El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Nota biografica | Versione lettura |

il giardino

erminia dell'oro

Era un giardino, forse piccolo, ma per noi grande, il regno della scoperta. Avrebbe potuto essere un bosco, un cortile, una cascina, una stanza, una capanna, una roulotte. Ogni bambino ha il suo regno dello stupore, quando tutto è nuovo, sconosciuto, sorprendente.
Guardavamo incantate le farfalle, gli uccelli, gli insetti. Trasgredendo a tante raccomandazioni, lei, più piccola, coglieva un fiore, magico il suo profumo e la morbidezza dei petali sul viso. Parlavamo con il gatto che attraversava il giardino, gli raccontavamo le nostre scoperte, a volte si sdraiava accanto a noi ascoltandoci, immaginavamo risposte, consensi. Il vento arrivava all’improvviso, attraversava il giardino facendo tremare i fiori, portando via le foglie, scompigliandoci i capelli. Ridevamo eccitate, cercavamo di rincorrerlo perché continuasse a divertirci.
Un mattino passarono le camionette sul sentiero di terra davanti al giardino, seguite da uomini che correvano, gridavano, sparavano in aria. Mentre qualcuno veniva a prenderci per portarci in casa, li vedemmo scomparire tra nubi di polvere rossa. Non eravamo spaventate, quegli uomini erano grandi, immensi, avevano anche spade, turbanti, come certe illustrazioni dei libri delle favole.

Scoprii molti anni dopo che il fiume era soltanto un ruscello davanti al giardino ormai dissolto dal tempo. Si riempiva di acqua fangosa nel periodo delle grandi piogge.
Allora era immenso per noi, lanciavamo fuscelli, diventavano piccole barche veloci, lanciavamo strane foglie che si trasformavano in draghi. Volevamo sfidarlo quel fiume, bagnandoci, bastavano gli schizzi, dopo avere lanciato i sassi, per farci correre via ridendo.
Un solitario vagone se ne stava abbandonato sulla campagna oltre il ruscello. Oltre il giardino. Era la casa delle magie, il castello incantato, il luogo proibito, il rifugio di chissà quali maghi. Ci salimmo tremando, accompagnate da bambini più grandi, ci sedemmo emozionate nell’oscurità attraversata da un raggio di luce. A un richiamo scendemmo, nessuno doveva sapere che era nostro il vagone incantato, nostro l’avventuroso viaggio dell’immaginazione verso ogni possibile meta. Le grida lontane delle iene, la notte, ci rassicuravano. Le immaginavamo custodi del nostro vagone. Se sentivamo una discussione o un litigio provenire da casa mentre eravamo in giardino, ci sentivamo sperdute, disorientate. Si interrompevano all’improvviso i fantastici giochi. Per qualche attimo l’ombra oscurava ogni cosa.
Abramo, il materassaio, rifaceva i materassi in giardino. Lo guardavamo affascinate, ci raccontava storie di chissà quale suo mondo lontano. Afferravamo le parole che volavano con le piume nell’aria, qualcuna la perdevamo, ma la magia del racconto restava.
Un giorno lei non venne in giardino, e anch’io non uscii. Seguivo avanti e indietro la mamma che le portava da respirare il vapore dell’acqua con dentro le foglie degli eucalipti. Lei non mi parlava. La casa mi sembrò buia, ostile.
Poi entrò una grande automobile bianca in giardino. La mamma uscì, aveva in braccio lei, avvolta in una coperta. Salì sulla grande auto mandandomi un bacio. L’auto ripartì, il cancello del giardino si chiuse.
Non tornò. Andò in cielo, mi disse un nonno che non aveva mai parlato di cieli. Stavo in casa, non in giardino, il giorno in cui arrivarono parenti e amici per lei che non c’era. Un amico di famiglia, l’indiano con sei dita, un segno di fortuna, dicevano, si avvicinò a me e mi diede, sorridendo, una tavoletta di cioccolata. Erano tempi in cui la cioccolata non c’era, ma lui aveva sei dita in una mano. Ero persa in sensazioni che non conoscevo, come avvolta in una di quelle grandi nuvole nere che arrivavano correndo prima dei temporali. Non sapevo perché lei non sarebbe tornata, non mi bastava la spiegazione del cielo. Era solo anche il giardino.

Passarono molti, molti anni. Mia madre mi inviò, in una busta, un quadrifoglio. L’ho trovato sulla tomba di Roberta, scriveva, penso che sia per te. Fui felice, come se davvero lo avesse mandato lei, cogliendolo nel “nostro” giardino. E se penso allo stupore, all’incantamento, anche alla solitudine, alle paure che attraversano il mondo dell’infanzia, ai misteri non svelati, vedo il giardino, la sua luce, le ombre, i temporali, il vento, l’oscurità che scendeva rapida a dissolverlo.

Inizio pagina

Home | Archivio | Cerca

Archivio

Anno 9, Numero 39
March 2013

 

 

©2003-2014 El-Ghibli.org
Chi siamo | Contatti | Archivio | Notizie | Links