuro.

Ieri notte, tentando di addormentarmi, ho guardato un documentario sulla formazione della terra: si raccontava come il magma interno e l’attività vulcanica, quindi fuoco incandescente e gas velenosi, abbiano dato origine alla vita, combinandosi con l’acqua e l’attività atmosferica. E come il lento e inesorabile movimento della crosta terrestre, pur provocando terremoti e catastrofi, permetta che quest’armonia perfetta e precaria, grazie a cui noi siamo, si mantenga. Morte e vita.
E si narrava poi come tutto questo movimento sotterraneo, propagandosi in superficie, abbia separato la Pangea e abbia originato terre e montagne, ‘arricciando’ le cime e sprofondando gli abissi: un lento e inesorabile processo di cui noi percepiamo solo l’iceberg, ma del quale le sedimentazioni sulle rocce recano tracce inequivocabili. E pensavo (con un parallelismo forse un po’ ardito che, però, qui voglio riportare così come mi si è formulato) che le lingue funzionano un po’ così: da un’unica ‘proto-madrelingua’, la mitica Torre di Babele, la dispersione e le lingue indo-europee: oggi, in vari modi, operanti come lingua di sostrato degli idiomi nazionali europei e indoeuropei. E dal latino le lingue romanze e i loro diversi dialetti, permeati dalle lingue di sostrato attive prima della dominazione romana.
Tutto il movimento sotterraneo che, nei secoli, ha portato alla contaminazione tra le diverse lingue è per noi ricostruibile attraverso tracce, sedimenti fonomorfologici che utilizziamo inconsapevolmente, e che, però, sono il filo rosso delle antiche culture/lingue cui apparteniamo. Così la gorgia toscana, probabilmente tratto etrusco; o l’assimilazione di –ND->-nn- (l’ ‘annamo’ romano), derivante dall’osco-umbro; o ancora le parole di origine araba in siciliano; e quelle castigliane nei dialetti del Sud e nel napoletano in particolare... Una contaminazione perpetua che ha, da sempre, messo in relazione, aperto nuovi orizzonti; ma che spesso si è originata da dominazione e violenze, come attraverso la potenza distruttrice della natura si è originato questo habitat perfetto per la vita che è il nostro pianeta. Vita e morte.
Trovo, però, affascinante che questo rapporto tra lingua di sostrato e lingua di superstrato non porti più in sé la traccia del dolore: dopo che la sedimentazione è avvenuta, quando oramai la memoria emotiva della Storia si è persa, nasce un nuovo organismo che si nutre pacificamente dei diversi strati: una vita che cresce più salda in virtù dei suoi geni meticci, meno attaccabili. Il dolore si è trasformato in una corazza con le ali.

La letteratura-mondo (mi si permetta questa definizione) reca ancora, in sé, una «mappatura di cicatrici», e non sono pochi gli autori che parlano del doppio binario ‘dolore-ricchezza’ da cui ha origine la loro scrittura. Mia Lecomte, anzi, rintraccia proprio nel dolore la cifra costituiva di questa letteratura:

Quello che subito balza agli occhi, al di là delle differenti identità geografiche dei poeti, è la sua “necessità”: un vincolo carnale coi significati che arrivano di conseguenza con la violenza delle esperienze reali. La sua forza deriva dalla doppia componente della migrazione – il dolore e la speranza, viva, di rinascita – che conferiscono appunto fisicità e potenza al bel verso. 
Proprio il dolore è infatti la chiave di volta, a mio avviso, per comprendere la sostanza etica della poesia e delle narrativa migrante, una letteratura che è germinata dal dolore – dolore del distacco, dell’abbandono, della perdita, della solitudine, dell’estraneità, della diversità, della lontananza...– e si nutre consapevolmente di dolore per dare corpo a parole che del dolore sono figlie, sorelle, alleate, gli fanno eco all’infinito, nelle sue più diverse incarnazioni. Ma il dolore è anche e soprattutto speranza, avvertibile come vitalità rigeneratrice, energia della parola, logos dell’animale uomo, in tutta la sua materialità sublimata.1
È ancipite, questo dolore. È morte e rinascita. È privazione e accrescimento. È sentirsi dimezzato e poi arricchito di un’identità plurale, imparando a «vivere per addizione»:
Fu in Germania che cominciai a scrivere con rabbia e a pubblicare le mie prime storie sui «germanesi», i nostri emigrati, né tedeschi né italiani, ma figure ibride, come la lingua che parlano. Volevo denunciare l’ingiustizia della costrizione a emigrare, raccontando il dolore di chi parte e di chi resta [ … ].
Per anni vissi come molti germanesi, con i piedi al nord e la testa al sud, sognando un improbabile ritorno. Finché presi coscienza di una verità che mi fece cambiare l’approccio con «la malattia infettiva dell’emigrazione», come la chiamava mio padre: se per i tedeschi ero solo uno straniero; per gli altri stranieri, un italiano; per gli italiani, un «terrone»; per i meridionali, un calabrese; per i calabresi, un arbëresh; per gli arbëreshë del mio paese, un germanese o, da quando vivo in provincia di Trento, un trentino, se non addirittura uno sradicato, io per me ero semplicemente io, una sintesi di tutte le definizioni, una persona con più lingue e più radici, anche se le nuove sono radici volanti nell’aria, come quelle rigogliose di certe magnolie giganti.2

L’immagine delle magnolie giganti che dominano sul lungomare di Reggio Calabria, lasciando pendere dai rami radici viventi nell’aria, racchiude il senso ultimo del Vivere per addizione, ovvero un’identità ricca, che non rinnega nessuna delle proprie lingue e culture ma le interseca le une alle altre, fondendole in una storia irripetibile.
Ma Christiana de Caldas Brito, va oltre, poiché arriva a definire questa condizione come propria non solamente degli emigrati/immigrati, ma dell’essere umano in quanto tale:

Ci vuole del tempo perché il dolore di chi vive lontano dal proprio paese possa passare da un dolore-ostacolo ad un dolore-crescita che culmina in una nuova identità arricchita. Questo passaggio, in fondo, è caratteristico della vita stessa e vale anche per quelli che non si sono mai mossi dalla loro città: ogni giorno bisogna lasciare la patria delle sicurezze, degli schemi conosciuti e ripetuti, delle abitudini che non servono più. Ogni giorno bisogna imparare una nuova lingua. Stiamo perennemente migrando.

La migrazione è, dunque, prima di tutto una condizione esistenziale, che riguarda la vita di tutti noi, nella misura in cui siamo costretti - volenti o nolenti - ad abbandonare le certezze che avevano costituito la nostra stessa identità, a mutare angolo visuale, ricreando secondo una diversa prospettiva l’interazione con ciò che ci circonda. Questo senso di smarrimento provoca dolore, ma è al contempo occasione di nuova rinascita e, soprattutto, di una permeabilità ad esperienze diverse, che vanno al di là dei confini che ci eravamo (pregiudizialmente) costituiti: è, appunto, un’identità arricchita di nuove relazioni (nel senso glissantiano del termine).
Ma se anche fosse possibile immaginare un individuo assolutamente impermeabile a qualsiasi processo identitario e relazionale (il che sarebbe già un paradosso), non sarebbe possibile pensare uno scrittore ‘immune’ dallo straniamento esistenziale:

si può essere certo migranti senza essere scrittori – e andrebbe ricordato, per non giudicare ingenuamente e ipocritamente tanta cattiva letteratura della migrazione – ma non si può assolutamente essere scrittori senza essere migranti. Per questo anche il più stanziale degli scrittori di provincia, che conosce e parla solo il proprio dialetto minoritario, non può che essere, se si tratta realmente di uno scrittore, che radicalmente e ineluttabilmente migrante. Va riconosciuto, piuttosto, come un “viaggiatore immobile”.4

