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la terra degli aquiloni ubriachi

muin masri

Qui all’alba, su questa striscia di terra, le donne non partoriscono figli, ma sogni infranti. Qui al tramonto, su queste colline colore ulivo, non c’è posto per gli innamorati ma lapidi per i defunti. Qui sotto questo sole, la vita tra l’alba e il tramonto scorre breve e, non c’è tempo per le lacrime. Qui su questa terra santa sono tutti indaffarati, hanno fretta e senza ragione. Pochi saranno quelli fortunati che vedranno l’alba del domani.

Non si può spingere l’alba tanto più in là, si rischia ti bruciarsi presto, la giornata non avrà un bel tramonto e la notte è da ubriachi. Guardate come siamo messi, sembriamo degli acrobati senza un punto d’appoggio. Aquiloni senza controllo. Basta un soffio di vento o un niente e tutti giù per terra o in cielo a volare in mezzo alle nuvole.

Ci sono certi personaggi, certe storie più difficili da capire che da raccontare. In principio fu la guerra e poi vennero la fame e la miseria a portarci via la nostra innocenza. Nati, cresciuti e educati in mezzo alla violenza. C’era ben poco da salvare del nostro ieri e il domani è un miraggio, un sogno andato in frantumi.

Salim, era un ragazzino sveglio con la faccia d’angelo, troppo sveglio per i suoi sette anni. Un giorno, all’improvviso, perde l’uso della parola. Non si capisce se era stato per colpa del quel mostro d’acciaio, un carro armato di ultima generazione, che gli ha sbarrato la strada sotto casa o perché ha visto troppo sangue per terra. Sta di fatto che Salim da quel giorno non parlava più con nessuno e nemmeno con Hadija, sua madre. I medici, dopo un attento esame avevano stabilito che il ragazzino era sano, molto sano, ma un po’ spaventato. Tempo, ci vuole tempo e pazienza, dissero, e prima o poi ritornerà a parlare come un canarino all’alba. Intanto, hanno consigliato ai familiari di portare Salim in luoghi affollati, posti dove la chiacchiera era sempre presente. Al mercato o al bar, per esempio. E fu così Salim, accompagnato sempre dal nonno, è stato portato al bar centrale della vecchia città. Tra il fumo agro dell’arghilè e il suono delle tazzine del tè alla menta e del caffè turco e le preghiere e le bestemmie dei giocatori di carte accaniti che scommettevano anche grande somme, Salim cresceva. Nonostante la cura d’urto nessuno ha mai sentito più la sua voce, nemmeno una parola, ma tutti, non solo in città ma anche da fuori, parlavano di quel ragazzo muto e abile nel giocare le carte. Non perdeva mai una partita, era impossibile vincere contro di lui, l’espressione della sua faccia non trasmetteva nessuna emozione, muta come la sua lingua. Non per niente era soprannominato “la morte”. Giocare con la morte aveva un certo fascino e tutti, grandi e piccoli, sognavano un giorno di incontrare Salim.

Siamo nati già adulti. Prima avevo dei sospetti, ma la certezza l’ho avuta solo quando sono nati i miei figli. Chi ha ucciso il fanciullo che c’era in noi? A chi dovrei chiedere i danni?

Nascere in tempo di guerra ti cancella ben presto e per sempre il profumo del latte materno e ti lascia in bocca quel sapore di polvere miserabile. Sfide tra ragazzini a chi ha meno paura, più coraggio ad affrontare le mille forme del nemico. Coprifuoco, check-point, soldati armati fino ai denti e pronti a prenderti a calci nel sedere per futili motivi. I bambini odiano le umiliazioni.

Genitori ansiosi, vorrebbero vedere i loro figli crescere e in fretta, uomini capaci di reggere la paura strisciante che porta in serbo la guerra. I bambini odiano la preoccupazione altrui.

A scuola, in prima elementare eravamo trentanove studenti, un po’ sporchi e un po’ indisciplinati. Non esiste una foto a documentare il primo giorno di scuola. Nessuno aveva i soldi necessari per comprare una macchina fotografica. Nell’ultimo giorno dell’ultimo anno di liceo, nella foto ufficiale di classe, tra guerra e selezione naturale, c’erano solamente diciannove ragazzi, puliti e un po’ robusti. La guerra è anche questa, difficile sapere come sarebbe stato il tuo domani. Chi è morto? Chi è vivo? Chi ha rubato il nostro futuro? I soldati negano, giurano di avere sparato ad altezza d’uomo. I genitori pure, giurano di avere fatto il possibile per vederci grandi. Entrambi facevano il loro mestiere e noi in mezzo a due fuochi, quello dell’odio innato e quello dell’amore bruciante, avevamo poca possibilità di crescere come tutti gli altri, piano e senza complessi.

