El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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l’ineluttabile

valentina a. mmaka

L’avevano scavata frettolosamente. La terra umida ammonticchiata ai lati della voragine non aveva un ordine lineare, bensì una scomposta distribuzione come se l’avessero spalata intuendo l’urgenza degli astanti di congedare il nuovo inquilino. Il vento fresco di ottobre sospingeva le fronde dei platani e le ombre si alternavano sulle lapidi di pietra conferendo al luogo quel soffio delicato dell’incertezza, dell’effimero che alberga negli animi di chi resta.
Lei era lì. Vestita del suo abito migliore. L’unico che avesse a disposizione nel suo procedere incondizionato sull’atlante del mondo seminando il frutto della sua imparzialità, equalizzando le sorti degli uomini senza distinzioni di sorta.
Mi guardava. Nella vastità miope del cimitero se ne stava silenziosa sul bordo della fredda cavità, con sorriso beffardo e provocatorio come una prostituta ferma sul ciglio della strada in cerca di una complice approvazione per quella sua sfacciata esibizione di sé. Era venuta a trovarmi ventisette anni fa, il giorno che seppellii mio padre e ora io le restituivo la visita, senza essere stata invitata. Allora, con la lucida consapevolezza di un bambino, l’avevo guardata diritta negli occhi liquidi, stretta in un informe dolore, senza capire il senso profondo di quella presenza.
In quegli anni la morte era una costante nel nostro paese, si moltiplicava ad ogni ora, ci alitava addosso, ci seguiva e braccava fin nella nostra intimità. In un giorno di febbraio mio padre si era ammantato nella sua ombra e io ero rimasta per raccontarlo. A distanza di ventisette anni era decisa a prendersi colui che da zelante regista del regime segregazionista, aveva scritturato mio padre nel suo ultimo film sulla lotta per i diritti civili.
Questa volta non ero in prima fila a compiangere il defunto. Me ne ero rimasta in disparte, in un angolo dove non potesse vedermi nessuno. Un’inquietudine ferma come una distesa di acqua tesa pronta a rompere gli argini, faceva tremare i miei pensieri che non tardarono a rincorrersi per conquistare il podio del pensiero dominante: Poteva la morte essere considerata una punizione o piuttosto una redenzione? Poteva il suo passaggio ripulire i peccati commessi in vita e restituire ai sopravvissuti serenità? Quali tormenti s’arrovellano nell’animo di chi vede la morte vicina e sa di non poterle più resistere? Vale più la morte di un uomo che ha difeso i diritti della sua gente o chi li ha soppressi in nome di un ideale sbagliato? Che esista una verità più profonda, più ampia di quella di una singola vita sacrificata? Che la morte di mio padre non sia più penosa di quella del suo carnefice? La storia ci insegna che non esiste una sola verità. “La storia non è scritta di un solo colore”, questo mi ripeteva la nonna Nozi quando da piccola sbirciavo nella scatola di legno dove conservava la collana e l’anello ricevuto in dono dal nonno il giorno del loro decimo anniversario. Forse la morte è il giudice imparziale che condanna tutti allo stesso modo e come tale non ci si può aggrappare a due giudizi separati. Lo scalpiccio dei miei sentimenti non accennava ad una tregua. Per quanto il tempo renda duttili i confini del dolore, questo può cambiare sembianze e cedere il passo a emozioni irrisolte. Solo a patto di riconciliarmi con la memoria e la verità avrei trovato il silenzio, niente voci ad assediarmi.
Il sibilo del vento di quella tarda mattinata diresse il mio sguardo sul cielo senza profondità, come se il tempo si fosse dilatato e il presente inghiottito nella gravità di un evento irrevocabile come una partenza definitiva. Che mi stesse scrutando, la morte, per cogliere il segno della mia approvazione nel vedere punito colui che aveva ucciso mio padre? Credo di averla delusa perché sebbene avessi nutrito un certo risentimento verso di lui per aver trascinato per sempre mio padre nel mondo dei ricordi, non avevo mai immaginato un epilogo tanto pietoso. Il funerale di Markus aveva l’aria di un contrattempo, come il guasto alla macchina mentre si è diretti ad un matrimonio. La fretta di arrivare e concludere la cerimonia per siglare un patto eterno. Ne presero parte sette persone soltanto. La salma dell’ex poliziotto doveva accontentarsi di pochi sguardi, pochi gesti, qualche lacrima appena accennata sul volto grigio della vedova che cercava in quella oscura cavità la ragione della sua liberazione. Quel giorno, sotto lo sguardo vacuo della vedova e nella grigia cornice del cimitero dove i nomi dei morti chiocciavano all’ombra di un cespuglio, sotto le fronde dei platani, un triste e inspiegabile senso di colpa si fece strada sostituendo le visioni del passato. Colpa? Per cosa? Forse di aver violato l’intimità sacra della morte che nessuna malvagità compiuta in vita doveva intaccare. Si poteva provare pietà e riconciliarsi con il nemico come fa Antigone che decide di salvare la morte stessa coprendola di un velo di dignità come l’ultima dipartita richiede?