Ovviamente, per coloro che hanno dovuto abbandonare fisicamente la propria patria, tale esperienza di straniamento è ancora più profonda: anche laddove l’emigrazione non sia stata un fatto traumatico e lacerante (perché vi può essere un’emigrazione cercata, agognata, e persino liberatoria), essa comporta necessariamente una ri-acquisizione linguistica che rivoluziona i modi dell’appropriazione e della comunicazione del reale. La lingua è, infatti, un’«ermeneutica del mondo»,5 e produce una diversa modulazione semantica, lessicale, culturale e persino emotiva della realtà. Al punto che i sentimenti e gli stati emotivi assumono valenze diverse in una lingua e nell'altra:

Mi accade delle volte di rattristarmi in una lingua per poi rallegrarmi nell’altra. E così, saltellando da una lingua all’altra, mi capita di cambiare umore. Non avendo un’infanzia in italiano, raramente provo nostalgia in questa lingua, mentre, se ricordo un fatto dell’infanzia nella mia lingua madre, sento di avere a che fare con un mondo imprigionato in quelle parole che lo evocano.6

Adrian Bravi prosegue poi questa sua riflessione con una narrazione, davvero paradigmatica di questo doppio legame che salda lingua ed emotività:

Avevo una zia, una sorella di mio padre, che subito dopo la guerra era partita da Sambucheto, un paese del maceratese, per andare in Argentina. Era partita dal porto di Genova insieme a suo marito, un polacco che aveva conosciuto mentre si nascondeva dai bombardamenti dei tedeschi, e un figlio di appena quattro mesi. La nave sulla quale viaggiavano aveva attraversato da poco la linea dell’equatore (su questa storia della traversata di mia zia, alcuni anni fa, ho scritto un racconto che s’intitola Dopo la linea dell’equatore) ed erano finite le scorte di acqua potabile. Tutti i passeggeri erano in preda al panico. Suo figlio non mollava mai il capezzolo della madre, forse aveva paura anche lui, lo teneva sempre stretto tra le gengive, raccontava mia zia. Nel capezzolo libero si erano attaccati altri bambini. Si bagnavano le labbra con quel poco di latte che riuscivano a succhiare. Le madri, raccontava mia zia, la imploravano di aiutare i loro figli. Lei faceva quel che poteva con il suo latte. I bambini che non sopravvivevano li avvolgevano in un lenzuolo bianco e li buttavano a mare. Ne aveva contati cinque mia zia e quel numero se l’era portato dentro come una colpa per il resto della vita: “Cinque bambini che non sono riuscita a sfamare,” diceva.
Non ho mai visto piangere mia zia quando raccontava questa storia in spagnolo, la sua lingua adottiva, anche se si vedeva che era molto colpita, nonostante fossero passati parecchi anni; quando però un giorno gliel’ho sentita raccontare in italiano, l’ho vista piangere per la prima volta. Allora ho pensato che forse richiamare quei ricordi nella propria lingua, la lingua nella quale quelle madri avevano visto buttare a mare i propri figli o nella lingua in cui aveva vissuto quella storia, per mia zia era ancora più straziante. Viene da pensare che i ricordi parlano solo la lingua in cui sono accaduti. Ricordarli in un’altra lingua è come mascherarli.7

Mascherando in un’altra lingua certi ricordi, certe esperienze, si può arrivare a riappacificarsi con essi, dando voce a ciò che nella prima lingua sarebbe stato non solo indicibile ma anche impensabile. Se la memoria è comunque una forma della finzione, la memoria in una lingua diversa lo è doppiamente. In tal senso l’italiano è, per alcuni autori, una «lingua-distanza»,8 un filtro attraverso il quale riconsiderare (e sentire in maniera diversa) i propri vissuti, traumatici o lieti che siano; in taluni casi, poi, tale filtro diviene il mezzo per riavvicinare momenti personali tenuti lontani dalla memoria:

