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sulle orme di mia nonna

mônica eriko inoue

Non ho la minima idea di come quella piccola lavagna sia arrivata a casa nostra nella zona rurale di Dracena, paesino dell’interno dello Stato di San Paolo, Brasile. L’ho sempre vista lì, appesa alla parete della cucina: non appena un gessetto diventava troppo piccolo mia nonna ne prendeva uno nuovo da una scatola nascosta chissà dove. Ignoro anche quali passaggi commerciali ci fossero dietro a quei fumetti originali giapponesi tra la loro spedizione dall’altra parte del mondo e l’arrivo sugli scaffali del nostro magazzino, dov’erano custoditi gli attrezzi da lavoro della famiglia e i sacchi di caffè dell’ultimo raccolto. Quando siamo bambini ci interessa poco conoscere l’origine delle cose: ci sono e basta. Fra tutti gli oggetti che intravedo nello scenario sfuocato della mia infanzia spiccano immancabilmente quella piccola lavagna e quei fumetti giapponesi. Entrambe le cose, coincidenza o no, conducono a mia nonna paterna e alla sua madrelingua, il giapponese.

Come molte famiglie di un tempo, anche la mia era piuttosto numerosa. Mi domando ancora adesso come quella piccola casa di legno in mezzo alla piantagione di caffè fosse in grado di accogliere, tra le sue mura, ben dieci persone: i miei nonni paterni, i miei genitori, due zie, me e i miei tre fratelli. Da piccoli non sentiamo la necessità di capire il nostro background, non ci soffermiamo a indagare sulle nostre radici: ci bastava sapere che eravamo brasiliani dai tratti orientali in quanto nipoti di giapponesi, quattro immigrati sbarcati nel paese dell’oro verde all’inizio del secolo XX in cerca di una vita migliore. Quel concetto piuttosto semplice, tuttavia, non era sufficiente per farci comprendere la vera dimensione della scelta drastica e sconvolgente, fatta dai nostri nonni anni prima, di costruirsi una vita tutta nuova in un paese sconosciuto e culturalmente distante, e lì iniziare un’attività economica altrettanto diversa. Quella casetta al centro della piccola proprietà ricoperta di piante di caffè era, per noi bambini, un posto come tutti gli altri, anzi, uno scomodissimo posto, lontano dieci chilometri dal centro abitato dove si trovava la nostra scuola e dove abitavano i nostri compagni; per i miei nonni, invece, rappresentava tutto ciò che erano riusciti a conquistare in Brasile dopo anni di sofferenze e di duro lavoro.

Oggi mi pento di non aver dedicato a mia nonna l’attenzione che si meritava. Era una donna allegra che amava parlare di sé, della sua vita divisa apparentemente in tre capitoli netti: i primi sedici anni vissuti in Giappone, le difficoltà iniziali, le conquiste, la nascita dei figli e dei nipoti in Brasile e, come ponte fra quei due mondi, un’esperienza durata soltanto una cinquantina di giorni, ma sufficiente a segnarla per sempre, ossia, la lunga traversata tra il porto di Kobe e quello di Santos. Per illustrarci la sofferenza di quei giorni in mare aperto lei ci faceva vedere una sigaretta: aveva fumato per la prima volta sulla nave diretta in Brasile perché qualcuno l’aveva convinta che se l’avesse fatto avrebbe potuto affrontare meglio il freddo, la paura, la tristezza; si sentiva, da un lato, straziata dalla quasi certezza di non poter mai più rivedere i propri genitori lasciati in Giappone, dall’altro, terribilmente timorosa dell’avvenire nel nuovo paese. Quello stato d’animo, secondo lei, era stato accentuato dal malessere fisico, conseguenza delle condizioni precarie in cui erano stati costretti a viaggiare per settimane interminabili. Nel leggere sui nostri visi più il rimprovero per la sua debolezza verso quello che sarebbe diventato l'unico vizio di un’intera vita che la solidarietà per quell’esperienza terrificante, la nonna, con un sorrisino rassegnato, ci diceva: «Non potete nemmeno immaginare…».

