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La mucca era in una macchia presso la strada,
addossata a un alno per sostegno,
mammella gonfia, respiro franto e aspro
come raspa. Avrei potuto annegarci
in quel liquido occhio a me rivolto.
Il vitello, seppur morto, era in posizione perfetta,
zampe davanti e testa fuori dall’anello di fuoco
della vulva. Troppo grosso, forse, o zampe di dietro
che avevano sfondato il sacco, dispersione di fluidi.
Per quanto tentassimo, non riuscimmo a liberarlo
e la carne intorno alle zampe cedeva
per la pressione della fune. La mucca
era allo stremo e barcollava indietro
a ogni nostro strappo. Leghiamola all’albero,
dissi, giacché ero il maestro e mi sentivo
obbligato ad avere una risposta, persino qui
sulla Via Maestra, cinque miglia a sud della città
dove l’isola s’aggrumava nel groviglio
delle sue origini. Veniva, per Dio,
lo giuro, questa scoria roana con la sua ombra
che si espandeva dietro, nei due sensi
come una Studebaker del ’52, veniva a pollici
mentre i nostri piedi slittavano tra feci e fango
ed erba molle. Sollevò la testa per vedere
che follia mai avessimo escogitato per veglia,
emise un lacerante gemito stile sacco di iuta,
e l’occhio liquido rifluì in assoluto bianco
Una casa non ha aspettative irragionevoli di viaggi o ambizioni imperialiste; una casa vuole starsene dove è. Una casa non manifesta contro partizioni o proteste portuali; una casa è un’oasi sicura, ancoraggio, luogo di riposo. Chiusa la porta a pretesti – avidità, calcolo politico. Una casa ricorda i suoi abitanti primi, azzarda paragoni: la donna che scuote la chioma su una soglia, l’uomo chino sugli arnesi e il suo pezzo di giardino. Cosa vuole una casa? Risate, rumori d’amore, per rinforzare le pareti; una casa vuole gente, un placet a persistere. Una casa non ha pietre da dar via; nessuna casa mai è stata accusata d’un reato, a meno che la privacy non sia considerata un crimine nella nuova normativa. Cosa vuole una casa? Salde commessure, cose a livello, acqua che sale nei tubi. Strappa via gli occhi, vieta il dramma di uscite, entrate. In qualche luogo fra i detriti un meccanismo cola tempo, nessun punto familiare perché una mosca possa planarci sopra Palestina 1993
La si poteva vedere il sabato sera,
a incidere cerchi precisi, in senso orario, alla pista di pattinaggio
del Moon-Glo, o camminare svelta
fra il campus e una casa verde a due piani,
dove la stanza era sempre a posto, il letto fatto,
i libri affratellati sugli scaffali.
Non lanciava pietre, lei, laurea in filosofia,
né dava fuoco a stabili; sebbene i conoscenti dicano
che odiava la guerra, sapeva della Cambogia.
A dire il vero, un filo di trucco lo portava, e il reggiseno,
e certo era più facile che sposasse un soldato
anziché maledirlo o mettergli un fiore nel fucile
Quando gli arsenali ardevano, lei studiava,
china su appunti, libri di logopedia, pagine
aperte alle sezioni invalidità, fisiologia.
E mentre gli altri in tumulto gridavano nei parchi,
lei aiutava un ragazzo con la lisca, Billy, a dire
Hiss, Billy, come una serpe. Proprio così, SSSSSSSS,
la lingua ben sollevata dietro i denti.
E adesso ronza, Billy, come un’ape. Senti l’aria
vibrarmi nella trachea quando respiro?
Poi, mentre in pieno sole attraversava il parcheggio
a mezzodì, il mondo le pareva un posto effimero, ma bello
un giovane soldato che l’aveva nel mirino,
si inginocchiò, come se volesse dichiararsi.
La sua dichiarazione, articolata, infallibile,
le fiorì dentro, le trapassò il collo,
recise la trachea, troncandole il respiro.
Ora chi studierà fino a notte fonda per Billy,
chi vigilerà la libertà rischiosa del suo eloquio;
e chi la vedrà pattinare al Moon-Glo
le otto piccole rotelle di legno
che tracciano infinite rivoluzioni sulla pista?