Quando tre giorni prima aveva letto la notizia del funerale di Markus Van der Merwe, l’agente di sicurezza che ventidue anni prima aveva assassinato suo padre, poche righe in fondo all’ultima pagina del Mail&Guardian, l’idea di andare alla funzione non l’aveva solamente sfiorata come una leggera foglia che scivola dal suo ramo affidando al caso il suo incerto volo, aveva bensì abitato in lei per due notti, rendendola insonne. L’ineluttabilità dell’evento scaraventò Zoë nel passato. Il funerale si era concluso al riparo da clamori. Nessun turbamento aveva cementato in lei, quanto piuttosto un’insolita indifferenza. La città sembrava ignorare i suoi passi sull’asfalto e la montagna dietro la casa pareva una leonessa mansueta in procinto di addormentarsi.
Quello stesso giorno, nel tardo pomeriggio, Zoë ricevette una visita inaspettata. Dall’esterno, la casa color glicine appariva come un esile faro tra le altre case dai colori più decisi, ordinatamente allineate lungo i due lati di Rose Street.
La donna apparve sulla soglia avvolta in un abito nero stretto in vita da una cinta dello stesso colore, il collo avvolto in una sciarpa di lana color prugna con le frange che ricadevano sulle spalle come dita affusolate. I capelli tinti tagliati a caschetto incorniciavano un viso su cui gravavano i segni del tempo, le amarezze e i dispiaceri. La borsa nera nella mano destra e sotto il braccio un pacchetto di carta color tabacco tenuto fermo da uno spago grezzo.
Zoë osservò la donna dalla sciarpa prugna, una figura rigida e grigia come una statua elegante lasciata all’incuria. Il fatto di averla già vista la mattina del funerale non le bastò per avere la certezza che fosse lei.
“Sono la vedova van der Merwe!” Si presentò la donna in tono dimesso sulla porta. Ci vollero dieci secondi buoni perché Zoë si convincesse del fatto che la moglie dell’assassino di suo padre fosse lì davanti a lei. Stentava a trovare tra la ragnatela fitta dei suoi pensieri, un nesso, il senso di quella sua presenza sulla soglia della sua casa, della sua intimità.
Con un gesto della mano la donna le porse il pacchetto dalla carta color tabacco.
“Tenga, sono i diari di mio marito. Vorrei che li tenesse lei.” Zoë li prese in mano ignorando la possibilità di rifiutarli.
“ Non capisco… lei sa chi sono io?”
“Certo, non sarei venuta altrimenti. Lo so che possa sembrarle strano ma la prego, li prenda lei. Non voglio che mia figlia possa leggerli.”
“Perché? Cosa teme?”
Un istante di esitazione colse la vedova di Markus impreparata, tuttavia senza distogliere lo sguardo da Zoë: “Che possa non capire…”, rispose lasciando incompiuta la frase pronunciata con infantile convinzione.
“Capire? Mi sembra strano che lei voglia proteggere una donna adulta da suo padre e dal suo passato.”
“La prego… li tenga lei, forse potranno aiutarla…ne faccia ciò che vuole purché non diventino pubblici.” Sospirò la vedova stringendo i manici della borsa che continuava a tenere con la mano destra lungo il fianco.
“Cerca il mio perdono?”
“No!” Si affrettò a dire la donna arcuando le sopracciglia in un’espressione allarmata e continuando : “No, non sta a me chiedere il perdono per le azioni commesse da mio marito.”
