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la collana di ambre

erminia dell'oro

Camminavo nella città sconosciuta, osservavo i palazzi con ornamenti sui balconi, sulle facciate, i parchi con alberi dalle foglie rosse e d’oro attraversate dalle ultime luci del giorno. Mi guardavo intorno e vedevo gente che andava di fretta, non c’erano sguardi per lo splendore del cielo in un tramonto d’autunno.
Mi ero avvolta nello scialle bianco che era stato di mia nonna, lo portavano le donne del paese dove ero nata e vissuta. Avevo la sensazione che quello scialle, morbido, caldo, con un bordo di luminosi colori, mi proteggesse, trasmettendomi qualcosa della mia terra.
Un elegante negozio, con esposte nella grande vetrina collane, orecchini, bracciali, oggetti esotici, attrasse la mia attenzione. Mi fermai a guardare una collana di ambre, con appeso un antico pendaglio d’argento sul quale erano stati scolpiti strani segni. Mentre osservavo la collana lo vidi, riflesso nella vetrina. Era un bel ragazzo, con un ciuffo di capelli scuri che gli cadeva sulla fronte.
Le piace quella collana?
Mi voltai. Ero a disagio. Non sapevo cosa dire. Mi fece delle domande con naturalezza, come se ci conoscessimo da tempo. Non mi sembrava uno di quei ragazzi che abbordano con facilità le ragazze per strada.
- Vede – soggiunse – se non le avessi rivolto la parola, non avrei più l’occasione di incontrarla. Non sarebbe giusto. Dobbiamo creare, a volte, il caso. O inventarci il destino?
Gli sorrisi e mi incamminai verso una libreria, volevo comprare un romanzo di uno scrittore italiano di cui avevo sentito parlare. Lo sconosciuto mi era accanto.
Mi invitò ad andare con lui, quella sera, a vedere i navigli illuminati, non ero ancora stata sui navigli. Cercavo di essere sostenuta, ma mi guardavo bene dal dirgli di lasciarmi in pace, di andarsene.

Il giorno del mio matrimonio indossavo, sopra il lungo abito bianco, lo scialle di mia nonna, e avevo, come unico gioiello, la collana che mi aveva regalato lui, quella che avevo visto nella vetrina la sera del nostro incontro. Avevo intrecciato i lunghi capelli e li avevo ornati con piccoli fiori. Saremmo andati in viaggio di nozze nel paese africano in cui abitavano i miei genitori, la mamma eritrea, il padre italiano.
Nata e cresciuta in una ex colonia dell’Africa orientale, ero giunta per la prima volta, quell’anno, in Italia. Volevo proseguire gli studi, diventare un medico e tornare a lavorare nel mio paese. Invece mi stavo sposando.
Non c’era nessuno al nostro matrimonio, eravamo soli io e lui, con i piedi nudi sulla sabbia. Mentre ci stringevamo la mano, soffiò all’improvviso il vento del deserto, sollevando nubi di polvere rossa. Mi strinsi nello scialle, chiusi gli occhi. Quando li riaprii lui era scomparso.

