El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Nota biografica | Versione lettura |

conchita

arben dedja

Non sono mai stato in Spagna.
Eppure, durante l’infanzia ho conosciuto alcune delle migliori donne spagnole. È successo nella mia città, a Tirana. L’Albania era un paese chiuso e isolato, ma loro vivevano con noi. Andò così: finita la Seconda Guerra Mondiale, il Paese era da ricostruire e mancava una nuova classe dirigente. Migliaia di giovani furono inviati dal Governo a studiare nelle altre repubbliche popolari del blocco dell’Est e, per una questione di dimensioni, la maggioranza si recò in Unione Sovietica. In tanti, al ritorno, avrebbero portato con sé mogli e fidanzate. Orbene, è normale che gli studenti sposassero le ragazze del posto ma, con le spagnole, si andò oltre. Queste erano figlie delle famiglie comuniste fuoriuscite dopo la guerra civile spagnola, molte di loro orfane. Nate in Spagna tra la fine degli anni ’20 e gli anni ’30, cresciute in Unione Sovietica, avevano proprio l’età degli studi universitari quando gli albanesi, se usassimo una metafora recente, sbarcarono. Nacque una strana e forte affinità tra i giovani di questi due popoli distanti, che nella loro storia avevano avuto soltanto contatti sporadici e fortuiti.

C’era stato, ad esempio, (e c’è ancora) un personaggio delle fiabe albanesi: Katallani, un fabbro gigante antropofago, senza ginocchi, con gambe non piegabili grosse come tronchi e un solo occhio alla fronte, lontano ricordo dei mercenari catalani della Compagnia Catalana d’Oriente. Pare che non siano andati tanto per il sottile quando furono chiamati dall’Imperatore Andronico II Paleologo intorno all’anno 1302 per combattere i turchi che già minacciavano la penisola balcanica.

Poi c’era stato un altro incontro, datato settembre 1575, quando l’albanese Arnaut Mami, a capo di una nave pirata algerina, catturò nel golfo del Leone la galea El Sol con a bordo, tra gli altri, un certo Miguel de Cervantes Saavedra. Non saprei dire con certezza, ma spero non sia stato il nostro a tagliare allo scrittore la mano sinistra (per tenerlo come cimelio in una teca, oppure per inviarlo ai familiari, tipo lobo d’orecchio, intimandoli a pagare il riscatto – cosa che fra l’altro avvenne, dopo cinque anni di cattività).

E c’erano poi state queste giovani donne spagnole che apparvero per le vie di Tirana (non esistono delle statistiche, ma si dice che il loro numero sia stato intorno all’ottantina). Belle, spavalde, colte spose, due volte straniere. Io, bambino, ne conoscevo di loro: c’era zia Fina, pediatra, che aveva sposato il cugino di primo grado di mio padre, un anatomo-patologo, c’era zia Conchita, sposata con un collega di mio padre, c’era anche un’altra Conchita, medico, che sempre mio padre conosceva perché anche lei aveva studiato a Leningrado e aveva sposato un chimico. Parlavano un albanese corretto, un po’ scivoloso sulle consonanti e con le vocali molto aperte. Vissero con noi per più di trent’anni, amando, lavorando, crescendo figli, facendo le file davanti ai negozi di prima necessità, partecipando a comizi, al lavoro volontario di domenica… . La polizia segreta le pedinava come faceva con tutti i (pochi) stranieri che soggiornavano allora in Albania, ma loro sopportarono tutto questo con un sorriso dolceamaro.

Durante la guerra civile spagnola, un’ottantina di albanesi (tra Albania e Kosovo) si erano arruolati come volontari nelle fila repubblicane. E adesso la Spagna aveva contraccambiato, a stretto volo di paloma.

Ormai se ne sono andate. Alcune per sempre, altre per le terre di Spagna, portando con sé mariti, figli, figlie, nuore, generi, nipoti e nipotine. Mi immagino zia Fina, alta, dura, ultraottantenne, mentre sorregge suo marito nelle chiare mattine mediterranee, per le vie di una verde collina spagnola che stenta a diventare una duna. Ne è passato del tempo. Poco, per la storia.

Post scriptum. Non so bene perché ho scritto questo pezzo in italiano. Per raccontare ad altri lettori una storia che, si suppone, il pubblico albanese conosce? Oppure, (forse), per usare una lingua affine allo spagnolo e avvicinarmi così alla Spagna, dove, non sarei più tanto sicuro di non essere mai stato.

Inizio pagina

Home | Archivio | Cerca

Archivio

Anno 10, Numero 40
June 2013

 

 

©2003-2014 El-Ghibli.org
Chi siamo | Contatti | Archivio | Notizie | Links