Mia sorella più grande era l’unica a dimostrare interesse verso “il Giappone dei nonni”. Io e i miei fratelli, invece, vivevamo la nostra condizione con un certo disagio: nonostante fossimo brasiliani a tutti gli effetti venivamo chiamati “giapponesi” dagli autoctoni, considerati, a loro volta, gaijin (stranieri) dalla mia famiglia. Quei riferimenti equivocati innescavano dentro di noi sentimenti contrastanti soprattutto verso il Giappone. Non accettavamo che i nostri nonni, dal loro sbarco nel porto di Santos parecchi anni prima, avendo avuto, da allora, figli e nipoti in Brasile, non avessero mai fatto un minimo sforzo per imparare il portoghese. Forse è stato proprio l’eccessivo attaccamento dei miei nonni alla propria cultura ad avermi condotta, per tutta l’infanzia e buona parte dell’adolescenza, a rinnegare le mie origini. All’epoca non avevo la capacità per sospettare che il loro rancore nei confronti dei brasiliani poteva non essere del tutto gratuito: la stragrande maggioranza degli immigrati, in effetti, era stata costretta a lavorare inizialmente per i fazendeiros, molti dei quali non si erano ancora completamente resi conto che, a differenza dei loro schiavi liberati da poco, i lavoratori stranieri – giapponesi, italiani, tedeschi – quella libertà l’avevano nel cuore così come la consapevolezza dei propri diritti. Prima di riuscire ad acquistare quel fazzoletto di terra dove abitavamo, i miei nonni avevano vissuto non poche situazioni pesanti: fughe dalle fazendas in mezzo della notte inseguiti dal guardiano a cavallo, l’alimentazione quasi esclusivamente a base di banane acerbe, il razzismo dei brasiliani nei confronti dei giapponesi…

In campagna avevamo pochi giocattoli ma molto con cui divertirci: le foglie degli alberi diventavano soldi, le tenere spighe di granoturco, bambole, la terra umida schiacciata dentro a un barattolo e poi rovesciata, una bellissima torta da decorare con fiori appena raccolti. Studiavamo al mattino e al pomeriggio “giocavamo di lavorare” tra le piante di caffè: zappavamo qua e là e poi ci sedevamo all’ombra su un sacco di iuta a disegnare per terra con dei rami trovati in giro. Soltanto da poco ho associato la mia natura riflessiva, osservatrice e un po’ fatalista alla mia infanzia trascorsa in campagna: i contadini hanno lo sguardo sempre rivolto verso il cielo, rimangono completamente alla mercé dei capricci climatici, lavorano sodo dall’alba al tramonto tutto l’anno e rischiano di perdere l’intero raccolto durante una grandinata di pochi minuti o per il ghiaccio di una sola notte negli inverni più severi. Imparano, quindi, soprattutto a pregare e a sperare.

Tante erano le fonti di svago e di divertimento in campagna che non riesco nemmeno a immaginare a quali tecniche di persuasione potesse fare ricorso mia nonna all’epoca per convincermi di sedere accanto a lei di fronte a quella piccola lavagna per almeno un’ora al giorno e insegnarmi il giapponese. Mia sorella maggiore era riuscita a raggiungere un ottimo livello di lettura e di scrittura degli ideogrammi grazie a quel metodo casalingo e la nonna aveva deciso di scommettere anche su di me (i miei fratelli, appassionati di musica inglese, non erano affatto interessati a imparare “quella lingua di vecchi”). A differenza di mia sorella, tuttavia, a me non piacevano i fumetti giapponesi, il suo principale materiale di studio. Non capivo che cosa ci potesse trovare di così divertente in quei libri pieni di disegni e di “battute in nuvolette” al punto di voler trascorrere intere giornate seduta sui sacchi di caffè, rinchiusa nel magazzino, tralasciando persino gli studi pur di leggerli. Quando mio padre rientrava dalla città portando con sé la spesa mensile della famiglia e mia sorella, accorgendosi dei fumetti in mezzo ai pacchi di zucchero e di farina, li acchiappava in fretta e furia con la scusa di volerci dare una veloce sfogliata, sapevo già come sarebbe andata a finire: mia madre l’avrebbe sgridata, mia nonna l’avrebbe difesa, mio padre sarebbe rimasto combattuto perché, da un lato, non poteva permettere che sua figlia rischiasse di prendere brutti voti a scuola, dall’altro, la capiva dato che anche a lui piacevano i fumetti, e dalla sua mancata presa di posizione sarebbe stato, ahimè, sgridato da mia madre, difeso da mia nonna, mentre mia sorella, indifferente ai battibecchi, si sarebbe fatta trasportare in quel mondo popolato da animali parlanti e da samurai innamorati e lì sarebbe rimasta per un intero pomeriggio.

Il giapponese era la lingua in cui i miei nonni comunicavano non solo con i miei genitori e le mie zie ma anche con me e i miei fratelli, quindi, eravamo abituati ad ascoltarlo a casa fin da piccolissimi. La mia famiglia non aveva larghe vedute riguardo al nostro futuro professionale ed io ero troppo piccola per pensare all’utilità pratica della conoscenza di una seconda lingua, perciò non so che cosa mi abbia spinta ad accettare quel rituale giornaliero imposto da mia nonna. Da parte sua credo si sforzasse di trapiantare in Brasile, attraverso i suoi discendenti, le proprie radici strappate nell’attimo in cui la nave su cui viaggiava aveva alzato l'ancora dal porto di Kobe, desiderio di continuità che affligge in modo quasi fisiologico tutte le persone che lasciano il proprio paese.

