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ritrovammo vecchie parole

gregorio carbonero

Tra stranieri, vecchi amici sconosciuti.
Alla mostra delle antiche rilegature
si parlava in un'altra lingua,
si parlava del presente passato.
To change your langue you must change your life
Derek Walcott

Eravamo a disaggio tra quelle vecchie parole,
confusi, tra quelle parole ritrovate.
Parole che non avevamo mai perso.
Ci si erano addormentate tra le dita,
corrose, brunite da una vecchia dignità.
Da molto erano rimaste celate tra le nuove menzogne,
tra le nuove consuetudini imparate con rancore.
Sembrava non servissero ad alcunché,
ma invece ci zittivano.
S’insinuavano appena per restituirci
dalla malsana malleabilità della memoria.

Non capita tutti i giorni avere parole così,
affabili come un gradino annerito e slabbrato.
Segrete, dire che erano come fradiciume e limo
sotto tronchi abbattuti, e dire poco, ma vero.
Parole cartografi di terre da sempre conosciute
e sempre vicine che bastava uno sguardo per rivisitarle.

Ma non erano irreprensibili, sfiorarle inavvertitamente
era essere scaraventati in un presente remoto,
in vecchi scantinati dove si festeggiava i giorni della ruggine,
i giorni dei fildiferro attorcigliati, delle ragnatele
spesse come stracci di lana, del miagolio di cuccioli
appena nati tra strofinacci sporchi di vernice e acquaragia.
E il ribrezzo, il brulichio di scarafaggi e formiche
sotto annerite, ammaccate pentole di rame.

Eravamo diffidenti del nostro immediato e fermo presente.
Persi tra cordiali incomprensioni e convinti di essere
della fratellanza del tradimento, rinnovammo
il patto segreto degli estranei.

Fuori un sole quasi disfatto affondava
nel pomeriggio della città collinare,
e non c’era angolo dove la luce si rimarginasse.
Noi nella penombra tagliata a spanne di luce,
nella sala della mostra delle antiche rilegature
dovevamo bisbigliare, le finestre erano socchiuse.
Fu allora congiura di accenti strambi, pronunce titubanti
voci spurie, infedeltà, andirivieni eccessivi,
slabbrature lessicali, sintassi felici di crepature.
Gravide di distanze, pesanti
di addii, di partenze, di confini.

Si parlava dei ritmi delle cose quotidiane che in una città nuova
potevano sovvertire la memoria,
dei cumuli di silenzio che ammutoliscono la coscienza,
di silenzi che s’incrostano tra le vertebre, duri
e di intricata lavorazione come il fondere di una campana,
di lingue vaste e rumorose come le città della memoria,
di varchi che si aprono nei gesti più consueti,
di crocevia nati a sorpresa nello sguardo,
di bestie afasiche e sorde che tendono agguati tra i passi più cauti
tra le premesse più soppesate,
del magma che muove gli strati dei sogni,
delle decisioni che attecchiscono come ferite negli occhi e nelle mani.

Persi, distanti in un irraggiungibile presente,
l'unico, fragile, falso, insidioso, che ci appartenesse
sembravamo studiosi dei laghi e delle isole della muffa.
I segni, gli itinerari intricati di anni già vuoti
ci ghermivano gli occhi fino alla cecità.
Andavamo a tentoni, ma non a ritroso.

Sulle pareti il caldo afoso ingialliva gli affreschi
e nella grazia delle figure gremite e sovrastate dal tempo
nascevano screpolature, macchie appena germogliate
orli di umidità, aureole dalla calce, sfaldature dai soffitti
e nuove ombre giunte dal passato si agitavano nella conversazione.
E nelle figure consumate cercavamo le incrinature
della storia nel presente, credevamo di vedere
ciò che da tanto avevamo perso,
ciò che da tanto ci era stato negato,
la indulgenza per il tempo che non scandisce più il passato.
Abbiamo creduto intravedere il logorio dell’immediatezza,
l'abitare nella dimora nel presente che si consuma
che si affaticata nel morire quotidiano,
che si affatica nell’essere relitto, detrito di esistenza,
fragilità che perdura, che protegge.
Andavamo a tentoni, ma non a ritroso.

Non ricordo nessuno che si sentisse estraneo alla conversazione.
Non ricordo nessuno che si sentisse scoraggiato,
sconfitto dall’ostilità delle parole ritrovate.
Nessuno che fosse distante dalle parole nuove che crepitavano
piene di vecchie voci. Chi, penso, avrebbe potuto
tenersi, straniero, distaccato o rassegnato,
nel suo mal puntellato silenzio;
e non essere tentato di parlare con le tempie martellate dai ricordi
e le dita tamburellando, cedendo all’urgenza
di ricordare l’attesa del viaggio
i preparativi ultimi tra le vecchie premurose consuetudini.
Chi non sentì, nella volta alta di quel salone antico, il fluttuare
di altri spazi senza forma, senza peso,
e la brezza che richiamava giorni d’ansia, dubbi, ripensamenti.
Chi non riascoltò il chiudersi di porte, stanze
che non si sarebbero mai riaperte,
finestre che si chiudevano su giovanili insidiose distanze,
e le decisioni che tagliavano in due quel presente remoto
il più urgente, il più pregnante, mai esistito e il più vivo.
E il cicatrizzarsi delle separazioni tra un passo e l’altro,
dopo una determinazione sofferta e tanto sognata e tanto soppesata.
Chi non si disse anch’egli smarrito, con l’esultanza
dello smarrimento che muove a speranza,
e non volle essere tra gli affanni
di quel cordiale, effimero girone dei dispersi,
e dei ritrovati nell’intransigente memoria.
E rimase separato considerando pesi e misure e non si tradì
e non volle invece malcerto, piegarsi
alla tentazione di parlare, e di dire cose ignorate,
appena nate e da sempre amate e da sempre attese;
e colte in quel momento unico a mani piene,
con la premura che non gli fuggisse una frase,
con l’ansia di non perdere tra una parola e l’altra
ciò che di più essenziale aveva da dire…
Andavamo a tentoni, ma non a ritroso..

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Anno 10, Numero 40
June 2013

 

 

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