Tramite la scrittura in italiano ho affrontato momenti della mia storia, che però non è solo storia personale, ma è scheggia della storia generale. E in questo raccontare, seppur in forma lirica, mi sono riavvicinata anche al tedesco come lingua espressiva. Non solo ho (ri)cominciato a scrivere anche in tedesco, ma è come se avessi sentito il bisogno di usare il tedesco anche scrivendo in italiano. Questo ha portato a un contatto linguistico nelle poesie stesse.9

Due fatti sono notevoli, in questo breve estratto della significativa riflessione che Eva Taylor conduce sulle sue «due bocche»: la riappacificazione avvenuta, per il tramite dell’italiano, con la lingua tedesca; e il contatto linguistico che si viene a creare tra le due lingue dopo che la sedimentazione del dolore è avvenuta e la memoria emotiva della Storia (personale e generale) si è persa. Il rifiuto della madrelingua, a causa del suo connotato peso storico-culturale è, infatti, esplicito, tanto che l'autrice ammette di sentire forte, dentro di sé, «la contraddizione che si crea tra la bellezza e la straordinaria leggerezza delle poesie di Heinrich Heine per esempio e il suono della voce di chi comandava e di chi ha poi costruito un muro per dividere il paese».10
Confesso io stessa di aver avvertito il medesimo senso di contraddizione la prima volta che ho ascoltato il mio professore di letteratura tedesca, Luciano Zagari, leggere con il trasporto e l'umanità che gli erano propri la canzone di «Margherita all’arcolaio» dell'Urfaust di Goethe; e pur non riuscendo a comprendere il senso di quelle parole, la melodia tragica eppur dolce di quella voce furono per me un'esperienza sconvolgente. Perché non avrei mai potuto immaginare che il tedesco potesse suonare così lieve, musicale, dolce. E ancor più questa sensazione si è rinsaldata dopo aver ascoltato i Lied di Schubert, in cui quello stesso brano è musicato. E mi sono, allora, chiesta perché non riuscissi ad associare il tedesco al Flauto magico di Mozart; e ancor più perché l'unica associazione istantanea che (tuttora) si apre al mio immaginario nell'ascoltare il tedesco è con la meccanicità gutturale e a-umana della lingua delle SS, nonostante altri abomini, certo non meno gravi né numericamente più esigui, siano stati perpetrati in altre lingue.
Seppur è certo vero, come bene precisa Eva Taylor, che il problema «non era la lingua, sia chiaro, ma erano le voci degli esseri umani che ab-usavano la lingua», personalmente mi sono risposta che, dentro di me, la ragione di quest’associazione angosciante e inconscia risiede nei lacerti di filmati in bianco e nero e in lingua originale che ho visto e che mi hanno fatto vedere a scuola: dunque in un'esperienza uditiva e visiva che per altri stermini, letti e studiati su carta, non ho avuto. Quella della lingua tedesca è stata, per me, un'esperienza prima di tutto corporea, che da udito e vista si propagava in un brivido lungo la schiena. E credo che per molti sia stato così.
Il rapporto carnale che ci unisce ad una lingua è un fatto anche fisico, che passa attraverso i sensi per divenire memoria viva. E, ovviamente, per una lingua materna lo è ancora di più.
Ecco perché gli autori bilingue hanno necessariamente «due bocche», pur esprimendosi (apparentemente) in una sola lingua: lingua di sostrato e lingua di superstrato, se così posso chiamarle, si muovono una dentro l'altra, e quel che a noi è dato percepire è solo l'iceberg di questo magma sotterraneo attraverso cui si crea la loro lingua letteraria e la loro lingua del presente: una ‘nuova prima lingua’ che però non ha infanzia, e con la quale hanno stabilito un rapporto «da adulto ad adulto».11
Eppure (e in questo risiede gran fascino) una lingua che non si possiede interamente è una continua scoperta, o quantomeno conserva il sapore misterioso della scoperta. C’è un fascino diverso nell’addentrarsi in qualcosa che non è familiare, e si fa un uso diverso di ciò che non è consunto dall’uso. Noto, per inciso, che in realtà nemmeno un nativo possiede interamente la propria lingua, ma diversa è la coscienza di questa mancanza. Si potrebbe, anzi, affermare che qualsiasi scrittore e poeta, migrante o nativo che sia, deve necessariamente riscoprire una lingua per sottrarla alla consunzione dell’uso. Ogni poeta deve necessariamente avere due lingue.12
Adrian Bravi usa l’immagine dell’«entrare in punta di piedi» e del «sentirsi ospite» nella nuova lingua; Julio Monteiro Martins quella di «un secondo matrimonio»; Christiana de Caldas Brito l’associa alla perdita e poi riacquisizione della voce, mentre Eva Taylor si muove sul crinale dello straniamento che si crea nella tensione tra le due bocche, avviando poi un’interessantissima riflessione sullo scarto e sul processo autotraduzione/riscrittura che si avvia tra le due lingue (e sul quale sarebbe il caso di addentrarsi più compiutamente).
Ciascuno di loro, però, in modo diverso, si sofferma sull’entusiasmo e la sorpresa che questa scoperta produce. E così, paradossalmente, la lingua senza infanzia diventa il luogo della ri-scoperta del proprio ‘fanciullino’: dall’assenza di voce, all’ecolalia, all’acquisizione della nuova lingua, fino al fondersi della lingua apparentemente abbandonata (o volontariamente tenuta lontana) nell’altra. Strato su strato. Strato dentro strato. Morte e Vita.