Non so quanto tempo io abbia impiegato per imparare i due sistemi di scrittura sillabici, l'hiragana ed il katakana. Man mano che riuscivo a leggere gli ideogrammi le lezioni della nonna diventavano sempre meno pesanti e dentro di me cresceva un reale interesse verso quella lingua. Mi sentivo fiera quando, alla scuola media, i miei compagni di classe, stimolati dai loro genitori, cominciavano a parlare dell’importanza di conoscere una seconda lingua per poter trovare un buon lavoro da grandi. Ero convinta di aver imparato molto bene il giapponese ed ero sicura che un giorno, se avessi avuto la possibilità di conoscere il paese dei miei nonni, avrei addirittura potuto far finta di essere una del posto.

L’occasione mi si presentò all’inizio degli anni 90, periodo in cui le aziende giapponesi avevano un gran bisogno di manodopera straniera disposta ad eseguire lavori pesanti, sporchi e pericolosi nelle loro fabbriche. Reduce da un’adolescenza solitaria e dalla prima delusione amorosa, provavo una forte necessità di conoscere meglio me stessa ed ero convinta che cambiare aria partendo alla ricerca delle proprie radici mi avrebbe sicuramente giovato. L’ironia di un’economia che negli anni si era capovolta e aveva fatto scendere nell’oblio un capitolo importante della propria storia – l’emigrazione – volle che in Giappone io mi fossi trovata in una situazione paradossale: nel paese dei miei nonni, con un cognome giapponese, gli occhi a mandorla e gli stessi valori, ero comunque una gaijin e trattata come tale. Che il Brasile avesse ricevuto nel passato tanti loro connazionali in situazioni disperate, che la comunità giapponese a San Paolo fosse la maggiore fuori dal Giappone sembrava non interessare a nessuno in quel paese. Anche la comunicazione era piuttosto frustrante: quando riuscivo a fatica a comporre qualche frase intelligibile venivo spesso presa in giro dai colleghi per aver usato un termine dialettale od ormai inesistente sui vocabolari moderni giapponesi. La stessa delusione io provai nella lettura quando mi resi conto che, senza conoscere il sistema più complesso degli ideogrammi, il kanji, non sarei mai riuscita neppure a leggere un cartellone pubblicitario. Di ritorno in Brasile mi iscrissi ad un corso di conversazione in lingua giapponese all’università, ma a quel punto i miei progetti di vita non avevano più niente a che fare con il paese dei miei nonni.

Qualche anno dopo, con l’obiettivo di approfondire la conoscenza della lingua inglese per motivi lavorativi, iniziai a frequentare una chatroom e lì conobbi un ragazzo italiano del quale mi innamorai. Un anno dopo decisi di mollare tutto a San Paolo – dove vivevo e lavoravo – per raggiungerlo a Genova. Siccome nel periodo in cui avevo vissuto in Giappone mi ero sentita troppo brasiliana nonostante mi fossi sforzata per adeguarmi alla rigidità dei modi e del sistema di vita dei giapponesi, credevo che in Italia mi sarei trovata a casa. L’adattamento, tuttavia, non fu affatto semplice ed il ciclo buio e doloroso segnato da crisi disperate di saudade e di rimpianti si chiuse soltanto con la nascita di mio figlio. Gradualmente mi liberai anche da un sogno ricorrente – quello in cui mi trovavo nella mia casetta li legno, felice e protetta tra le piante di caffè – che, seppur bellissimo, rendeva i miei risvegli ancora più difficili.

Sono venuta in Italia per amore, non sono dovuta emigrare per motivi economici né sono stata costretta a salutare i miei genitori con la consapevolezza di non poterli mai più rivedere. La mia esperienza come straniera in terra lontana è completamente diversa da quella di mia nonna, eppure durante la nostra convivenza non mi sono mai sentita così vicina a lei quanto ora. Oggi riesco a immedesimarmi perfettamente nei suoi racconti nostalgici che – l’ho capito con il tempo – riflettevano una sola paura: quella di morire culturalmente senza lasciare tracce. Non ho avuto nemmeno il cuore di rimproverarla quando, qualche anno fa, pochi giorni prima della sua scomparsa, mi sono recata in fretta a Dracena per salutarla per l’ultima volta e l’ho trovata sul letto di morte fumando una sigaretta. E tutte le volte che mio figlio fa spallucce al mio tentativo di alfabetizzarlo in portoghese torno inevitabilmente indietro nel tempo in quella cucina profumata di caffè, seduta accanto alla nonna, io annoiata, lei ottimista, davanti a noi quel piccolo quadro nero tutto da riempire con la lezione del giorno.

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Anno 10, Numero 40
June 2013

 

 

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