Violenza nei gesti, nelle parole e negli sguardi. Il fanciullo che c’era in noi ha nascosto i suoi giocatoli, sono segni di debolezza, in guerra i deboli sono i primi a cadere senza rialzarsi. Piangere un amico è una vergogna, bisogna giurare vendetta. Mai chiedere scusa o perdonare.

Un giorno d’estate, un signore ben distinto si avvicinò ad un gruppo di ragazzini alle prese con i loro aquiloni, la solita gara di abilità e pazienza. Quel giorno nessuno riusciva a fare alzare in volo il suo capolavoro. Tutti a maledire il vento traditore. Il signore chiese chi voleva un gelato in cambio di un favore semplice. Ahmad, stanco di aspettare il vento accettò senza esitazione, “Io grazie”. Per guadagnare il gelato, Ahmad doveva portare un piccolo pacco fin al mercato, consegnarlo ad un certo venditore ambulante di verdure. Un gioco da ragazzini. Ahmad è sempre stato il più rapido del gruppo. E così prese il pacco sotto braccio e di corsa verso il mercato, e noi tutti a guardarlo invidiosi. Un gelato piovuto dal cielo è il sogno di ogni ragazzo. Sarà la curiosità, sarà la giovane età, sta di fatto che Ahmad non ha potuto godersi il suo gelato, né quel giorno né mai. Si è fermato un attimo prima dell’entrata principale del mercato, si è messo all’angolo di un cortile e con calma ha aperto il piccolo pacco. Ahmad non era stupido e nemmeno un mago, ha capito subito di che cosa si trattava, era una sorta di giocattolo per adulti e un mostro per bambini. Sarà stata la fretta, sarà stata l’inesperienza, un attimo e Ahmad è volato in cielo come mille aquiloni in un giorno d’estate senza un filo di vento. Il boato ha richiamato tutta la città e il giorno dopo una folle commossa piangeva il suo nuovo martire. Un bambino poco più di un ragazzino è morto trasportando a sua insaputa una bomba a mano in cambio di un gelato. Infanzia strappata violentemente per la causa. E in nome della “causa” non si poteva piangere un amico, non si poteva accusare un signore ben distinto di essere il colpevole.

Non tutti i bambini adulti hanno accettato senza problemi di rinunciare ai loro giochi, ai loro sogni infantili. Omar, per esempio, era irriducibile, e forse per questo era sopranominato il “fuggitivo” o il “cammello”, a seconda della circostanza.

In città, ogni tanto una circo faceva la sua comparsa. Acrobati, animali e buffoni per qualche serata rendevano la nostra vita più leggera, quasi normale. Quasi. E appena partivano Omar regolarmente spariva nel nulla. La prima volta l’avevano cercato dappertutto e dopo un’intera settimana di ricerche vane l’avevano dato addirittura per morto. Il tempo che sua mamma asciugava le lacrime ed eccolo che appariva, sorridente e per niente impaurito. Si era nascosto nell’automezzo che trasportava i cinque cammelli. Quando la compagnia del circo lo scoprì non voleva confessare né nome-cognome né paese di origine, Omar piangeva, li pregava di tenerlo nel circo, avrebbe fatto qualunque lavoro, pure gratis, pur di restare. Niente, un bambino, poco più di un ragazzino, ha bisogna di stare in famiglia e non in mezzo agli animali. E così dopo la seconda sparizione consecutiva, i genitori di Omar hanno deciso di chiuderlo in casa finché la grande tenda del circo fosse rimasta in città.

Omar, giurava che da grande se ne sarebbe andato a lavorare nel circo, pure gratis, “L’unico mondo dove è permesso di rimanere bambini”, diceva. Il ragazzino, poco più di un bambino, non ha mai potuto coronare il suo sogno. Un giorno di manifestazione generale contro l’occupazione militare, un soldato ha sparato ad altezza d’uomo e ha centrato la sua schiena. Nonostante la condanna alla sedie rotelle, Omar continua a sognare di fondare un circo, una compagnia di ragazzi portatori di handicap. Un po’ per sentirsi normale, un po’ per rimanere bambini. Chissà perché un circo a sedie rotelle non si è mai visto. Forse farebbe piangere il pubblico pagante e non è il caso, tanto meno in tempo di guerra.

Al circo non ci vado mai, mi mette ansia, ma spesso mi capita di portare i ragazzi al parco giochi, al cinema o a mangiare il gelato per le vie tranquille della città. I ragazzi, poco più che bambini, di solito non camminano ma corrono di qua e di là. Impossibile tenere il loro passo o richiamarli all’ordine. Da lontano, guardo i loro gesti innocenti, ascolto l’eco delle loro risate infantili e penso a come sono fortunato, la vita è stato generosa con me, senza alcun dubbio. Mi sento risarcito della mia infanzia rubata. I miei figli sono nati lontano dalla guerra e hanno tutto il tempo per crescere. Lentamente. E poi qui il tramonto, nonostante il freddo e certi ricordi, non è niente male, anzi, sa di pace.

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Anno 9, Numero 39
March 2013

 

 

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