El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Nota biografica | Versione lettura |

new generation

shirin ramzanali fazel

Anisa tiene gli occhi sbarrati nella stanza in penombra. In questo luogo l’oscurità non è avvolta soltanto dalla luminosità della luna e delle stelle. La luce dei lampioni stradali filtra attraverso il cotone liso delle tende. Talvolta il silenzio della notte è lacerato dal suono di una sirena. Allunga le gambe. E’ stanca di essere rannicchiata sotto le coperte. Il suo orecchio è teso, e la casa immersa nel silenzio. La notte trascorre lenta, ma lei non vuole guardare le lancette della sveglia sul comodino. Ascolta i minuti che transitano come secoli nella sua mente afflitta. Soltanto le immagini di guerra, sangue, gente ferita, bambini morti, il volto di suo marito Ridwan ucciso da delinquenti a Mogadiscio, le persone del suo quartiere sfigurate dal terrore le scorrono veloci davanti agli occhi. Era riuscita a fuggire dal suo Paese con i quattro figli piccoli.
Sono passati ormai otto anni da allora. Il governo britannico si è preso cura di loro: una casa, un sussidio per i figli, poi la cittadinanza inglese e un lavoro per lei. Anisa è una donna che non si piange addosso, anche se la sua situazione attuale di inserviente in una scuola è ben diversa da quella d’impiegata statale quale lei era a Mogadiscio.
I figli da crescere in un paese straniero, senza parenti su cui contare; l’unico rimastole è il fratello minore di sua madre, che però vive a Melbourne. Le sue vicine di casa le sente delle estranee, non come a Mogadiscio dove tutte si conoscevano e si scambiavano gli utensili da cucina, prendevano il thé insieme, chiacchieravano, a vicenda si prendevano cura dei bambini, preparavano cibi per le ricorrenze, si scambiavano le ricette, guardavano insieme i loro programmi preferiti alla televisione e si decoravano le mani l’un l’altra con l’henna. I vicini diventavano di fatto membri della tua famiglia allargata. Tutto ciò ora è passato. Aden, il figlio maggiore, è la sua spina nel cuore.
Prova dolore. Un dolore sordo che le soffoca il petto e le contrae i muscoli.
Aspetta di sentire il rumore della porta d’ingresso che si apre e i passi leggeri di Aden che entra furtivo come un ladro nella notte.
Solo allora può chiudere gli occhi.
Non si alza più per fare domande: “Aden, sai che ora sono? Dove sei stato? Lo sai che sono in pensiero per te? Con chi eri? Cosa facevi in giro a quest’ora della notte?”.
Una volta aveva minacciato di cacciarlo via di casa. Aden per due giorni non si era fatto vivo. Le sembrava di impazzire.
Ora c’è solo silenzio tra di loro.
“Chi è il ragazzo con i jeans larghi che gli scivolano dalla vita lasciando fuoriuscire l’elastico delle mutande?”
“Chi è quell’essere sempre con le cuffie alle orecchie, che non mi parla, che torna tardi alla sera, che esce con chissà chi?”
Non lo riconosco più il mio Aden, il mio primogenito, un pezzo del mio cuore!
“Chi è il ribelle, lo scontroso che circola ora nella mia casa come un fantasma?”
Ho cercato di farlo ragionare, di parlargli con dolcezza. L’ho addirittura colpito con un ceffone. Mi ha minacciata:
“Se mi metti le mani addosso un’altra volta, lo dico alle assistenti sociali”.
In questo Paese puoi essere denunciata se alzi le mani sui figli. C’è il rischio che le istituzioni te li possano portare via.
Il mondo, qui fuori, è preda di gang di giovani spacciatori, di pedofili, di mercanti di morte.
Il suono di una sirena echeggia nella notte facendole accelerare i battiti.
“Perché mi trovo in questa situazione?”
“E’ perché Aden non ha un padre?”
Le appare il volto di Ridwan …. La sua pelle levigata, il naso aquilino, gli occhi vivi e penetranti ed i suoi corti capelli neri. Com’è stata breve la loro vita insieme!
Un marito che non le ha dato grossi problemi. Era un tipo ostinato e quando prendeva una decisione era difficile fargli cambiare idea, ma Anisa sapeva che poteva contare su di lui. Egli si è preso cura di lei, é stato lui a farli evacuare durante la guerra, per mandarli al sicuro. Ridwan rimase a Mogadiscio aspettando che tornasse la calma. Non pensava che il conflitto peggiorasse. La notizia della sua morte li raggiunse quando erano a Nairobi.
“Nooo” rimugina Anisa, “Non può essere perché Ridwan è morto”.
E’ questa maledetta guerra che ci ha sradicato. Siamo dei numeri, siamo etichettati, siamo dei rifugiati: “Rifugiati Somali”.
Quante donne conosco che hanno mariti, ma essi non sono presenti. La mattina vedo solo uno stuolo di mamme che portano i bimbi a scuola. Le incontro ovunque, sole, a fare la spesa, nei parchi giochi, sugli autobus, negli incontri con gli insegnati.
I loro uomini sono diventati delle larve. I corpi afflosciati sui tappeti che bevono thé e masticano il khat per tutta la notte. Inebriati dalla droga essi intrecciano storie fantasiose che sembrano i fili di una ragnatela gigante che lentamente avvolge le loro menti. La mattina invece, come pipistrelli appesi dentro una buia caverna, dormono per non vedere la realtà e sfuggire dalle loro responsabilità.
Non lo avrebbe sopportato se Ridwan fosse diventato come uno di questi.
Stizzita e con il corpo rigido si domanda:
“Perché il mio Aden, il mio primogenito, un pezzo della mia anima si è trasformato così?” Si ricorda il giorno in cui fu chiamata dal preside della scuola. Aden aveva picchiato un ragazzino della sua classe. Anisa era molto preoccupata. Tornati a casa, con i pugni stretti e guardandola con odio Aden disse:
“You Somalis are pirates and terrorist! E’ così che lui mi ha insultato!”.
Ho visto il dolore negli occhi di mio figlio. Come potevo spiegargli che siamo gente che vuole la pace, quando la violenza è ancora rampante nel paese e giornali e i notiziari riportano soltanto notizie negative dalla Somalia?
Ora, Aden non mi ascolta. E’ diventato un teenager. Si parla dei teenager come se fossero una categoria protetta in questa società. L’età della vita in cui è quasi tutto lecito.
Io voglio proteggere mio figlio dalla droga, dall’alcool e dalle gang.
L’ho salvato dall’inferno di Mogadiscio per dargli un futuro migliore. Gli occhi di Anisa non piangono lacrime.
Suona il telefono, due squilli interminabili frantumano i suoi pensieri. Alza la cornetta:
“Halluu?”
La voce dall’altra parte suona metallica:
“Are you the mother of Aden Ridwan Mumin?”
“Who is you? Aden no here”
“ This is the police. Are you his mother?”
“Yes!”
“Madam, I am sorry, but we have to inform you that Aden has been shot. You have to come to the City Hospital”.

La cornetta le scivola dalla mano, le tremano le ginocchia. E’ come ricevere una pugnalata. Il suo grido viene inghiottito dalle mura di un vecchio appartamento, al sesto piano di una torre di cemento

Inizio pagina

Home | Archivio | Cerca

Archivio

Anno 10, Numero 40
June 2013

 

 

©2003-2014 El-Ghibli.org
Chi siamo | Contatti | Archivio | Notizie | Links