“Lei sapeva, non è vero?” chiese Zoë alludendo ai crimini commessi da suo marito in qualità di agente della sicurezza durante il regime dell’apartheid.
Lì sulla soglia, sotto il patio della piccola veranda affacciata sulla strada, con la montagna distesa alle spalle, il silenzio scese tra le due donne in piedi una di fronte all’altra, inghiottite da un cono di luce sbiadita, quasi che il tempo si fosse fermato in quel preciso spazio, nei loro sguardi e il pensiero confinato in quell’involucro marrone in bilico nelle mani di Zoë. Con il pacchetto in mano restò ferma sull’entrata, il tempo che la figura della donna scomparisse, a poco a poco, dissolta nell’intrico delle strade illuminate dai lampioni.
Seduta sul grande tappeto circolare al centro della stanza, con le gambe incrociate, lo scartò con cura sciogliendo dapprima il nodo dello spago e scostando con singolare calma la carta scricchiolante, fino a quando le mani non incontrarono la superficie ruvida del contenuto. Sei quaderni dalla copertina nera. Di quelli usati nelle scuole. Ciascuno recava in calce due date. Probabilmente quelle a cui si riferivano gli eventi descritti! O magari indicavano gli anni in cui aveva scritto le sue memorie. Non aveva granché importanza!
Le ore traslocarono incerte sul quadrante dell’orologio fino al tramonto, quando le striature viola arancio del cielo cominciavano a mutare in esili filamenti argentei su uno sfondo rosa, schiudendo l’insolito sipario sull’ indaco della notte, ancora nascosta.
Zoë seduta in mezzo al tappeto, con i diari in mano, cavalcava i suoi pensieri cercando di schivare il pericolo di una morbosa curiosità. Con gli occhi attraversava le pareti della stanza in cerca di un punto familiare su cui fermarsi, l’immagine di suo padre nella cornice di legno rosso, sbiadita dalle mani del tempo. Accese il caminetto, come era solita fare nelle fresche sere di primavera. Le fiamme si avviluppavano al legno in cerca di una via per liberarsi. Per ore cercò di capire le ragioni della vedova e del suo gesto, verosimilmente liberatorio.
Aveva sfogliato quelle pagine scritte con calligrafia minuziosa senza leggerne il contenuto. A che sarebbe servito? A un diario si affidano luci e ombre, pensieri condannati all’esilio con l’intima consapevolezza che restino fedeli all’oblio. Cosa avrebbe potuto scoprire che già non sapesse circa la morte di suo padre? Zoë non voleva cedere al pensiero di leggervi in essi qualcosa che avrebbe potuto rivelarle un Markus van der Merwe più umano, che giustificasse il suo zelo di poliziotto col fatto di essere vittima di un sistema più grande di lui. Le sue azioni dovevano bastarle. Era lì la verità ultima di Markus: l’aver scelto una possibilità tra tante. Non era questa l’essenza ultima di ogni azione umana? Le domande di Zoë tacquero nella consapevolezza appena acquisita e nell’ultimo gesto possibile: affidare al fuoco i sei quaderni. Un velo steso definitivamente su trent’anni di silenzi avvolti, ora, nelle ampie braccia dell’ineluttabile.

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Anno 9, Numero 39
March 2013

 

 

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