1Mia Lecomte, Una mappatura di cicatrici, in Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano, Firenze, Le Lettere, 2006; ora anche on-line in «Sagarana», 14 (Gennaio 2004), da cui si cita.
2carmine Abate, Un destino con mille radici. La mia vita è un’addizione, in «Corriere della sera», 25 marzo 2012, p. 38. A partire dal periodo: «se per i tedeschi», il brano riprende, con poche varianti, l’ultima parte della pagina 144 di Vivere per addizione, cit.
3Christiana de Caldas Brito, Amanda Olinda Azzurra e le altre, Salerno-Milano, Oedipus 2004, Cari lettori, p. 15.
4M. Lecomte, Una mappatura di cicatrici, cit.
5Adrián Bravi, Discorso per il Premio Comisso, Treviso, 24, settembre 2011, inedito ma gentilmente concessoci dall’autore (per il paragrafo in cui la lingua è definita un’«ermeneutica del mondo» cfr. Rosanna Morace, Letteratura-mondo italiana, Pisa, ETS 2012, p. 11.
6Adrián Bravi, inedito e in fase di pubblicazione, gentilmente concessoci dall’autore.
7A. Bravi, inedito.
8Cfr., Fiorenza Aste, Intervista a Carmine Abate, on-line sul sito: www.scritture.blog.kataweb.it. Franca Eller, Il debito di Tawfik con Dante. Intervista allo scrittore iracheno che scrive in italiano. Bilinguismo come spazio dove convivono più mondi, in «L’Adige», 8 novembre 2000 (ora on-line sul sito dello scrittore, da cui si cita);
Christiana de Caldas Brito, Amanda Olinda Azzurra e le altre, Salerno-Milano: Oedipus 2004, Cari lettori, p. 16.
9Eva Taylor, Perché ci vogliono due lingue per scrivere una poesia?, in «Scrivere altrove/écrire ailleurs», 10 (2013), p. 104.
10Ivi, p. 105.
11Julio Monteiro Martins, Lingua della vita e lingua della memoria, in «Scrivere altrove», cit., pp. 63-68.
12Cfr., per questo tema fondamentale, A. Bravi, Discorso per il premio Comisso, cit.; E. Taylor, Perché ci vogliono due lingue, cit., pp. 103-111; R. Morace, Letteratura-mondo, cit., pp. 71-91.

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Anno 10, Numero 40
June 2013

 

 

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