Mi sveglio con un senso di oppressione, e il respiro affannoso. Ghis, il cane, sta grattando la porta, come se volesse avvertirmi di un pericolo. Mi alzo, bevo dell’acqua. Ho ancora dentro di me le immagini del sogno.
Guardo, fuori dalla finestra, il giardino. Un minuscolo uccello variopinto è appeso a una foglia della palma, gli uccelli tessitori vanno e vengono con pagliuzze nel becco, stanno costruendosi il nido. Il cielo è di un azzurro intenso, e il vento porta nell’aria i fiori viola delle jacarande; formeranno, nelle strade, nei giardini, tappeti di fiori sfatti. Fiori morti. Sento la voce di Mafrasc, l’anziana donna che è in questa casa da quando avevo dieci anni. Via Ghis, via.
Raccolgo il libro caduto in terra mentre dormivo. E’ un romanzo che ho comperato tanto tempo fa, insieme ad altri, in una galleria del centro di Milano. L’ho letto molte volte. Mi sono immedesimata nel tenente che per tutta la vita è rimasto in una fortezza nel deserto, in attesa che arrivassero i tartari.
Chiudo gli occhi. Vorrei essere portata anch’io via dal vento, come un fiore di jacaranda, e rinascere l’anno prossimo su uno dei rami più alti. Mafrasc entra in camera portandomi una spremuta d’arancia, mi sorride, mi dice che sul tetto si sono posate le cicogne. Mi guarda con affetto, forse pensa al mio invecchiamento precoce. Lei, alta, diritta, il viso che pare scolpito nella pietra, il portamento altero, sembra appena sfiorata dagli anni, e ha sempre un’incredibile energia. Vorrebbe che facessi ristrutturare la casa, la vecchia casa alla quale è molto legata, se no cade, mi dice, tua madre ci teneva. Lo so, dovrei farlo, non per mia madre, lei non c’è più, ma per Mafrasc, che ha dedicato a noi la sua esistenza. Cadiamo anche noi, rispondo, stai tranquilla, ci penserò.
Non insiste. Non voglio che nessuno entri in questa casa, non voglio vedere nessuno. Lei sa. Penso al sogno pomeridiano, e rivivo, nel ricordo, quella sera di settembre in una via di Milano, tanti anni fa.
Le piace quella collana?
Ero, allora, una ragazza timida, bruttina, malinconica. Mi ero costruita, intorno, una fortezza di solitudine. Nessun ragazzo mi aveva mai corteggiato, e non avevo amiche. Non facevo nulla, a scuola, per avvicinare le mie compagne, e loro mi evitavano. Soltanto Carla tentava qualche approccio, sapevo che lo faceva per generosità, ma non l’avevo mai incoraggiata. I professori erano gentili, premurosi, ero un’ottima allieva, sempre preparata.
Mio padre, un italiano, aveva abbandonato mia madre subito dopo la mia nascita, era tornato in Italia e nessuno ne aveva saputo più niente. Eppure quell’uomo sconosciuto mi appariva ogni tanto nei sogni.
I miei primi anni li vissi in solitudine, accudita da una vecchia donna mezza cieca alla quale mia madre, che lavorava dall’alba alla notte presso una famiglia italiana, dava qualcosa perché potessimo mangiare entrambe.
Avevo sei anni quando mia madre incontrò Nicolas, un imprenditore di origine greca, generoso, sensibile, un uomo stimato da tutti. Lei era molto bella, sembrava una principessa, sebbene facesse, allora, la “serva”. Si erano incontrati per strada, lei era stata investita da un calesse, lui si era precipitato a soccorrerla, per fortuna non c’erano state serie conseguenze. Se mia madre non si fosse sposata con Nicolas, non avrei certo potuto frequentare la scuola per i bambini italiani.

Ero affezionata a Mafrasc, e a Henoch, il ragazzo sordomuto che curava il giardino. Henok aveva uno straordinario talento nel coltivare le piante, sembrava che ai fiori bastasse il suo sguardo per sbocciare. Il sabato e la domenica andavo da mia nonna, viveva in un paesino vicino ad Asmara. Quando ero con lei stavo bene, mi sentivo, a volte, quasi bella. Ci sedevamo sotto il grande sicomoro abitato da una moltitudine di uccelli, lei mi raccontava le storie, e anch’io inventavo racconti. Spesso venivano altri bambini, e anche gli adulti, si conoscevano tutti al villaggio, nei giorni di festa suonavano e ballavano. Furono i giorni più felici della mia vita.
A vent’anni andai in Italia per proseguire gli studi. Mia madre e Nicolas avevano insistito perché prendessi una laurea, e io non volevo deluderli. Temevo quel cambiamento, ma la prospettiva di diventare un bravo medico e lavorare poi per i bambini del mio paese mi aveva convinta.
A Milano mi accolse una cara amica di Nicolas, una donna di una certa età che viveva sola. Non riuscivo ad abituarmi a quella grande città, ogni giorno pensavo di chiamare mia madre per dirle che volevo tornare indietro. Poi cercavo di farmi coraggio, non potevo deludere né lei, tanto meno Nicolas. Pensavo a me bambina, in una squallida periferia dove i bambini morivano di infezioni intestinali, di bronchiti, di malattie che si sarebbero potute curare con poco. Pensavo alla mia solitudine, allora, bambina meticcia disprezzata dai bianchi e dai neri.

Quella sera mi ero fermata davanti a una vetrina di un negozio del centro. Mentre guardavo una collana sentii la sua voce.
Le piace quella collana?
Lo vidi riflesso nel vetro. Esitai un attimo prima di voltarmi. E in quel momento vissi la favola della mia vita. Come mi diceva sempre la signora Laila, a volte un incontro, un imprevisto, cambia l’esistenza di una persona. Sei intelligente e sensibile, mi diceva, devi credere in te stessa.
Mi voltai, emozionata. Lui stava parlando con un’altra ragazza che non avevo notato, sebbene fosse accanto a me. Era molto bella, aveva una lunga treccia bionda, e una sciarpa azzurra, leggera. A lei il ragazzo stava rivolgendo la sua attenzione.
Nel sogno la ragazza bionda ero io, e lo avevo sposato. Chissà cosa ha fatto di loro la vita. Mi alzo con fatica e prendo il bastone con il pomo d’avorio. Compio oggi cinquantacinque anni, ma le mie ossa ne dimostrano molti di più. Si sgretolano lentamente, come la casa in cui abito. Mia madre e Nicolas sono morti insieme, l’auto sulla quale stavano recandosi nel bassopiano è precipitata in un burrone sotto il monte che ospita, in alto, un antico monastero.
Continuo a scrivere poesie, racconti, leggo, ma non come una volta, la vista si stanca facilmente. Ho dovuto accontentarmi, per qualche tempo, della luce delle candele, di lumi a petrolio. La città era assediata, mancava l’energia elettrica, scarseggiava l’acqua, c’era il coprifuoco.
Sono accadute tante cose in questa città che sembra fuori dal mondo, ma io, dopo essere tornata dall’Italia più di trent’anni fa, non sono più uscita dal giardino. Nessuno mi ha più visto, nessuno ha osato venire da me, sapevano.
E’ uscito Henoch, un mattino, nei giorni della guerriglia. Aveva in una mano una falce e nell’altra una pianta di rose; nonostante la scarsità d’acqua voleva farla crescere. I fiori chinavano il capo, appassiti, l’erba ingialliva, ma Henoch non si arrendeva, il giardino era la sua vita, ogni pianta una sua creatura. Sapeva che non doveva uscire, non so cosa lo abbia convinto ad aprire il cancello e a correre fuori, come se dovesse salvare qualcuno. Lo hanno trovato morto il giorno seguente, nella piazza con al centro una palma.

Non ho mai conosciuto un uomo. Ma lui, quel lui di pochi attimi, è fermo nel tempo, nel ricordo. Le piace quella collana?
E’ strano come il suono di una voce ascoltata una sola volta possa resistere, nella memoria, al trascorrere della vita. L’illusione era durata il tempo di vedere riflessa nello specchio la sua immagine, di sentire la sua voce, di voltarmi.
Lui e la ragazza bionda si sono avviati insieme chissà dove, io sono rimasta sola davanti alla luminosa vetrina, sono rimasta ferma a guardare cose che non vedevo. Tornando a casa, sconvolta da un’umiliazione che sentivo crescere dentro di me, mi sono chiusa nella mia camera. Non volevo più studiare, né vedere gente. E’ venuta mia madre a riprendermi. Prima di partire ho avuto la forza di andare a vedere se la collana c’era ancora, temevo che lui l’avesse comprata per la ragazza bionda. Quando l’ho vista sono rimasta a lungo davanti alla vetrina. Poi sono entrata.

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Anno 10, Numero 40
June 2013

 

 

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